Tutta colpa di Garibaldi

Nessun lungo discorso noioso sul brigantaggio dell’800, ma solo una breve premessa sulla responsabilità del Piemonte sabaudo e le colpe di Garibaldi, l’eroe dei due mondi che ha unificato l’Italia. Appena qualche decennio dopo Giustino Fortunato scrisse: “se il mezzogiorno non si fosse legato allo Stato nazionale italiano, non si sarebbe sottratto ad un destino africano o balcanico”.

Tuttavia l’unificazione politica portò ben presto alla distruzione dell’industria e dell’agricoltura del sud, causando una profonda decadenza dell’economia del mezzogiorno. Le due guerre mondiali accentuarono le differenze, polarizzando la ricchezza al nord; solo col fascismo si intravidero i primi investimenti in infrastrutture. Con la nascita della Repubblica Italiana e l’istituzione della Cassa del Mezzogiorno (1950) ad indirizzo politico, si impose un modello centralizzato para-industriale invasivo, che però ignorò la gestione della transizione dal modello agricolo. E arrivò il momento delle cattedrali nel deserto: l’IRI e la delocalizzazione imposta; l’ENI e l’inesistente politica energetica; il controllo politico. Tutto ciò portò all’adozione di un modello di “sfruttamento” con l’istituzione di un assistenzialismo di Stato: nessuno sviluppo, nessun progetto, solo interventi a pioggia.

Non è tempo di rivendicazioni e non c’è alcuna necessità o voglia di ricercare dei colpevoli. Credo tuttavia che sia necessario comprendere le cause profonde di un problema prima di poterlo affrontare con efficacia e tempismo. L’Italia evidenzia un grave deficit nella dinamica del reddito procapite, soprattutto al meridione. Il tema della convergenza della crescita economica non può essere affrontano soltanto sperando negli effetti indiretti derivanti dal territorio “avvantaggiato” e quindi trainante dell’economia. La situazione è peggiore di quanto sia evidente dai dati aggregati: il reddito pro-capite in Italia ha una disomogeneità geografica tale da non consentire analisi medie senza cadere in errore.  L’immagine mostra la profonda e netta spaccatura geografica nella capacità di creare reddito.

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Nessun governo dalla fine del 2° dopoguerra ad oggi ha modificato il circolo vizioso dell’assistenzialismo di Stato che ha portato ad una cronicizzazione della situazione. Le soluzioni sono state sempre parte del problema (Cassa del Mezzogiorno, industria pesante fuori contesto). Gli effetti si vedono in ogni indicatore economico che è fattore di benessere sociale e convergenza economica. Il Fondo Monetario Internazionale ha pubblicato una ricerca sull’Italia (qui) in cui si parla delle riforme promesse da Renzi: lavoro, giustizia, pubblica amministrazione. Risulta evidente come la crisi abbia colpito dove era maggiore la debolezza: tasso di disoccupazione e produzione industriale sono crollati soprattutto nelle regioni del mezzogiorno, quelle con bassa efficienza della spesa pubblica e con bassa istruzione (pag 6 o su twitter).

A distanza di oltre 150 anni dall’unità d’Italia le regioni del sud mostrano ancora delle profonde disomogeneità che influenzano in maniera determinante le dinamiche economiche: tasso di disoccupazione più elevato nelle regioni con inefficienza della giustizia (pag 14), crediti incagliati più elevati (pag 17 ), inefficienza della spesa pubblica ed effetti sul reddito (pag 29), e relazione fra scolarizzazione e tasso di disoccupazione. La percezione di una necessità di intervento è evidente anche dalle statistiche che mostrano una esclusione, forse definitiva, dal mercato del lavoro in quelle regioni dove sarebbe necessario proprio il contrario (rif: Thomas Manfredi).  Queste profonde differenze dovrebbero rappresentare delle importanti lezioni per calibrare le priorità delle riforme da cui partire immediatamente.

Ecco un elenco di fattori domestici che, se affrontati, potrebbero migliorare il sentiero di convergenza: crescita della popolazione, capitale umano, tecnologia, infrastrutture, sound economic policy, disordini sociali o problemi sociali, regolamentazione trasparente (Rif. Solow). ‘Casualmente’ questi stessi fattori incidono anche sulla dinamica della produttività dell’intero paese. Aver ignorato queste problematiche, o proponendo soluzioni di facciata (prima #berlusconite, adesso #annuncite) ha reso l’Italia particolarmente vulnerabile, incapace di rivedere il modello di sviluppo e prona alle dinamiche globali senz’armi per coglierne le opportunità (se non in alcune aree di eccellenza). Il deterioramento delle condizioni di vita, soprattutto nelle regioni del mezzogiorno, è stato causato dal forte rallentamento della produttività negli ultimi decenni (grafico).

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La causa delle divergenze geografiche nord-sud non è stata nemmeno l’adozione di un regime di cambio fisso. Dal report “Convergence of EU regions, measure and evolutions by Philippe Monfort sembra che l’adozione dell’Euro abbia ridotto le disparità regionali intra-euro.

