Rompicapo pubblici

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Mark Pennington, in “Robust political economy”, ha brillantemente sintetizzato che tanto più un Paese per funzionare bene ha bisogno di cittadini “forti” (informati, onesti, presenti) più le sue istituzioni sono deboli. Viceversa, se un paese funziona bene a prescindere dai suoi cittadini (e, conseguentemente, dai suoi governanti), significa che la sua architettura istituzionale è “forte” e può ben più adeguatamente affrontare eventuali crisi economiche, politiche e sociali.

Invece però di capire come rendere forti e impermeabili le istituzioni, in Italia ci si lascia prendere dalla tentazione di rendere a tutti i costi forti i cittadini, nella speranza che così possano scegliere adeguati rappresentanti, i quali potranno finalmente prendere le migliori decisioni per il “bene comune”.

Ci si affida, quindi, totalmente, alla maggioranza, attribuendo ad essa l’incarico di regolare ogni aspetto della nostra vita, salvo poi quotidianamente lamentarsi che detta maggioranza prende, tramite i rappresentanti, decisioni demagogiche o dannose.

Di fatto, in Italia la maggioranza può decidere ogni aspetto della vita personale: se e come nascere e morire, l’orientamento sessuale di chi vuol contrarre matrimonio, quali e quante tasse imporre senza alcun limite, se è possibile o meno aprire un’attività imprenditoriale, quando si può andare in pensione e quanto si potrà percepire per la stessa. L’elenco è chiaramente indicativo e non esaustivo, essendo sterminato.

Le elezioni si sostanziano, quindi, in uno strumento rituale di tortura grazie al quale chi vince – solleticando a profusione demagogie e populismi – può prendersi la vita e la libertà di chi perde, asfissiandolo progressivamente sino alla morte economica e fisica (la quale però, come si è detto, può intervenire solo nei modi stabiliti dalla maggioranza).

Al cittadino, allora, residuano tre sole possibilità: continuare ad affidarsi ciecamente alla maggioranza, sperando che sia “illuminata” e tollerante; invocare una normativa che sottoponga a quesiti psico-cognitivi gli elettori e, in caso di esito negativo, faccia ritirare i relativi certificati elettorali; sperare che siano drasticamente ridotti i poteri della maggioranza, in modo che i rappresentanti di quella maggioranza possano incidere solo limitatamente su libertà civili ed economiche.

Mentre la terza possibilità non è mai all’ordine del giorno, le prime due vengono continuamente invocate, sebbene sia palese che siano velleitarie o antidemocratiche.

Presuppongono, infatti, che il cittadino medio debba essere forzatamente dotato di nozioni di ogni tipo (di economia, finanza, diritto, filosofia, politica internazionale) pena il ripudio della “qualifica” di cittadino degno di tale nome.

Ma è davvero logico pensare che il cittadino medio debba essere costretto o possa sempre riuscire a colmare quell’inevitabile asimmetria informativa che non può che esistere tra cittadino ed attori economici-giuridici?

Sarebbe, peraltro, assurdo non riconoscergli il pieno diritto di essere un cittadino qualificato anche allorquando non abbia gli strumenti intellettivi per arrivare a capire concetti complessi.

Se però lui ha il pieno diritto di essere (o di voler essere) così, gli altri cittadini dovrebbero avere il pieno diritto di non far decidere tutto sulla loro vita da lui. E viceversa, naturalmente, posto che non si può accettare che ci possa essere una graduatoria di merito dei cittadini.

Appare dunque evidente che, rinunciando alla terza ipotesi, il Paese oscilla solo e sempre tra supina accettazione della tirannia della maggioranza e volontà, seppur repressa, di limitare la partecipazione al voto e alla vita politica.

Invero, dovrebbe ritenersi ben più democratico e liberale adottare una Carta fondamentale che limiti il perimetro del potere della maggioranza, dei partiti e dello Stato, anche sotto il profilo fiscale, e che renda forti le sue istituzioni, a prescindere dagli elettori e dai suoi rappresentanti.

