Quando il dialogo acuisce le differenze

In Europa la “generazione Erasmus” denota chi ha avuto la fortuna di trascorrere un anno in un’Università estera ma nel Vecchio Continente. Il programma europeo, del quale hanno usufruito centinaia di migliaia di studenti, ha messo in contatto nazioni, culture, accademie differenti. Il motivo appare chiarissimo nella sua semplicità: si costruisce un’Europa senza steccati se le giovani generazioni apprezzano l’assenza di controlli e frontiere che non sono più inviolabili. Con mezzi pacifici, gli unici ammessi, si possono approfondire i concetti di mobilità, conoscenza, dialogo, tolleranza.

Gli esiti di Erasmus sembrano valere al contrario nel caso degli studenti cinesi negli Stati Uniti. I 250.000 universitari (il gruppo straniero più grande negli Usa) tendono a essere nazionalisti e chiusi. Paradossalmente, la vicinanza con altre nazionalità aumenta queste prerogative. La lontananza dalla madre patria acuisce il patriottismo, rendendoli insensibili alle critiche e refrattari ai paragoni. È quanto emerge da numerosi studi, una serie di rilevazioni coerente che ormai conferma il fenomeno in maniera inequivocabile. Gli studenti cinesi sostengono di reagire ai preconcetti dell’occidente, come se subissero un attacco personale, quando viene messo in discussione il loro paese. Hanno scelto le migliori università americane, ma rigettano i rilievi al modello cinese, anche quando hanno ragione di esistere, riguardo ad esempio la politica dei diritti umani, gli standard sindacali, l’inquinamento.

[tweetthis]Gli scambi culturali USA-Cina sono diversi da quelli dell’Erasmus in Europa. Dice @Forchielli [/tweetthis]

Il racchiudersi nella trincea culturale, nel recinto della diversità intoccabile ha due radici antiche. La prima è la cultura cinese, intrisa di orgoglio nazionale, cresciuta sulla unicità della propria storia, sull’assenza di forti contaminazioni. Anche quando la Cina, negli ultimi 35 anni, si è aperta al mondo lo ha fatto strumentalmente, per acquisire le capacità produttive delle quali aveva bisogno. Il contagio con l’esterno rappresentava soltanto l’effetto collaterale di una scelta epocale. La seconda origine è l’abitudine a considerare, nell’emisfero occidentale, la Cina come un mondo inconoscibile, lontano, diverso e probabilmente ostile. È un approccio spesso superficiale dal quale promana una volontà di conquista, come se l’immensa popolazione cinese sia da convertire religiosamente o trasformata in consumatori dell’improbabile “più grande mercato al mondo”.

Chi ha i capelli grigi ricorda lo storico colloquio tra Henry Kissinger e Zhou En Lai a Shanghai nel 1972. Il primo chiese:

“Come si fa a conoscere la Cina?”

La risposta fu fredda e distaccata:

“C’è un solo modo: studiarla.”

Su tutto comunque prevale la cronologia recente. Le giovani generazioni cinese sono abituate alla crescita. Conoscono soltanto l’aumento del benessere, considerano l’aumento del Pil come l’ordine naturale delle cose. Per loro l’avvicinamento, se non il sorpasso, della prosperità statunitense avrà comunque luogo. È soltanto una questione di tempo. Sono ottimisti, nazionalisti, spesso sordi verso i paragoni. Sono anche diversi dai loro padri, che hanno conosciuto le privazioni, il senso della conquista, gli anni eroici della Liberazione e del riscatto. Sentono le osservazioni come un’ingerenza, si rifugiano in una sinitudine che non rende giustizia della grandezza della Cina, una civiltà così grande da non dover considerare ogni critica come una congiura internazionale.

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Pubblicato da Alberto Forchielli

Presidente dell’Osservatorio Asia, AD di Mandarin Capital Management S.A., membro dell’Advisory Committee del China Europe International Business School in Shangai, corrispondente per il Sole24Ore – Radiocor

Una risposta a “Quando il dialogo acuisce le differenze”

  1. Egr.Sig, Forchielli
    lei dice ” Sono ottimisti, nazionalisti, spesso sordi verso i paragoni” : giusti appunti che credo vadano approfonditi.
    L’ottimismo certo nasce dalla condizione del loro paese, tutto proteso, e ancora per molto tempo è ben prevedibile, ad un miglioramento sociale cui l’Occidente ha già provveduto e che è quindi escluso dai suoi orizzonti.
    Su nazionalismo e sordità la questione è, credo, ben più profonda.
    Qui a mio avviso gioca quel loro “fondamento” culturale cui ancora noi, pur ormai studiato, facciamo poco caso ed attenzione e che però segna una differanza abissale con il nostro “fondamento” culturale. Qui la loro scelta, di rifiuto delle nostre visioni, è per me precisa e consapevole e sganciata da ciò che noi intendiamo per “nazionalismo”.
    E’ il rifiuto, con ogni probabilità, della cultura “farisaico-separatrice” che nasce negli insegnamenti sull’ “io-creato” dei tre monoteismi e che è alla base dell’Occidente.
    E’ questa cultura, che porta sempre ed inevitabilmente a separazioni e lotte e che vede l’individuo materialmente intoccabile e posto sopra allo stesso corpo sociale, che essi non possono accettare e rifiutano.
    E per me qui hanno ragione : si troverebbero d’accordo con un Occidente socratico ma noi siamo oggi ai suoi antipodi, e questo grazie all’ Ebraismo, all’Islam e ad un Cristianesimo che è antitesi degli insegnamenti di Gesù.
    Noi oggi siamo Farisei, quelli che Gesù condannava .
    Hanno ragione, per me ripeto, a restare fedeli alla filosofica visione orientale dell’uomo.
    Con ossequi.

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