Quando la vittima è il giallo. Dürrenmatt e la sua Promessa

Dürrenmatt la promessa

Devo, per una volta, iniziare con fatto personale: la mattina del 5 gennaio scorso mi sono svegliato con il ricordo vivido di un brutto sogno fatto quella notte: una bimba morta, indagini rocambolesche, indizi, sospetti. Mi sono detto: questo sogno mi ricorda l’atmosfera di un racconto di Dürennmatt, e con questa convinzione ho iniziato la mia giornata; appena arrivato davanti al pc, sono andato a rivedere un po’ di informazioni sullo scrittore svizzero, notando molto presto una circostanza sconcertante: quel giorno era il centenario della nascita di questo scrittore, drammaturgo e pittore svizzero, nato esattamente il 5 gennaio 1921.

Questa coincidenza è certamente degna di un racconto di Paul Auster, un autore che abbiamo trattato in questa rubrica, che spesso ci ha regalato storie di straordinarie coincidenze e casualità della vita; forse Dürennmatt, per chi crede a queste cose, ha voluto venire a visitare un suo lettore, a stimolarne il ricordo, ma quel che è certo è che a quel punto non potevo esimermi dal parlarvene, se non altro per festeggiare il centenario della sua nascita.

L’autore

Friedrich Dürennmatt (1921-1990) è citato spesso come una fra le voci più rilevanti ed innovative della letteratura in lingua tedesca, insieme a Max Frisch (anch’egli svizzero ma più vecchio di 10 anni); nato in una piccola cittadina agricola del Cantone Bernese (Konolfingen), figlio di un pastore protestante, a 14 anni la sua famiglia si trasferisce a Berna, dove il giovane Fritz studia prima al liceo e poi a Lettere e Filosofia; dopo anni di gioventù piuttosto tribolati, nel dopoguerra trova la sua strada nella letteratura, pubblicando frequentemente e con successo, e nel teatro, con al suo attivo importanti rappresentazioni in giro per il mondo (“La visita della vecchia signora”, del 1956, fu rappresentato con enorme successo in tutte le principali capitali del mondo – a Milano, nel 1960, al Piccolo Teatro con regia di Giorgio Strehler).

Certamente non possiamo esimerci dall’inquadrare Dürrenmatt nella società chiusa e conformista di un paese come la Svizzera che aveva fatto della sua neutralità, dentro lo sconquasso europeo della prima metà del secolo scorso, una specie di “rifugio” (“il grottesco dell’essere risparmiati” ha scritto Dürrenmat, dall’”immane vomito”, come chiamò la guerra): questo rifugio però certamente stava stretto a molti intellettuali che vollero in seguito aprirsi al mondo (“inventai il mondo che non avevo visto” – è sempre il nostro che descrive il senso del suo scrivere), oltre che alla critica della società perbenista, del consumismo, dello straniamento delle città e della società.

Il libro

Il libro di cui parliamo oggi è La Promessa (abbiamo letto l’edizione Einaudi che contiene anche La Panne, 1956-2005, pagg. 212, Euro 9.50) ed il sottotitolo ci apre già di suo un mondo che ci potrebbe tenere occupati per parecchio: “Requiem per il romanzo giallo”. E qui dobbiamo ricordare (e ne abbiamo parlato soffermandoci su Alessandro Robecchi e James Cain) quanto vasto sia il mondo del poliziesco, o del giallo, con le sue varianti e sfumature, come il noir, che arricchisce le trame gialle di una forte connotazione di carattere sociale e, in qualche modo, politica.

Ecco, va detto innanzitutto che Dürrenmatt rifuggiva questa classificazione fra gli scrittori di polizieschi, anche se ne ha scritti diversi, incluso quello di cui parliamo qui:

“io non scrivo polizieschi, io faccio filosofia”

ha dichiarato; ed allora perché questo sottotitolo? Ma perché l’autore vuole indagare un tema diverso, vuole anche qui dissacrare questo mondo di storie tutte perfette, di una giustizia che trionfa sempre, con le guardie da una parte ed i ladri dall’altra, questi omicidi che si risolvono ad incastro preciso, e magari, alla Agatha Christie, con scena madre finale e monologo del Poirot di turno.

Il libro si apre con una racconto in prima persona: il narratore va a fare un convegno a Coira proprio sull'”arte di scrivere romanzi polizieschi”, e, soggiornando in hotel, incontra un alto funzionario di polizia, il dottor H., che si offre di riportarlo a casa in auto; i due si fermano ad un distributore e la narrazione indugia su un “vecchio”:

“Non era rasato né lavato, indossava una blusa chiara, un po’ sudicia e macchiata, pantaloni scuri, lucidi di grasso, che erano stati un tempo parte di uno smoking. Ai piedi vecchie pantofole. Guardava fisso davanti a sé, instupidito, e anche da lontano puzzava di liquore”.