Tale Carta dovrebbe costituire il parametro ed il limite di riferimento per l’azione legislativa e amministrativa, da ritenersi legittima solo allorquando non violi tale limite e non confligga con i principi ispiratori della tutela delle libertà civili ed economiche, del mercato, della concorrenza, del risparmio, della promozione del merito e del tempestivo ripristino della legalità, con riferimento ai diritti del cittadino, agli accordi contrattuali tra privati e alla violazione di norme penali.

Uno Stato, dunque, leggero e non intrusivo, che sia in grado di adempiere con certezza i compiti ad esso assegnati e che, relativamente all’economia, sia capace di regolare adeguatamente, solo per raggiungere gli obiettivi di cui sopra, ma che non partecipi, neppure attraverso nomine e incentivi o sussidi, alla gestione di attività economiche.

Infatti il politico, che come tutti è un agente economico, non ha modo di ottenere il sempre invocato bene comune, che è un concetto vago e contraddittorio, ma piuttosto, anche eventualmente in buona fede, ha unicamente interesse a far prevalere le richieste della parte che lo vota rispetto alle altre, richieste che non è affatto detto coincidano con il bene comune.

L’elettore, a sua volta, essendo anch’egli un agente economico, vota il politico che può offrirgli qualcosa, cercando di far pagare ad altri il costo delle sue istanze, che spesso consistono in “privilegi” ma che naturalmente egli considera diritti.

A prescindere poi dalla effettiva presentazione di istanze o richieste, il cittadino è comunque vittima di un deficit informativo economico incolmabile, perché la ricaduta finanziaria delle scelte politiche, prese o meno nel suo interesse, non può che divenire apprezzabile per lui solo quando il danno è davvero consistente. In ipotesi, se un politico regalasse sessanta milioni di euro, ad ogni cittadino costerebbe solo un euro. Devono, quindi, cumularsi tanti sessanta milioni di euro prima che il cittadino possa accorgersi del danno che nel frattempo gli è stato procurato Ma a quel punto è ovviamente troppo tardi ed il danno è divenuto irreversibile.

Più dunque i cittadini attribuiscono allo Stato il compito di ricercare il bene comune, meno, in realtà, lo ottengono, perché stanno solo attribuendo ai partiti l’illimitato privilegio di concedere, discrezionalmente e senza alcuna valutazione del rapporto costi/benefici, prestazioni, autorizzazioni, sussidi, lavoro, appalti oppure attribuendo loro l’illimitato potere, anch’esso discrezionale e senza responsabilità, di imporre senza limiti tributi e divieti.

Risulta facile capire quanto tale immenso potere possa originare una spasmodica e continua corsa ad occupare posizioni politiche, sia da parte di coloro che ingenuamente ed in buona fede ritengono di poter conseguire il bene comune, sia da parte di coloro che invece ritengono di poter trarre profitto dall’esperienza politica.

Peraltro, è opinione comune, ovviamente maturata anche grazie all’interessata collaborazione dei partiti, che sia solo questione di scelta dei rappresentanti e che quelli che verranno scelti nella tornata elettorale successiva – magari dopo aver apportato qualche cervellotico cambiamento alla legge elettorale – saranno in grado di conseguire finalmente i necessari obiettivi.

Fino a quando, un giorno, vittime dell’inconsistenza e del caos, il paese rinuncerà di nuovo alla democrazia e si affiderà all’uomo forte che, come ovvio, non farà altro che attribuirsi tutti i poteri e i privilegi prima attributi ai partiti. Dalla tirannia della maggioranza a quella del dittatore, in un continuo moto circolare.

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Grazie per aver votato!

Pubblicato da roundmidnight

Occupa da anni, in modo semiserio, un posto in un consiglio di amministrazione all'interno di un "gruppo" internazionale.

12 Risposte a “Rompicapo pubblici”

  1. State un pò facendo confusione, eh? la Carta si chiama Costituzione, e se fosse seguita porterebbe al benessere comune. Benessere comune che la classe politica, asservita ai voleri del ( vostro ) mercato, si guarda bene dal perseguire.