Possiamo concludere con “la cura”: 1) riduzione dell’eccesso di debito pubblico e aumento del risparmio privato presente e futuro (es. riforma delle pensioni); 2) sviluppo del capitale umano: riforma del mercato del lavoro che sia più inclusiva e consenta un maggiore allineamento dei salari alla produttività; 3) rimozione delle distorsioni agli investimenti (es. legalità, burocrazia, liberalizzazioni, stabili regimi di tassazione); 4) riforme dell’assetto istituzionale (potere legislativo più efficace; federalismo fiscale che porti a responsabilizzare la spesa decentrata); 5) attente politiche di redistribuzione, volte a superare definitivamente l’assistenzialismo di Stato.

Cosa c’è di più semplice? Basterebbe guardare gli altri, per certi versi copiare. Tutti sanno quali riforme sarebbero necessarie,  e come sempre, per migliorare bisognerebbe cominciare dalle debolezze. Purtroppo dalle slides fornite su passodopopasso.it di riforme in progress adatte ad affrontare il problema alla radice ce ne sono ben poche. Per il mezzogiorno d’Italia, il centralismo assistenzialista senza progettualità rimane ancora il progetto principale anche di questo Governo di “giovani” professionisti della politica.

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Pubblicato da liukzilla

Wealth/Asset manager. Ha sposato la causa dei bond ed è ossessionato dalle banche centrali.

26 Risposte a “Tutta colpa di Garibaldi”

  1. E’ certo.
    L’impiegato di ente assistito in Basilicata ha ricevuto lo stipendio in euro come l’operaio di una Acciaieria. Ma chi ha prodotto più valore aggiunto? E chi è stato più penalizzato dalle politiche di commercio globale?
    sinbad

  2. La cartina sul PIL pro capite è interessante per alcuni aspetti troppo spesso sottovalutati.

    Una domanda che nessuno si pone è: perchè, per quanto riguarda il PIL, l’Europa è fondamentalmente centripeta? (perchè i blu sono al centro?)

    Beh, a parte fenomeni puntuali come il petrolio nel mare del Nord, la geografia conta moltissimo. I flussi delle merci (e quindi anche delle idee economiche) passano tutte per il centro perchè, per come è fatta l’Europa, c’è un centro (potremmo chiamarlo “renano” ) e tante appendici (L’Italia è una di queste).
    Un’osservazione che relativizza di molto il successo mittel-europeo, vero?

    Ma se questa visione è vera per il PIL, non lo è su altre prospettive. Prendiamo la Sicilia: se esiste una Cultura mediterranea, probabilmente ne rappresenta il fulcro. Non solo. Se fossi uno strategia militare, dal punto di vista italiano è la Sicilia il mio punto di riferimento per la Sicurezza.

    La vita è fatta di tante dimensioni, non solo quella economica.

    Sorge qui una domanda: cosa vuole essere l’Europa? solo Economia? se così fosse, facciamo prima ad andare tutti a Stoccarda, Basilea, Monaco.

    Se invece si intende qualcosa di più, forse sarà il caso di cominciare a costruirla veramente, dalle fondamenta. E l’aspetto economico è solo l’ultimo step, il tetto…ma l’abbiamo fatto diventare il primo, lo scavo.

    E’ alcune personaggi ne hanno la piena responsabilità. In Italia, penso ad Amato, Ciampi, Prodi. Una responsabilità storica.

    “Ma era inevitabile!!!” (sic!)

    sinbad

    1. Punto di vista economico non è superiore ad altri fattori, ma sintetizza quello che per me rimane un obiettivo primario: il benessere sociale. Nella sequenza di cose noiose che ho scritto nell’articolo ho elencato legalità, burocrazia, che facilitano la vita senza necessariamente essere tradotti in maggior reddito procapite. Ben venga guardare l’importanza di altri fattori, ma non perdiamo di vista ciò che migliora le condizioni di vita.

      Sulla Sicilia mi fai un assist insperato. La Sicilia è stata colonizzata, sfruttata, masticata e sputata tante di quelle volte da non esser in grado di scriverle tutte. La Sicilia è stata centro di civiltà troppo tempo fa, solo prima dell’impero romano. Adesso è periferia, è frontiera. Produce eccellenze, ma si vive nel degrado. È luogo di cultura e di inciviltà allo stesso tempo. È luogo di fermento intellettuale e al contempo di assoluta immobilità. È luogo dove il parlamento regionale vive di sfarzo, alimentando il bacino elettorale attraverso l’assistenzialismo di Stato. Dove è possibile che un capoluogo di 150mila abitanti (SR) non funzioni la chirurgia pediatrica mentre si spendono fior di quattrini per ristrutturare il palazzo della provincia.
      È il luogo dove per andare in treno da Catania ad Agrigento si perde più tempo che per andare da Milano a Napoli e ritorno. È il luogo dove un imprenditore non può assumere perché, nonostante la legge regoli tempi e modi di relazione con le autorità, deve pagare tutti i tecnici e politici del comuni per usufruire di un servizio che già paga con le tasse.
      Giustino Fortunato aveva torto già da allora: la Sicilia non si è affatto sottratta alla balcanizzazione o africanizzazione nonostante l’unificazione.
      Ecco, te la sei cercata 🙂

  3. No anzi…bisognerebbe aprire un dibattito. Perché la domanda è: l’Europa è una soluzione alla Sicilia? Questa Europa? 🙂
    Sinbad

    1. Prima di una soluzione europea vorrei che ci fosse una soluzione italiana della marginalizzazione delle regioni meridionali ed in particolare della Sicilia. Ed ogni soluzione sec me deve passare da quei 5 punti. Non c’è altra via.