Poche pagine dopo, H. rivela al nostro narratore che

“…quella triste carcassa ubriaca che ci ha servito la benzina era il mio uomo migliore…era un genio…”.

Ecco come Dürrenmatt ci presenta il tenente Matthäi, soprannominato “Matthäi mattatutti”, che era

“…un solitario, vestito sempre con ricercatezza, impersonale, formale, senza relazioni, non fumava e non beveva, ma padroneggiava il suo lavoro da uomo duro e spietato”.

Che cosa ha trasformato questo brillante detective un in relitto? Il fattaccio è che a un certo punto della sua carriera, o meglio all’apice della stessa, egli si imbatte nell’efferato omicidio di una bambina: promette, è questa La Promessa, di assicurare alla giustizia il colpevole. Questa sarà la sua ossessione, e quasi riuscirà ad adempiere alla sua promessa, se non fosse…ci torneremo.

Dürrenmatt scrive in maniera puntuta, precisa, incalzante, talvolta concitata, senza tralasciare di fornirci i particolari anche minimi di quello che ci racconta; sentite come descrive l’albergo che ospita il narratore per il suo convegno:

“Un giornale finanziario e un vecchio settimanale era tutto quanto si poteva scovare da leggere, il silenzio dell’albergo era inumano, al sonno neppure a pensarci perché montava l’angoscia di non risvegliarsi. La notte senza tempo, spettrale. Aveva smesso di nevicare fuori, tutto era immoto, le luci dei lampioni non oscillavano più, neppure un colpo di vento, un passante, un animale, niente, solo una volta dalla stazione venne un suono, sembrò, lontanissimo”.

Questa tecnica narrativa quasi impressionistica deriva probabilmente allo scrittore svizzero dalla sua passione per la pittura, cui si è dedicato fin da bambino: egli ha dichiarato addirittura “sono le immagini a far scaturire i miei pensieri” a significare il fatto che l’approccio alla pittura ha spesso mosso l’ispirazione per scrivere: “Dipingo per lo stesso motivo per cui scrivo: perchè penso” ha aggiunto.

Ma torniamo al nostro tenente: mette tutto se stesso in questa indagine, sino a stravolgere la sua vita (su queste orme è tornato anche Pierre Lemaitre, autore francese, con le storie del suo Commissario Verhoven, che ha un’esistenza sconvolta dalle sue indagini) e seguirete la trama se vorrete leggere questo sconvolgente e bellissimo romanzo; sappiate che non c’è lieto fine, come abbiamo già capito; la morale la comprendiamo fin dall’inizio dal dottor H., che strapazza così il nostro narratore e conferenziere:

“Voi costruite le vostre trame con logica; tutto accade come in una partita a scacchi, qui il delinquente, là la vittima, qui il complice, e laggiù il profittatore; basta che il detective conosca le regole e giochi la partita, ed ecco acciuffato il criminale, aiutata la vittoria della giustizia. Questa finzione mi manda in bestia”.

La struttura di questa romanzo è davvero originale: il narratore, diciamo Dürrenmatt, assiste al racconto della storia del dottor H. (i due sono prima in auto, poi in un locale), e H. la racconta facendone, come abbiamo visto, una requisitoria contro il narratore stesso, così ipocrita nel creare le proprie storie a lieto fine. Il dottor H. la pensa come Dürrenmatt, ma non è lo scrittore ed infatti, beffardamente, il libro si chiude con una specie di ammonimento, di sfida al narratore “vero”:

“Ed ora, mio caro signore, inizi pure a raccontare questa storia come vuole. Emma, il conto”.

Chiudendo la recensione di Indignazione (Einaudi, 2009), di Philip Roth, abbiamo riportato una delle ultime righe della triste storia di Markus Messner, riguardante il

“terribile, incomprensibile modo in cui le scelte più accidentali, più banali, addirittura più comiche, producono gli esiti più sproporzionati”.

Anche l’esito della storia del tenente Mätthai può ricondursi a questo, alla banalità del caso, all’ironia della sorte, che non gli ha consentito di rispettare la sua promessa e lo ha portato alla pazzia. Antonio D’Orrico ha trovato forse le parole più giuste per l’esito di questa storia terribile, definita come lo “sporgersi sull’abisso della psiche umana”.

E poi uno non dovrebbe sognarlo…

 

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Pubblicato da Leonardo Dorini

Manager, consulente, blogger. Mi occupo di finanza ed impresa, amo lo sport. Ma sono qui per l'altra mia grande passione: la letteratura.

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