  2. Era un ragionamento un po’ più ampio ma ben venga lo stesso il tuo commento. Il “mercato” (come la storia, diceva De Gregori) siamo noi.

  3. No, guarda, noi non siamo il Mercato, Il Mercato è Della Valle, Marchionne, voi traders. Noi siamo il Lavoro, che del Mercato è sempre e comunque vittima ( 120mln di persone al limite della povertà in Europa ). La vostra visione è quella del profitto, e ne prendiamo atto. Abbiate però l’onestà intellettuale di non fare passare tale visione come salvifica per ( tutte ) le persone. L’obiettivo di piena occupazione non coincide con quello dell’accumulazione del profitto. Tutto qua

    1. Interessante il concetto di “nostro mercato” a cui si contrappone la “piena occupazione”. Evidentemente sono due cose diversissime che non hanno nulla a che fare fra loro, per nessunissimo motivo, manco casuale. Uno sta su Mercurio, l’altro su Nettuno. Lo stesso “lavoro” par essere vittima del famigerato mercato di “noi traders”, che lo affama e lo distrugge. Non resta che eliminare il mercato, sicuramente avremo la piena occupazione.

      Si imparano sempre cose nuove e soluzioni semplici.

  4. Quello che spesso non è chiaro, rmora2012, è che il capitalismo di relazione, con tutte le rendite e tutti i privilegi relativi, è tale proprio perché esiste una forte e interessata relazione tra partiti/Stato e “affari”.

    Questo legame non verrebbe certo cancellato dal diverso colore dei partiti; cambierebbero solo i privilegiati. Perché il potere, l’eccesso di potere, determina l’abuso di potere.

    In quel caso, il mercato perde le sue caratteristiche essenziali (concorrenza, libertà di domanda e offerta e di scambi, tutela degli accordi, ecc.) e diventa terreno di predoni.

    Il mercato, per suo conto, non guarda per il sottile, ma è sicuramente più equo e democratico della “scelta” politica, perché prescinde dal colore, dalla razza, dal censo, dall’età.

    E’ molto più facile che il mercato (quando è libero da condizionamenti) dia una possibilità a Bezos, a Zuckerberg, a Jobs, a Gates piuttosto che al raccomandato dal partito. Se ne frega, in tal caso, se Jobs è uno spiantato un po’ strano e non ha conoscenze politiche. E se ne frega di far scendere dal piedistallo il raccomandato dal partito.

    E’ il mercato, quindi, che fa funzionare l’ascensore sociale, non la partitocrazia.

    La partitocrazia dice di battersi per la giustizia sociale, ma quello che ottiene con sicurezza è solo un buon posto, una buona rendita, per i propri aderenti ed amici.

    Il mercato, infine, non è la giungla, come molti credono. Può diventarlo, qualora coloro che dovrebbero tutelarlo si “distraggono”. Ma il più delle volte non distraggono a caso. Si distraggono o perché sono incompetenti o perché, sempre la partitocrazia, dà una mano fare in modo che vada così.

  5. ah ma allora il mercato cattivissimo ha anche risvolti buoni? La piena occupazione alla Erri De Luca può portare anche qualche problemuccio? Misteri insondabili del bene e del male….

  6. @Yuma
    The band is complete! 😀 😀 😀

    Credo, per tentare di essere serio, che non sia tempo di contrapposizioni, solo perché spesso sono sterili se non addirittura funzionali proprio a quel potere che si vorrebbe trasformare/rovesciare.

    Le discussioni sorte intorno al post sull’euro di Danilo in quei di twitter rivelano un atteggiamento sempre più diffuso in rete basato sullo schierarsi senza se e senza ma, mentre coltivare qualche dubbio non farebbe male a nessuno. Sono certo che la questione euro sarà presto oggetto di un disegno politico, funzionale non tanto a risolvere problemi economici, ma a creare consenso (una cosa diversa..).