  4. Infine e sempre si torna sulla questione meridionale…
    Da “terrone” che vive e lavora al nord non posso che condividere il punto di vista di chi (come Carlo Levi fece mezzo secolo fa) sostiene che il meridione divenne allora “colonia” del Nord e che, soprattutto, la classe contadina divenne vittima e carne da macello per gli appetiti degli industriali e dei ceti produttivi urbani del Nord (ma non solo).
    Tuttavia in tutti i discorsi su come far uscire il Sud del paese dalla sua sacca di decadenza (che ha ormai contagiato il Nord) mi sembra che si ometta sempre un particolare (per necessità scientifiche invero cioè perché non si hanno dati certi ma solo supposti): ovvero l’economia sommersa.
    Il Sud è anche povertà diffusa, è vero senz’altro. Ma la misura della sua miseria (e della sua ricchezza) è veramente difficile da conoscere e non solo per via delle Mafie, ma perché al Sud, da secoli, si è imparato come nascondersi allo stato Italiano in quasi ogni transazione economica quotidiana (cosa che al Nord si sta imparando solo in tempi più recenti).
    So che in tutto questo vi è molto luogo comune, ma vedere quanto si spende per un matrimonio al Sud (quasi sempre principeschi) o entrare in una casa del Sud (troppo spesso farebbero invidia al Principe di Salina) e vedere i rapporti sul reddito medio pro-capite di Sicilia, Calabria, Puglia, ecc. ecc. dà da pensare.
    In questo senso credo che la prima cosa che dovrebbe fare un governo, un qualsiasi governo di qualsiasi colore politico, dovrebbe essere il far emergere le zone grigie e zone nere dell’economia. Le misure prese a prescindere da quest’azione di chiarezza lascerebbero il tempo che trovano.

    In questo senso, almeno per quel che riguarda l’incentivazione nel pagare le tasse (perché la voglia di pagare le tasse può essere incentivata) sono favorevole al federalismo fiscale (punto 4) purché questo federalismo si traduca anche in partecipazione diretta, da parte del contribuente, sul dove e sul come destinare la maggior parte dei (suoi) proventi delle tasse (lasciando che solo una parte minima sia decisa dalla politica).

    1. A mio parere, un governo lungimirante dovrebbe considerare il sud come una risorsa e non una sacca di problemi da scardinare o una fonte di voti da cui attingere. Il problema delle tasse è specchio dell’assenza dello Stato in ogni sorta di servizio indivisibile essenziale: dalla legalità, alla giustizia, alla sanità, e perfino l’acqua. Con ciò non giustifico affatto l’evasione, anzi la condanno, ma credo che ogni intervento parziale che voglia risolvere solo un aspetto della questione meridionale, ignorando il contesto, è destinato a fallire.
      Spero solo prima o poi arrivi un governo lungimirante… prima o poi

      1. Leggendo un po’ di cose, ho notato che prima dell’Unità d’Italia il meridione avesse una buona economia ed un valido tessuto industriale: http://www.ondadelsud.it /?p=1879 e http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/pubsto/quastoeco/quadsto_04/en_Qua_Storia_eco_n4.pdf
        La tua analisi, a mio avviso corretta, considera però la fase storica che va dal dopoguerra ad oggi. Quanto può, secondo te, aver pregiudicato tale tessuto un’unione monetaria in regioni differenti per industria/economia e inflazione?

        1. Silvio, grazie dei links, molto interessanti soprattutto quello di BoI. Anzi, lo utilizzo uno su twitter per ulteriore diffusione dell’articolo. 🙂
          Riguardo alla tua domanda, ho cercato di separare il periodo pre guerre mondiali, con il post 1950. Fino al 1910 c’è stato un assoluto smantellamento del tessuto industriale ed agricolo. Fra le due guerre, il fascimo ha portato un po’ di infrastrutture (ferrovie, porti, strade). Il periodo post bellico dal 1950 inaugura una nuova fase, quella dell’assistenzialismo di Stato, lo stesso approccio che persiste al giorno d’oggi, reiterato da tutti, dico tutti, i governi degli ultimi decenni. L’ingresso nell’unione europea ha creato degli effetti di distribuzione anche all’interno delle regioni a reddito pro-capite più basso. Il fatto di avere accesso a mercati più ampi, ma senza il “vantaggio relativo” del deprezzamento della valuta, ha creato vincitori e perdenti intra-mezzogiorno. Nella ricerca a cui faccio riferimento, https://pbs.twimg.com/media/B0tu3CoIIAAi_Xg.png, si evidenzia l’effetto per regione dell’adozione di un cambio fisso. La comparazione è “linea nera” con “linea rossa”: non c’è specifica penalizzazione delle regioni a basso reddito. Servirebbero ulteriori approfondimenti, ma sono abbastanza convinto che sia un’analisi ragionevole.
          Riguardo alle prospettive, credo che i 5 punti che ho identificato come cura dovrebbero essere adottati con maggiore fermezza al sud, in modo da trovare un nuovo modello di crescita endogena per ogni area di sviluppo. L’illusione del temporaneo godimento di deprezzamento del cambio, tipiche del passato, ha solo allontanato l’adozione di un modello basato sul valore aggiunto (domanda globale) e non sulla competizione di prezzi (svalutazione moneta). Tale passaggio è ormai irrinunciabile, non servono più traferimenti a pioggia da fondi per il mezzogiorno. Serve finalmente un progetto. La rinascita dell’Italia tutta non può che passare dalla rivitalizzazione del mezzogiorno.

