La rivoluzione economica digitale

Sguardo a volo d’uccello sui prossimi decenni di innovazioni e lotte sociali

È finita l’era di decenni e decenni di consuetudini quotidiane sempre uguali, codificate in situazioni consuete e abitudinarie. Oggi, a differenza di ieri, puoi andare in un aeroporto e imbarcarti sull’aereo senza incontrare un solo essere umano.

E il ritmo pazzesco dello sviluppo tecnologico – da decenni – promette stravolgimenti delle abitudini che cambiano ormai come gli abiti femminili nelle varie stagioni dell’alta moda. Internet, cloud, big data, robotica, apprendimento automatico e intelligenza artificiale sono gli strumenti di tali stravolgimenti, che possiamo racchiudere nel termine di “rivoluzione economica digitale”, che affianca quella tradizionale – definibile anche come fisica.

Il segreto di questa rivoluzione è proprio legato alla straordinaria potenza di fuoco dei dati e della relativa velocità di elaborazione. Dati capaci di aumentare i processi commerciali, ingegneristici e finanziari, con le attività umane che invece risultano sempre più obsolete.

È una nuova era. Una nuova era appena agli inizi. Che vede un passaggio sostanziale di protagonismo dalla produzione alla distribuzione. E riguarderà tutto quanto.

Ogni vent’anni la rivoluzione digitale si trasforma, spiega W. Brian Arthur, professore al Santa Fe Institute e articolista di pregio su McKinsey.com

Negli anni Settanta-Ottanta sono comparsi i circuiti integrati: piccoli processori che velocizzavano i calcoli. E l’economia, per la prima volta nella storia, si è giovata dell’assistenza computeristica. Negli anni Novanta-Duemila il mondo ha scoperto la connessione dei processi digitali. I computer sono stati collegati tra loro in reti locali e globali tramite linea telefonica, fibra ottica o satellitare. La Rete è diventata un business e il pianeta un posto “piccolissimo”, con le distanze che si sono annullate grazie alla interattività. E delocalizzare dove costa meno e globalizzazione sono diventate la nostra realtà.

Intorno al 2010 arriva una nuova fase (che a occhio e croce lascerà il posto alla fase successiva nel giro di un decennio). È quella dei sensori, buoni per ogni cosa: radar, giroscopici, magnetici, per il sangue, la pressione, temperatura, umidità, eccetera, sensori tutti collegati in reti wireless. Che riconoscono il mondo fisico e lo trascrivono nel digitale. E presto ci consentiranno, per esempio, la guida autonoma di un’auto. Una trasformazione che oggi ci fa parlare con Siri come fosse un essere umano e che riconosce la nostra impronta digitale come fosse una normalità da anni. Ed è tutto merito dei dati.

Il prossimo passo – che immaginiamo possa vivere il suo culmine intorno al 2040 – qual è?

Semplice. L’intelligenza esterna, associativa. Intelligenza che non significa pensiero cosciente o ragionamento deduttivo ma la capacità di creare associazioni appropriate per poi agire di conseguenza. Come in natura quando la medusa utilizza una rete di sensori chimici per rilevare il cibo e questi innescano una rete di motoneuroni per avvolgere il cibo e digerirlo. E che, ancora, possono essere gli algoritmi intelligenti che aiutano un jet da combattimento a evitare una collisione.

Con la guida autonoma sarà uguale: auto che viaggiano su corsie speciali, in conversazione tra loro; e che dovranno conversare con il resto del traffico. Per una intelligenza auto-organizzante, colloquiale, sempre dinamica. Senza l’intervento umano. Ciaone!

Una intelligenza esterna, digitale, che risolve le richieste dell’economia fisica.

Brian Arthur vi scorge un parallelo sorprendente. Anche la rivoluzione della stampa del XV-XVI secolo prese informazioni contenute nei manoscritti dei monasteri e le rese disponibili pubblicamente. L’informazione, perciò, divenne esterna: dalla chiesa alla condivisione dei lettori laici. Per un risultato esplosivo di conoscenza e progresso, che ha generato il Rinascimento, la Riforma e l’avvento della scienza come la intendiamo ancora oggi.[sociallocker id=12172].[/sociallocker]

L’intelligenza esterna cambierà anche il business grazie a nuove funzionalità di automatizzazione e fino a “robe” inimmaginabili. Come l’esempio che porta W. Brian Arthur di una società cinese di tecnologia finanziaria che ha sviluppato una app per telefonino in grado di prestare denaro durante lo shopping.

Questa, rilevando la voce, riconosce la tua identità, poi interroga i tuoi conti bancari, la cronologia dei crediti e il profilo dei social media e altro ancora, per garantire una adeguata offerta di credito. Tutto in pochi secondi. E tipologie simili sono applicabili nei trasporti, nella sanità e nelle forze armate, dal controllo autonomo del traffico aereo alla diagnostica medica avanzata. Con una caratteristica non secondaria: le componenti dell’intelligenza esterna non possono essere facilmente possedute, perché tendono a scivolare nel pubblico dominio, con i dati che possono anche essere raccolti da fonti non proprietarie. Quindi vedremo sia grandi aziende tecnologiche che risorse indipendenti. E se le rivoluzioni tecnologiche del passato sono indicative, vedremo nascere industrie completamente nuove, come nuovi saranno anche alcuni settori.

E l’aspetto negativo?