    Per la piena occupazione si dovranno piazzare, nel bene o nel male, i beni prodotti e quindi impattare in una qualsiasi forma di mercato è per ora una prospettiva ineludibile. Questo ovviamente non significa, dal mio punto di vista, sostegno immediato a GoldmanSachs ed a Mr Blankfein ed a quei lupacci dei trader.

  7. insomma, in un post relativamente breve ci scaraventi addosso una riflessione sui massimi sistemi. Io mi soffermo sulla parte che più mi ha colpito, quella “apparentemente eccessiva” che mette in discussione i principi della democrazia rappresentativa. In realtà, semmai ne evidenzia i limiti. Confesso di essere stata più volte tentata (soprattutto all’indomani di un appuntamento elettorale) di cedere alla fascinazione dell’opzione n. 2: perché io dovrei essere in balia del voto di gente che cresce nel brodo di coltura di “Amici” e di “C’è posta per te”?? Mi sono regolarmente autocensurata e mi sono sottratta ad un pensiero tanto antidemocratico. Però.
    Va anche detto che se il risultato di elezioni democratiche è l’attribuzione del potere alla coalizione che rappresenta il 55% dei cittadini (come spesso succede), il restante 45% passa automaticamente in serie B. In realtà dovrebbe essere garantito da un’efficace opposizione, che tuttavia con l’applicazione dell’attuale legge elettorale non ha mai i numeri per essere incisiva. Dunque un diverso criterio di distribuzione del potere decisionale all’interno del Parlamento sarebbe già un buon inizio.
    Poi uno Stato più leggero e meno intrusivo, con istituzioni indipendenti che possano contrapporsi al potere di trattativa ora esclusivo appannaggio dei partiti, sarebbe sicuramente auspicabile.
    Resta sempre, a mio parere, un problema fondamentale: qualsiasi organismo, ancorché limitato nel numero di componenti, è sempre costituito da persone (che dovrebbero quantomeno essere elette, non nominate, altrimenti siamo punto e daccapo). Intendo dire che la qualità (umana, morale, professionale) delle persone elette a rappresentarci DEVE essere una discriminante fondamentale. Ne consegue inevitabilmente che anche la qualità dell’elettore diventa determinante, ma ciò detto non intendo mettere in discussione il suffragio universale.
    Leggete pure tra le righe una scarsa stima, da parte mia, degli italiani in generale, e le numerose eccezioni non modificano il mio giudizio. D’altronde, la storia recente ha evidenziato la pericolosa tendenza degli italiani ad affidare il loro destino ad un “uomo forte”. Tant’è che anche all’interno dei partiti si cerca sempre di proporre un leader carismatico: io non amo i personalismi, che presentano sempre un elevato rischio di populismo e di demagogia.
    Se è vero (ed è vero) che la storia siamo noi, difficile essere ottimisti; qualcuno dice che siamo una democrazia giovane, dobbiamo crescere. Bene, quanto ci mettiamo?

  8. Nessuno qui a detto che il Mercato sia negativo a prescindere. La Costituzione Italiana ne prevede la presenza e in qualche modo ne stimola l’azione. Però mi pare fuorviante considerare la Politica “marcia” e il Mercato “limpido”. Entrambi gli attori sono costituiti da uomini, che possono essere giusti o ingiusti secondo la loro natura. Se la Politica è lasciata a se stessa provoca i danni che dite voi, anche il Mercato fa notevoli danni se qualcuno si “distrae”. Ma questi sono discorsi etici e in parte filosofici. L’evidenza economica ( e questo voi me lo insegnate ) è che non si può inseguire il maggior margine di profitto senza accettare un considerevole tasso di disoccupazione. Viceversa inseguire la piena occupazione prescinde dal margine di profitto. La contrapposizione sta tutta qui, ognuno scelga da che parte stare. Io dal canto mio preferisco un mondo dove possa esistere l’emancipazione di tutti in base al proprio lavoro, e con esso il benessere sociale. Sarò sognatore, sarò anacronistico, tutto quello che volete, ma non potete negare che attualmente la distribuzione del benessere non sia equilibrata. Vorrei far notare che in questo periodo di crisi è aumentato il numero dei ricchi, soprattutto nell’area PIGS.