          1. Liuk, mi fa piacere che i link siano di tuo interesse; in qualità di tuo follower su tw, sarò ben felice di vederlo postare ;).
            Rispetto all’unione monetaria da me citata nel commento, intendevo non l’adozione dell’euro, ma l’adozione della Lira nel 1871. Mi pare che la dinamica di de-industrializzazione possa aver inizio negli anni successivi. Sia chiaro: non intendo dire che uno sviluppo economico/industriale non debba anche essere endogeno, come perfettamente tu hai descritto sia nell’articolo che nel commento alla mia risposta, ma.. Ma ogni area economica/industriale ha peculiarità differenti dalle altre (in caso contrario saremmo o tutti tedeschi o tutti cinesi ;)). La mancanza di una politica monetaria, assente dal 1871, potrebbe aver spostato il meridione da uno status di produttore ad uno status di consumatore (via sussidi)? Un po’ come è accaduto dopo l’unificazione della Germania, nella quale ad oggi i lander della ex Germania Est da produttori (anche se in una economia pianificata) sono diventati consumatori.
            Chiarisco un ulteriore elemento: la sola politica monetaria è anche a mio avviso assolutamente insufficiente per una sano progresso economico. Ritengo sia assolutamente ovvio che sia necessaria una buona politica economica, energetica, industriale e perchè no, demografica.

  5. Non ti saprei dire quale ruolo abbia avuto la pol mon del tempo nell’alimentare quella fase di “assimilazione”. In ogni caso, la comprenderei fra le politiche di governo (a quel tempo abbastanza indistinta). Pensa alle guerre commerciali (francia): si facevano con gli accordi incrociati e le tariffe, non con la “gestione” dei tassi di cambio.
    Concordo al 100% su:
    1) “ogni area economica/industriale ha peculiarità differenti dalle altre”
    2) “necessaria una buona politica economica, energetica, industriale e perchè no, demografica”
    Ogni regione dovrebbe seguire il proprio sviluppo (endogeno) di crescita, a prescindere dal modo in cui viene gestita la sovranità della moneta o il tasso di cambio.

