Quel bizzarro matrimonio tra produzione e produttività

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Cosa succederà se la massiccia produzione mondiale divorzierà dalla produttività? I concetti hanno convissuto a lungo, in un matrimonio di interesse reciproco che ha partorito straordinari risultati. Ora una crisi di usura sta contagiando chi più di tutti ha lucrato su questo pragmatismo: i mercati in via di sviluppo, siano essi emergenti, emersi o in formazione. I paesi non industrializzati – secondo i criteri dell’OCSE – stanno registrando un allarmante declino della crescita della produttività del lavoro, cioè del contributo alla formazione della ricchezza di ogni singolo addetto. Lo rivela uno studio della The Conference Board, il più accreditato centro di ricerca che dal 1916 da New York fornisce analisi sulle variabili macroeconomiche. L’ultimo rapporto rileva che nei paesi in via di sviluppo la produttività è aumentata del 3,3% nel 2013. Si tratta in assoluto di un valore rilevante, ma denota una flessione rispetto al 3,7% del 2012 e soprattutto rispetto ad un’oscillazione media compresa tra il 5 e il 7% nel quinquennio precedente. Tra tutti i paesi colpiti dall’arretramento – Cina, India, Messico, Brasile tra i più importanti – il Dragone ha avuto la migliore performance. Anche la previsione per il 2014 non è negativa (+6,7%), anche se distante dalla media del 9,6% del 2007-2012. Nonostante le differenze percentuali possano sembrare marginale, i risultati sono importanti per i paesi e per gli investitori internazionali. Questi ultimi ragionano non tanto sulla congiuntura, quanto sulle aspettative. Il differenziale dell’indice si sta infatti assottigliando, perché al declino della crescita si unisce l’aumento nei paesi industrializzati che è stato dello 0,9% nel 2013 e sarà 1,5% nell’anno corrente. È possibile che la rincorsa sia rallentata, che la ripresa in Europa e Nord America sia più consistente, od anche che in generale la crescita non possa durare troppo a lungo. Tutto ciò implica delle decisioni di investimento che possono privilegiare la maturità industrializzata invece che l’emersione terzomondista. Un risultato ancora più preoccupante deriva dalla decrescita della produttività dei capitali, che eccede l’aumento di quella del lavoro. Di conseguenza, la produttività totale (lavoro+capitale) ha registrato nel 2013 una contrazione assoluta. Pur nella diversa distribuzione dei valori, il campanello d’allarme è sonoro. Proprio alla crescita della produttività nei paesi emergenti l’economia si era affidata per compensare l’inevitabile rallentamento dei paesi industrializzati. La globalizzazione aveva trovato, soprattutto in Asia, un’accelerazione dei rendimenti dei fattori di produzione. Prima le tigri asiatiche, poi i tigrotti, infine la Cina, avevano sfruttato gli aumenti di produttività per uscire dal sottosviluppo. Erano a turno diventate fabbriche globali, che soddisfacevano le necessità della crescita, mentre rifornivano il mondo di merci a basso costo. Contemporaneamente, quei paesi crescevano e miglioravano. I contadini diventavano operai e la loro produttività si impennava, come quando i tecnici si trasformavano in ingegneri o l’elettronica si affiancava alla meccanica. Ora la crisi riduce i consumi, il credito langue e l’innovazione ne risente; probabilmente l’onda lunghissima della crescita senza ostacoli ha perso slancio. La produttività del lavoro non è incoraggiata e la produzione rimane solitaria a trainare la crescita, proprio quando l’offerta di merci – per non essere omologata – deve liberare risorse materiali e intellettuali.

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Pubblicato da Alberto Forchielli

Presidente dell’Osservatorio Asia, AD di Mandarin Capital Management S.A., membro dell’Advisory Committee del China Europe International Business School in Shangai, corrispondente per il Sole24Ore – Radiocor

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