La moneta senza turbodiesel

La Cina è sul podio per ogni record economico. È invece relegata nella parte bassa della classifica per la diffusione del renminbi. Se i numeri ne celebrano l’ascesa, sono ugualmente impietosi quando ne certificano la marginalità della moneta. La Cina è il primo esportatore e il secondo importatore al mondo di beni e servizi, eppure le transazioni in renminbi coprono soltanto l’1,6% del totale. La sua moneta è soltanto 7^ tra le divise più usate, alle spalle non solo del dollaro e dell’euro, ma anche della sterlina, dello yen, dei dollari australiano e canadese. L’asetticità della statistica – e talvolta le trombe della propaganda – rilevano che nel gennaio 2013 l’analoga percentuale era dello 0,6% e la posizione era la 13^. I cospicui miglioramenti non possono nascondere il dato analitico più probante: il renminbi è ancora ai margini del sistema finanziario internazionale. Un’ironia contabile lo certifica: la Cina detiene quasi 4.000 miliardi di Usd di riserve valutarie, ⅔ dei quali sono nella valuta americana. Pechino acquista dollari e Washington sorride perché non deve concedere alti tassi di interesse. Per finanziarsi, basta stampare con sapienza bond e moneta; qualcuno, soprattutto in Oriente, li acquisterà.

La Cina sa bene che questo privilegio deriva da molti fattori. Ne ha aggrediti alcuni, dalla politica all’economia, dalla strategia al soft-power. Non è riuscita tuttavia a diffondere la sicurezza che una moneta forte assicura. Secondo un acuto studio dello U.S.-China Economic and Security Review Commission – creata dal Congresso statunitense per studiare le implicazioni sulla sicurezza nazionale dai rapporti economici Cina-Usa – i tentativi cinesi di internazionalizzare il renminbi sono stati sostanzialmente modesti. Essi si sono applicati su tre terreni. Si tratta dei depositi offshore di conti e titoli, dell’impiego per pagamenti internazionali di transazioni commerciali, di linee di swap tra la People’s Bank of China e altre banche centrali. Tra le piazze fuori dalla Cina continentale, senza soprese Hong Kong rimane la destinazione privilegiata. I depositi si sono moltiplicati e nel 2012 le banche dell’ex colonia britannica hanno gestito l’80% degli scambi in renminbi con il resto del mondo. Il resto è transato negli altri hub internazionali come Singapore, Londra, Lussemburgo e Taipei. Ancora più forte è la concentrazione a Hong Kong dei titoli denominati in Rmb, i dim sum bond. Emessi da aziende cinesi, sono diventate una loro importante fonte di finanziamento. Gli investitori internazionali preferiscono infatti la protezione del rule of law, essendo i bond garantiti dalla normative di Hong Kong. Il secondo strumento – l’uso del rmb per gli scambi internazionali – è stato accettato nei 10 paesi Asean, oltre a Hong Kong e Macao. È stato esteso a tutte le province cinesi, ma l’impiego, come testimoniano le cifre sopra riportate, è ancora esiguo. Più apprezzati sono stati gli accordi di swap, lo scambio volto a ridurre i rischi finanziari. La Cina ne ha siglati 25. I primi partner sono state le economie emergenti, anche se nel 2013 due nuovi accordi, dal valore più politico che economico, sono stati firmati con la Bank of England e la ECB di Francoforte.

Sono stati dunque compiuti dei progressi, anche se si rivelano insufficienti, incoerenti con il peso del paese e di prospettive ancor incerte. La Cina ha trasferito all’estero la soluzione di un’equazione interna. Per internazionalizzare la sua moneta, lo scoglio più grande è a Pechino e attiene alla liberalizzazione del mercato dei capitali. Le 3 soluzioni esperite hanno bisogno della fiducia degli investitori internazionali che solo l’accettazione delle regole del mercato può garantire. Pechino invece ancora non si sente pronta per avventurarsi in una competizione nella quale non controlla tutte le variabili. Liberalizzare i cambi vuol dire che il valore del renminbi possa essere determinato “da altri”, fuori dal controllo cinese. Rispettare i movimenti di capitale, proprio perché imprevedibili, ancora non è accettabile, minerebbe il potere dei burocrati conservatori. Con la finanza, per chi è interessato a dominare il suo destino, ci sarebbe un intero mondo da guadagnare. La Cina, per necessità o per scelta, mantiene invece la sua retta. Diventa così un gigante industriale che rimane ancorato alle fabbriche, per il timore di avventurarsi nell’agone finanziario che ancora non governa. Alla fine, l’internazionalizzazione del rmb non ha né lo scatto del turbo, né la velocità regolare e crescente del diesel.

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Pubblicato da Alberto Forchielli

Presidente dell’Osservatorio Asia, AD di Mandarin Capital Management S.A., membro dell’Advisory Committee del China Europe International Business School in Shangai, corrispondente per il Sole24Ore – Radiocor

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