  6. Francamente non trovo l’analisi dell’articolo particolarmente illuminante, e le “ricette”, sono una sinfonia già sentita, un po’ scontata, sinceramente in certi punti poco condivisibile, al di là della banalità.
    Come ha fatto notare un lettore in un suo commento è senz’altro vero che il tessuto produttivo e industriale in generale del Sud Italia era senz’altro più efficiente prima dell’Unità, per il semplice motivo che il Sud ha subito, dopo l’annessione da parte del Nord, le stesse dinamiche di flessione della competitività della propria economia nei confronti del Nord che ha subito l’Italia (e i paesi periferici in generale) nei confronti della Europa centrale e della Germania in particolare.
    E’ ormai patrimonio dell’analisi economica abbastanza acclarato il fatto che economie strutturalmente diverse che adottino la stessa valuta non possano coesistere in armonia, se non con la trasformazione di una delle due in acquirenti, tramite sussidi a pioggia (il Sud) e l’altro in produttore/venditore, che presta o redistribuisce parte dei profitti ottenuti grazie al vantaggio competitivo (il Nord).
    Bisogna togliersi dalla testa che questo costituisca un discorso “complottista” o “politico”, è semplice presa d’atto di una situazione di disparità economica che implica l’impossibilità di stabilire i presupposti per un corretto sviluppo. Punto. Se è stato possibile in passato grazie ai regimi di cambio flessibili ottenere un certo sviluppo pur in situazioni di disparità o disarmonia, contesto che avrebbe permesso di lavorare in modo proficuo e senza affamare la popolazione o costringerla ad accettare le cosiddette “riforme”, per cercare di ridurre progressivamente le disuguaglianze, di scuro la rigidità dei cambi e l’impoverimento delle persone non potrà favorire maggiormente lo sviluppo delle armonie.
    Il solito discorso sulle cosiddette “svalutazioni competitive” è uno spauracchio e una specie di “vergogna” sbandierata in modo totalmente ideologico, in quanto la flessibilità dei cambi è un normalissimo strumento di adeguamento delle economie ai disequilibri che si vengono a creare, che ha però la tragica (agli occhi di chi detiene il potere) conseguenza di non scaricare il peso degli shock solo sulla popolazione ma anzi di ridurne l’impatto, costringendo i settori più ricchi o titolari di rendite a farsi carico per la loro parte dei “sacrifici”, eventualmente necessari. Ma guarda un po’… Eliminiamola subito!
    Personalmente in realtà, coltivo oggi moltissimi dubbi sul fatto che un’economia priva di cambi flessibili e completamente “armonizzata” sia auspicabile. Studi di numerosi economisti di primo piano dimostrano come in realtà le economie più efficienti siano quelle più piccole, e dotate di sovranità monetaria. Il cambio flessibile favorisce uno sviluppo differenziato ed autonomo delle varie aree geografiche, consentendo il rispetto e la valorizzazione delle peculiarità culturali e produttive. Non credo si possa dire altrettanto di un’economia in cui tutti siano costretti a sposare lo stesso sistema economico, al di là e spesso in contrasto con le (sacrosante) dinamiche sociali ed economiche locali.
    Ma veniamo nello specifico ai cinque “punti”:
    1) Riduzione del debito pubblico. Sembrerà banale, ma per curare una malattia bisogna capire cosa la ha causata… Da dove viene il debito pubblico? A voler essere onesti lo sappiamo benissimo. Il divorzio tra BdI e Tesoro ha portato i tassi di interesse sul debito a livelli insostenibili, a tutto vantaggio delle istituzioni finanziarie, molto meno della gente. Comprimere ulteriormente la spesa pubblica non pare credibile e francamente nemmeno giustificato, considerando che l’Italia vanta l’avanzo primario di bilancio più alto d’Europa, e la sua spesa pubblica in rapporto al PIL è assolutamente allineata agli altri paesi della UE, nonostante la vulgata dica il contrario. Mettere di nuovo mano alle pensioni? ma vogliamo scherzare? L’Italia è l’unico paese con la Germania in Europa ad avere un debito implicito sostenibile, grazie ai sacrifici imposti alla gente, cosa vogliamo chiedere di più? No Signori, mi spiace, lavoriamo sul ridurre i tassi di interesse, sarà più che sufficiente.
    2) Riforma del mercato del lavoro più “inclusiva”. Questa è bella… E’ il solito modo edulcorato e accattivante per dire che non si possono garantire diritti decenti a tutti e quindi bisogna toglierli a chi li ha, così li mettiamo al pari con gli altri… Cerchiamo di essere sinceri: l’unica riforma del mercato del lavoro fatta negli ultimi trent’anni e che si vorrebbe imporre di nuovo, è la moderazione salariale, come se in Italia non fosse stata applicata a sufficienza. L’idea di allineare i salari alla produttività fa sorridere… Ma avete mai guardato i grafici di comparazione tra produttività e andamento dei salari reali? In Italia come nel mondo? La distanza è abissale, a favore della produttività, ovviamente. Allineare i salari alla produttività in Italia vorrebbe dire alzarli fin da oggi di un buon 20%. Lo facciamo? Peraltro la storia dimostra che la produttività in Italia rispetto alla Germania cala (guardacaso) dal 1996, quando la ratifica del trattato di Maastricht inchioda l’Italia in un cambio fisso sopravvalutato, rendendo le sue merci poco competitive e riducendo la domanda, e deprimendo quindi conseguentemente la produttività.
    3) La mancanza di legalità, la corruzione, la burocrazia, le “distorsioni”, non hanno impedito a paesi che di certo non stanno meglio dell’Italia rispetto a questi problemi, di crescere a rotta di collo, vedi Turchia, Brasile, India, Cina. Con questo nessuno vuole dire che la corruzione è buona, ma non si può nemmeno dire che le distorsioni siano la causa diretta della mancanza di sviluppo.
    4) Il cosiddetto “decentramento” applicato in Italia ha portato a gravi conflitti di competenza con lo Stato centrale e a mancanza di controlli sull’operato degli enti locali, conducendo le regioni ad essere ben poco virtuose in termini di spesa. E’ storia recente e nota.
    5) Eh, troppa vaghezza… Poco più che uno slogan.

    i dati sull’andamento delle partite correnti dei vari paesi dell’Eurozona dimostrano che il ciclo di Frenkel si è sviluppato appieno, e non è possibile uno sviluppo in queste condizioni. Ogni politica monetaria espansiva finirà inevitabilmente a vantaggio dei paesi che hanno accumulato un vantaggio competitivo, anche grazie alla moneta unica (e avendo tra l’altro la grave responsabilità di propalare la menzogna che i guai dei paesi del Sud siano dovuti al loro vivere “al di sopra delle loro possibilità”).
    Avere l’Euro e la cosiddetta “Unione Europea” non significa essere più europei, anzi sta rinfocolando le tensioni nazionalistiche, in quanto emerge la volontà dei paesi egemoni di perseguire un interesse puramente interno e nazionale, in evidente contrasto coi principi solidaristici dei trattati europei.

