Potere e deferenza nel Mar Cinese meridionale

Anche se ci fossero soltanto un algoritmo artigianale e un informatico dilettante sarebbe facile scoprire quale parola è più usata nei documenti ufficiali della diplomazia cinese: “power”. Il concetto è interamente politico. Si tratta infatti del potere, della potenza del paese che riesce a farsi rispettare all’interno e all’estero. Un governo è forte e autorevole in un rapporto di causa ed effetto. Spesso deve incutere timore; succede quando l’autorevolezza si trasforma in autoritarismo. La traslazione di quest’ultimo concetto sul versante meridionale del Mar della Cina ne spiega l’evoluzione recente.

Perché la Cina conduce una politica spigolosa, al limite dell’aggressività in spazi marini lontani migliaia di chilometri dalle sue coste? Perché soltanto ora si ricorda di confini mai riconosciuti che non hanno comunque impedito rapporti di buon vicinato con stati verso i quali è ora sul punto di scatenare una tensione incontrollabile?

L’analista non può ovviamente limitarsi alla propaganda. Spetta a Pechino e alle altre capitali dimostrare la “continuità storica della sovranità”, testimoniata dalle rilevazioni più fantasiose: dalla presenza di pescatori alla costruzione di fari, da matrimoni dinastici a trivellazioni petrolifere. Queste eventi di cronaca non sono sufficienti a interpretare la storia. Piuttosto che stabilire chi abbia ragione in quei mari tormentati, è più utile cercare di capire perché la potenza dominante – la Cina – adesso allunghi i tentacoli del suo dominio. Esiste una serie di spiegazioni, tutte convincenti e ognuna insufficiente. La Cina è certamente più potente e può permettersi rivendicazioni basate unicamente sui rapporti di forza. Per il Giappone e i paesi dell’Asean (con i quali a vario titolo registra frizioni pericolose) è insostituibile per gli scambi commerciali e gli investimenti. È un ruolo nella globalizzazione che si è conquistato e del quale è inimmaginabile una smentita nei prossimi anni.

Forte di questa posizione, Pechino sembra poco incline a negoziare e a internazionalizzare le dispute. Preferisce confronti (o confrontation, nella più dura accezione inglese) bilaterali, dove può far valere al meglio il proprio peso. L’ultima costruzione di una piattaforma petrolifera nelle isole Paracels contese al Vietnam si spiega interamente con questo metodo. Mostrare i muscoli è inoltre un strumento per dimostrare la forza di Xi Jin Ping e della sua dirigenza. È il modo migliore – nel senso di più immediato ed elementare – per vellicare gli istinti nazionalisti, spostando l’attenzione della popolazione dai numerosi problemi interni. Meno convincente appare invece la giustificazione dell’avventura militare per il controllo delle risorse ittiche e petrolifere delle zone contese. Le riserve sono da quantificare ed eventualmente da proteggere. Il loro uso è ancora incerto e dal punto di vista economico potrebbe essere non conveniente iniziare la costruzione di infrastrutture in territori lontani e ostili. È molto più saggio rifornirsi di pesce e di energia sui mercati internazionali, da dominare senza tensioni militari.

È dunque opportuno rivolgersi nuovamente al concetto di power, se si vuole trovare una spiegazione che riassuma tutte le altre e le incolli in quadro coeso. La Cina sta cercando di ritrovare quel ruolo egemone che per lunghi secoli ha detenuto in Asia. Motivata dalle sue dimensioni, giustificata dallo splendore della cultura, innervata da una mai nascosta arroganza culturale, questa auto-considerazione si è espressa in 2 maniere. La prima è stata la grande diaspora cinese che ancora oggi controlla buona parte della sfera economica del sud-est asiatico. La seconda ha trovato forma nella riduzione degli altri stati a “tributari” dell’impero cinese. Non era necessario il dominio diretto, non era conveniente ricorrere al colonialismo come alle nazioni europee. Bastava riconoscere l’autorità di Pechino e simbolicamente riconoscerne la superiorità, gratificandola con tributi di sottomissione. I casi del Vietnam e della Corea sono soltanto i più conosciuti. Questa concezione non è mai stata dimenticata; anzi è stata ripresa (senza grandi sforzi) per giustificare rivendicazioni sopite da decenni. Se i territori contesi erano tributari della Cina, automaticamente ne riconoscevano la sovranità. La conseguenzialità è logica per la Cina, ma inaccettabile per i vicini, fondati sullo stato-nazione e sul rispetto del diritto internazionale.

/ 5
Grazie per aver votato!

Pubblicato da Alberto Forchielli

Presidente dell’Osservatorio Asia, AD di Mandarin Capital Management S.A., membro dell’Advisory Committee del China Europe International Business School in Shangai, corrispondente per il Sole24Ore – Radiocor

Una risposta a “Potere e deferenza nel Mar Cinese meridionale”

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.