    1. @rmora2012 condivido la tua opinione. Il danno più rilevante di una politica sciagurata e di un mercato out of control o peggio ancora strumentalizzato è proprio l’incremento della forbice reddituale, con la conseguente nascita dei cosiddetti nuovi poveri, da una parte, e di nuovi ricchi dall’altra. Infatti, l’unico settore di mercato che non risente dell’attuale crisi è proprio quello dei beni di lusso.

  9. ….un anno fa circa scrivevo questo:

    “Terra di Mezzo

    appartengo alla Terra di Mezzo: quella della generazione nata negli anni 50-60. i figli di coloro che trascorsero l’infanzia nei panni obbligati di Balilla e Giovani Italiane e la gioventù nella seconda guerra mondiale, chi nell’esercito regolare, chi sulle montagne con i partigiani. Con la ricostruzione e l’euforia del decennio successivo alla fine della guerra, arrivammo noi. Fummo educati al rispetto per l’autorità ma alla formazione dello spirito critico, al rispetto per gli anziani ed alla considerazione per la saggezza dell’esperienza, al risparmio e al sacrificio, e al passo mai più lungo della gamba. I nostri genitori fecero spesso sforzi al di là delle loro possibilità per consentirci un’istruzione che ci rendesse liberi dalle manipolazioni, o che, più prosaicamente, ci consentisse un impiego ben remunerato e qualche fatica in meno. Sull’onda del sessantottino maggio francese (onda lunga, in Italia abbiamo questa prerogativa di un ritardo standard di un lustro sulle spinte evolutive), ci affrancammo presto dal rigore e dai rigidi principi morali che furono il cardine della nostra educazione: la morale comune si stava avviando verso un’elasticità pressoché assoluta, dominata dall’antico principio di machiavelliana memoria che “il fine giustifica i mezzi”. Puntammo molto sulla carriera, molti di noi crebbero distrattamente dei figli ai quali non ebbero tempo né voglia di trasmettere principi e valori assimilati dai propri vecchi, né ebbero tempo e voglia di proporne di nuovi. Si preferì interpretare il comodo ruolo di amico anziché quello più faticoso ed impegnativo di genitore (il che non ci evitò affatto il puntuale scontro generazionale); si delegò molto all’esempio di una coscienza collettiva sbrindellata e proiettata verso il raggiungimento di un benessere economico certificato e verificabile attraverso l’esibizione di status symbols in continua evoluzione. Il passo proporzionato alla gamba fu sostituto da un sistema creditizio applicato su scala sempre più vasta.
    Oggi siamo qui a chiederci, nella migliore delle ipotesi, dove abbiamo sbagliato; nella peggiore ci arrovelliamo per scovare sistemi per conservare uno stile di vita che si sta irrimediabilmente sgretolando. Sarebbe meglio se meditassimo sull’ultima occasione di riscatto che abbiamo: inventarsi, insieme ai nostri figli, qualcosa di nuovo per gestire la fine di un sistema nel modo meno doloroso e più equo possibile, ma soprattutto per inventarne uno nuovo.
    Inutile e dannoso farsi prendere dalla nostalgia per i tempi passati: usciamo dalla Terra di Mezzo e proviamo a sognare un Paese nuovo, con confini cancellati, con regole semplici e meccanismi che sappiano farle rispettare, ma poi lottiamo per costruirlo. E ricordiamo che la democrazia ci consente di punire una classe dirigente inetta e attenta a difendere i propri privilegi NON VOTANDOLA. Smettiamola di avere paura del cambiamento: le specie che non hanno saputo adeguarsi ai cambiamenti si sono estinte.
    Riflettiamo, dunque, ma velocemente: il canonico ritardo italiano di un lustro questa volta sarebbe fatale.”
    Per dire.

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