    Nessuno nega i gravi difetti dell’Italia, ma non sarà certo il legarsi mani e piedi al carrozzone dell’Euro che ci salverà. Ci sta già affossando, come è sotto gli occhi di chiunque abbia un minimo di buonsenso.

    Volete veramente raccontare qualcosa di nuovo e un po’ coraggioso? Cominciate a raccontare come si potrebbe superare questo scandaloso aborto chiamato “Unione Europea” e come si potrebbe tentare di costruire un’identità europea VERA. Il resto sono argomenti triti e o al limite inefficaci in questo contesto.

    1. Grazie del commento, anche se trovo sempre una certa difficoltà a rispondere a commenti più lunghi dell’articolo in oggetto. Mi dispiace che tu non abbia colto il senso profondo dell’articolo, il cui scopo era confrontarsi sulle radici delle debolezze dell’Italia, volontariamente ignorate dall’establishment politico. Difatti, ho cercato di sottolineare come il risultato della desertificazione industriale e del capitale umano del mezzogiorno siano il risultato di scelte politiche del passato (prima coscientemente pro-Nord, poi attraverso l’adozione di un modello di semi-abbandono) e NON del regime di cambio fisso.

      Nello specifico del tuo commento, i 5 punti:
      1) il debito non è il problema, ma il sintomo. Come diceva Keynes (mica Hayek!): “curati della crescita e la crescita si curerà del deficit”. Il problema è la crescita, non quella derivante dal deficit, ma quella che viene da capitale umano, da investimenti e dall’interazione unica fra essi, quindi quella sostenibile nel lungo periodo.
      2) maggiore inclusività nel mkt del lavoro vuol dire maggiore partecipazione; vuol dire maggiore attenzione all’educazione scolastica e maggiore partecipazione a quella universitaria, senza che vi sia una selezione di classe (di questo ne ho parlato in un articolo precedente su Piketty). Invece, per l’andamento costo del lavoro/produttività, faccio riferimento a questo grafico riportato tempo fa su twitter: https://twitter.com/liuk__/status/525284150576971776;
      3) A mio parere sbagli paragone. legalità, la corruzione, la burocrazia fanno la differenza. La risposta in due domande: Turchia, Brasile, India, Cina a) sai a quanto ammonta il reddito procapite in quei paesi? non il tasso di crescita, il livello; b) sai a quanto ammonta la ricchezza come multiplo del reddito?
      4) il decentramento zoppo, voluto da alcuni partiti poco lungimiranti, ha creato una grave distonia fra centro di spesa e responsabilità della stessa. Alcune regioni non rispettano nemmeno i principi di bilancio. Si dovrebbe partire ripristinando almeno questo principio: o centralizzare nuovamente, o decentralizzare nel modo corretto.
      5) (…)

      Infine aggiungo solo che sta fissa contro l’europa e dell’euro fa molto male al dibattito. Allontana la discussione dalle cause proprie del lungo deterioramento dell’economia italiana. Con questo mio articolo ho cercato di riportare l’attenzione sulle debolezze della politica economica domestica, che ha abbandonato progetti di sviluppo ben prima dell’adozione di un regime di cambio fisso (ed ho tralasciato la pagina del comportamento illecito del potere politico e le collusioni con le organizzazioni criminali). Concludo quindi col rifiuto del concetto “estremo” cambi flessibili=buoni riforme=cattive.