Facilmente intuibile. Ossia quello dell’occupazione. Se alcuni lavori svaniscono, altri – nuovi – li sostituiscono. La storia economica dice che funziona così, più o meno. L’automobile ha sbaragliato i fabbri ma ha creato una filiera pazzesca e piena di storie da raccontare: da Henry Ford a Lapo Elkann!!! Però è vero che complessivamente la tecnologia ha creato una disoccupazione a molte forme (dal part-time non voluto ai lavori a basso reddito). E non mi riferisco soltanto a quella attuale. Il termine “disoccupazione tecnologica” lo ha immaginato John Maynard Keynes nel 1930!

Le due prossime ere della rivoluzione economica digitale. Nella seconda parte siamo arrivati alla disoccupazione, l’aspetto critico della tecnologia – aspetto critico già dal 1930, come diceva John Maynard Keynes. Ma, in realtà, il focus, secondo W. Brian Arthur, è un altro: la distribuzione.

La vecchia economia basata sulla produzione apprezzava tutto ciò che aiutava la crescita economica. Nell’economia distributiva, dove i lavori e l’accesso ai beni sono i criteri fondamentali, la crescita economica è auspicabile soprattutto se crea posti di lavoro. E lo stesso PIL non sarà più sufficiente per misurare lo stato di salute dell’economia. Come la filosofia del libero mercato (con la sua nozione che un comportamento di mercato non regolamentato conduce alla crescita economica). Perché gli accordi commerciali internazionali, la deregolamentazione e la liberalizzazione dei mercati porta sostanzialmente alla concentrazione. Gli sconfitti, in passato, potevano trovare lavori diversi, ma ora è diventato problematico. Nell’era distributiva l’efficienza del mercato libero non sarà più giustificabile se creerà intere categorie di persone che restano fuori dai giochi.

Quindi la nuova era dovrà fare i conti con la politica su tematiche sostanziali: immigrazione, disuguaglianza, élite arroganti.

La produzione è un problema economico e ingegneristico; la distribuzione, assicurando che le persone abbiano accesso a ciò che viene prodotto, è anche un problema politico. Ecco allora che fino a quando non avremo risolto l’accesso, ci troveremo in una lunga fase di sperimentazione. A buon senso, la via migliore è quella scandinava, con una produzione guidata dal capitalismo ma con una grande attenzione del governo verso chi ottiene cosa.

Un vantaggio della prossima era è che i servizi virtuali sono essenzialmente gratuiti. La posta elettronica è gratis o quasi. Ma avremo bisogno di accedere ai restanti beni materiali e ai servizi personali che non sono digitalizzati. Così avremo ancora posti di lavoro come l’insegnamento della scuola materna o il lavoro sociale. Perché richiedono empatia umana. Ma i lavori saranno meno numerosi e le settimane lavorative saranno più brevi e molti lavori saranno condivisi. Avremo quasi certamente un reddito base. E vedremo un grande aumento delle attività di volontariato retribuite come la cura degli anziani o la crescita dei giovani. Avremo anche bisogno di risolvere una serie di domande sociali che adesso paiono quasi folli. Per esempio, quale sarà il significato più profondo della vita in una società in cui il lavoro, enorme fonte di significato per secoli, sarà scarso? E come gestiremo la privacy in una società dove le autorità e le multinazionali potranno attingere alla nostra vita e alle nostre finanze, riconoscere i nostri volti ovunque andiamo o tracciare le nostre convinzioni politiche? E, ultimo ma non ultimo, vogliamo davvero che l’intelligenza esterna ci assista a ogni passo, diventando sempre più dipendenti a essa?

Sono queste le domande del nostro futuro socio-economico non immediato.

Domande che però ci siamo già fatte.

Quando?

Nell’Inghilterra di metà Ottocento, dinnanzi alla rivoluzione industriale, che portò enormi aumenti nella produzione ma anche condizioni sociali indicibili. Dai bambini che lavoravano a turni di dodici ore alle persone ammassate in condomini fatiscenti, fino a malattie diffusissime come la tubercolosi e leggi sul lavoro inesistenti.

Con sforzi straordinari, la situazione è migliorata. Sono state approvate le leggi sulla sicurezza, i bambini e i lavoratori in genere sono stati protetti, gli alloggi sono diventati adeguati. E tutto ciò ha dato il via a quella che chiamiamo la classe media. È stato un percorso secolare e oltre. E i cambiamenti non sono stati emanati direttamente dai governi del tempo, provenivano da persone coraggiose e lungimiranti, dalle idee potenti e utopistiche di riformatori sociali, appartenenti alla vita sociale nella sua più ampia trasversalità, sempre mossi dall’indignazione di fronte alle ingiustizie.

Le prossime ere che scorgiamo all’orizzonte vivranno le stesse contraddizioni, tra ingiustizie e indignazione. Gli adeguamenti costeranno lotte e richiederanno decenni. Ma li faremo, li abbiamo sempre fatti, dice W. Brian Arthur. Lo spero anche io. Ma serve uno spirito combattivo che le giovani generazioni hanno perso. E che dobbiamo farglielo ritrovare.

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Pubblicato da Alberto Forchielli

Presidente dell’Osservatorio Asia, AD di Mandarin Capital Management S.A., membro dell’Advisory Committee del China Europe International Business School in Shangai, corrispondente per il Sole24Ore – Radiocor

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