      1. Scusa la prolissità anche di questo commento, ma non si può ridurre tutto a due parole.
        Grazie a te per la risposta, ma ci tengo a precisare che non è che io “non colga”, come dici tu, le tue argomentazioni sulle cause delle difficoltà italiane, semplicemente NON SONO D’ACCORDO con la tua interpretazione.
        Dalle letture che ho fatto, pur non essendo economista, mi sento di definire abbastanza superficiale qualsiasi approccio economico che non abbia delle solide basi monetarie.
        Intendo dire che è perfettamente inutile cercare di attuare “riforme” in un paese, se questo non ha le condizioni di base per potersi sviluppare, e queste condizioni di base sono la possibilità da parte dello Stato di effettuare una politica monetaria! E’ un po’ come pretendere di curare un raffreddore senza rendersi conto che è causato da una grave insufficienza del sistema immunitario. Il raffreddore lo potrai anche curare, in quell’occasione, ma presto si ripresenterà, perchè non sono state rimosse le condizioni di disagio fondamentale. Capisci cosa intendo dire? Non c’è riforma senza riallineamento dell’economia italiana ai fondamentali che le competono. Questa visione della moneta come di un elemento “accessorio” è semplicistica e un po’ abborracciata.
        Ciò che intendo dire io è che l’adozione del cambio fisso è stata la PRINCIPALE SCELTA POLITICA che ha causato il successo del Nord a scapito del Sud. Altrochè se ne ha causato il declino, e i dati sono lì a dimostrarlo, non lo dico mica io!
        I punti:
        1) Continui a girare intorno al problema senza mai toccarne l’essenza… (perchè?) Il debito non è un problema se LO STATO NE DETIENE LE LEVE! Ma da trentacinque anni in Italia non è così! Ma come vuoi che sia possibile fare investimenti se lo Stato è costretto ad un avanzo primario pazzesco per garantire le servitù del debito??? Che è in mano alle istituzioni finanziarie? Ti pare possibile? Quello che tu non capisci è che NON ESISTE e non è MAI ESISTITO un paese in cui gli investimenti privati costituiscano DA SOLI il traino dell’economia. Tantomeno nell’Italia attuale! Anzi, PROPRIO nell’Italia attuale (in crisi economica grazie a scelte macroeconomiche madornalmente sbagliate, come l’Euro) i privati non hanno capacità di investimento! Bella grazia se sopravvivono! Non credo di dovertelo spiegare io… Se non si dà allo Stato una leva per far ripartire l’economia, non se ne uscirà, e si diventerà piano piano una colonia, perchè gli stranieri si compreranno tutto (ed è esattamente ciò che sperano di poter fare e stanno già facendo).
        2) Bravo ci vogliono INVESTIMENTI PUBBLICI, quelli che l’Italia NON PUO’ PIU’ FARE DA TRENT’ANNI. Ovviamente vanno fatti bene, ma questa è, per l’appunto, un’ovvietà. Il fatto però è che PRIMA deve venire la possibilità di FARLI, gli investimenti, e DOPO penserai a farli BENE!
        Col grafico sulla produttività a mio parere dimostri semplicemente che negli ultimi anni c’è (paradossalmente) più democrazia in Italia che in Germania! Perchè in Italia i salari hanno tenuto più che in Germania, e si è cercato quindi di DISTRIBUIRE la ricchezza. Non dobbiamo farlo? E allora facciamo come in Germania, certo, deprimiamo la quota salari, così siamo più “competitivi”, giusto? Certo, sempre sulle spalle degli stessi, però. In più ti inviterei a notare che i salari reali in Italia sono sostanzialmente stabili, il problema è che la crisi economica e la carenza di domanda deprimono LA SPINTA PRODUTTIVA. Come fai ad avere uno stimolo produttivo se la tua economia non va?
        Facciamo pure come vuoi tu, togliamo altre quote di salario ai lavoratori, i ricchi rideranno, ma forse dovresti spingere la tua ricerca sull’andamento dei salari reali e della produttività un po’ più indietro… Scopriresti che i lavoratori, in Italia, HANNO GIA’ DATO, in termini di perdita di quote di ricchezza! Ma che scherziamo? Robin Hood alla rovescia…
        3) Non so esattamente dove tu voglia andare a parare, ma me lo spiegherai tu, mi sembra ovvio che i livelli del reddito pro capite siano più bassi, visto che il loro sviluppo è partito più tardi… Ma siamo sempre lì, il reddito pro capite non dice molto, se non è rapportato al costo della vita. La Svizzera ha redditi spesso tripli di quelli italiani, peccato però che anche la vita sia molto più cara…
        4) Perfettamente d’accordo

        Quanto all’Europa. Scusami ma le parole sono importanti, avrebbe detto Moretti… Io non sono CONTRO L’EUROPA. Io sono contro l’Unione Europea e l’Euro, che NON SONO L’Europa, se permetti… Sono una interpretazione (vera o presunta) di un sentimento e di una “Volontà” (?…) europei. Interpretazione, se mi consenti, totalmente fallimentare. Ora io capisco che tu voglia ignorare tutti i dati macroeconomici che ci dicono che MATEMATICAMENTE, dal 1980 in poi tutte le volte che l’Italia si è agganciata ad altre valute la sua economia è crollata, ma che tu voglia ignorare che questa dinamica è comune a TUTTI I PAESI PERIFERICI, francamente non esiste. Discutiamo pure di riforme e di tutto quel che volete, ma PRIMA bisogna ripristinare un quadro macroeconomico SENSATO. E non è quello dell’Euro.

        Quindi io contesto i tuoi argomenti in quanto sostengo che il problema monetario è CAUSA FONDAMENTALE (non la sola) delle difficoltà italiane! E non solo dell’Italia (vista la Francia? E vogliamo parlare della produzione industriale tedesca in crollo? Per forza, se tagli il ramo su cui siedi…)

        In realtà l’Italia ha abbandonato i progetti di sviluppo PROPRIO A PARTIRE dalla fissazione del cambio (primi accordi europei, 1979) e dal divorzio tra BdI e Tesoro!

        Nessuno ha mai detto che i cambi flessibili siano di per sè “buoni” e le riforme “cattive”, questa è disonestà intellettuale, volta (questa sì) a cercare di spostare l’attenzione solo su un versante. I cambi flessibili sono una variabile economica fondamentale, non sono buoni e non sono cattivi, sono uno STRUMENTO importante di regolazione economica, presente in tutti i sistemi economici, e come tale vanno utilizzati. A meno che il MONDO adotti la stessa divisa monetaria, le fluttuazioni ci sono anche ORA. La BCE inonda il mercato di danaro e l’Euro si svaluta sul dollaro. Giusto? E’ storia di questi giorni.
        Quindi la UE è sporca e cattiva perchè svaluta l’Euro?…
        Ignorare il ruolo del cambio in economia è come voler sostenere che il tuo vicino è nero anche se è bianco… Prima o poi dovrai fare i conti con la realtà.
        Non siamo tutti uguali (per fortuna) e la leva del cambio è uno dei principali strumenti in grado di interpretare questa grande verità in modo equo, dal punto di vista distributivo.

        1. La diversità di idee è una ricchezza, però ti preferisco quando dici “non sono d’accordo” rispetto a “ti sbagli”.
          Alla prossima.

          1. Non lasciare che la discussione diventi formale: in questo caso specifico “non sono d’accordo” con te perchè penso che in larga misura “ti sbagli”. Non credo ci sia nulla di male. Nei limiti del rispetto reciproco, ovviamente.

  7. Nell’unione di due aree valutarie la condizione di Marshall-Lerner non è rispettata. Sul fatto che siano anche mancate politiche industriali/economiche possiamo essere d’accordo, ma non esiste la neutralità della moneta.

  8. E il fattore culturale? Ma è possibile che ormai la religione ECONOMIa abbia rimbambito chiunque? Per un rilancio di aree come il meridione servirebbero, prima di tutto e non meno che per 10anni (e senza alcun risultato per tutto quel periodo) colossali investimenti sull’istruzione. A partire dalle scuole primarie (possibilmente con un completo rimescolamento del corpo insegnante) e con una sostanziale riconversione del focus scolastico verso le materie scentifiche.

    1. Ciao Lallo,

      Concordo: l’economia non è una religione. E per questo motivo nessuno può pensare di poterla ignorare e far finta che non esista.

      Ti ringrazio del commento che mi consente di evidenziare come il problema “istruzione” sia uno dei fattori determinanti della crisi. Difatti lo menziono in diversi punti dell’articolo (riferimenti e collegamenti esterni):
      – Efficienza spesa pubblica per l’istruzione e disoccupazione https://twitter.com/liuk__/status/512890769623904256
      – effetti della crisi e scolarizzazione http://www.linkiesta.it/it/article/2014/10/20/giovani-e-del-sud-ecco-chi-ha-pagato-la-crisi/23205/
      In ogni parte dell’articolo descrivo gli investimenti in capitale umano come essenziali nella costruzione di un nuovo progetto. Non mi riferisco alla scuola primaria in particolare, ma soprattutto la secondaria e le università, che producono una classe dirigente pessima (L’articolo originale del FMI lo trovi in questo link: http://www.imf.org/external/pubs/ft/scr/2014/cr14283.pdf).
      Nei tentativi (non esaustivi e nemmeno originali) per trovare la cura, ho messo nel punto 2) il focus sul capitale umano, inteso come processo educativo (scolastico/universitatio) e formativo (professionale) al momento deficitario.
      Come vedi il fattore educazione, o fatture culturale, a mio parere dovrebbe essere centrale nel progetto economico sociale del nuovo mezzogiorno. Ripeto, non puoi ingnorare l’economia se vuoi incidere sull’equilibrio sociale di un territorio.

      Infine, l’articolo, scritto ad ottobre 2014, non è stato smentito dal Governo Renzi, che prosegue nella dinamica dirigista e assistenzialista. C’è poco da fare: tutti sanno cosa fare ma nessun Governo mette il recupero del Sud fra le priorità.

    2. Stai andando a guardare troppo con la lente d’ingrandimento mentre qui il problema è stato trattato nel suo insieme, senza contare che non credo la tua proposta potrebbe risolvere alcunchè, considerando che non ci sono centri di ricerca o poli industriali avanzati al sud, per cui gli eventuali laureati o diplomati in queste materie scientifiche dovrebbero comunque andarsene da qualche altra parte per lavorare… Il Sud è stato fatto oggetto solo di un’industrializzazione di stato devastante per il territorio, inutile per lo sviluppo, e che ha lasciato solo strascichi sull’ambiente senza portare reale sviluppo, diventando poi privata e quindi oltre a tutto questo pure predatoria.
      In realtà la formazione di base italiana si mostra ancora all’altezza di quella dei paesi stranieri, anzi, spesso meglio. Di certo i nostri studenti non sono così specializzati come gli altri. Purtroppo ad oggi la scuola italiana è in declino a causa della cosiddetta “autonomia scolastica” introdotta da Berlinguer che ha sostanzialmente “privatizzato” il rapporto tra famiglie e scuola, e dalla mancanza di adeguati investimenti: in competenze, management, strutture, motivazione e qualificazione degli insegnanti…
      Ciò detto, nessuno ha sostenuto che si debba guardare solo all’economia, anzi! Il buon funzionamento economico di un paese dipende in larga parte da motivazioni culturali, però l’economia è una buona lente d’ingrandimento per capire quali REALI politiche, anche culturali, siano state fatte in un paese.

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