Una sentenza da impallidire

impallidire

La normativa, con la nascita della MIFID, ha progressivamente spostato l’attenzione delle istituzioni finanziarie sulla tutela del portafoglio del risparmiatore ed in particolar modo sulla gestione del rischio e sulla profilatura della clientela.

La gestione del rischio finanziario è quindi diventata una peculiarità.

La stessa magistratura rivolge tuttora una particolare attenzione a questo aspetto. Infatti negli ultimi anni si sono viste numerose cause contro le banche (e non solo) che non hanno rispettato la cosiddetta propensione al rischio del cliente.

E mai come in questo momento la gestione del rischio di portafoglio diventa importante, visti i bassi tassi di interesse e il penalizzante rapporto tra rischio e rendimento della maggior parte delle obbligazioni, a causa della condizione di “bolla” in cui sono caduti i bonds.

Dicevamo quindi che nella storia, possiamo trovare molteplici cause che hanno visto la condanna di banche in cui non è stato rispettato il profilo del cliente e la relativa propensione al rischio.
Cause dove, per farla breve, il cliente ci ha rimesso dei soldi a causa di investimenti troppo aggressivi e non in linea con il suo profilo.
Ma state pur certi che, se il cliente guadagna, non viene a fare alcuna causa…
Comunque sia, risulta chiaro il fatto che la legge tende a tutelare (giustamente) non il rendimento ma il rischio.

 
Questo fino a poco tempo fa.
Poi, ecco la sentenza che…cambia tutto, ma proprio tutto, e che mette in dubbio qualsiasi logica.(CLICCATE QUI SOTTO PER LEGGERE TUTTA LA SENTENZA)

CORTE DI CASSAZIONE: SENTENZA N. 4393 DEL 24 FEBBRAIO 2014

La Corte ha affermato che la banca è tenuta al risarcimento del danno, per violazione del dovere di diligenza nella gestione del patrimonio mobiliare dell’investitore, allorché abbia tenuto una condotta eccessivamente prudente nelle scelte attuate (nella specie, per avere ridotto la quota azionaria dell’investimento ben al di sotto del limite massimo pattuito) conseguendo così una redditività inferiore, a nulla rilevando che, grazie alla gestione degli anni precedenti, il cliente avesse conseguito idonei guadagni.

Vi spiego rapidamente come sono andati i fatti. I signori BC e AR, clienti della BPV, decidono di sottoscrivere una gestione patrimoniale diversi anni fa (anni ’90). La classica 70-30, dove il gestore può arrivare a tenere in portafoglio fino al 30% di azioni.
Ad un certo punto, il gestore prevede un incremento di volatilità sui mercati finanziari e di conseguenza diminuisce il peso dell’equity. Ne consegue che la gestione va a collocarsi con una componente di rischio inferiore rispetto al benchmark di riferimento.
La previsione del gestore risulta però errata, in quanto il mercato continua a salire e con esso le borse.
Il cliente, a quel punto, va in banca facendo notare che la gestione ha sottoperformato il benchmark a causa della eccessiva prudenza.

Morale: il cliente fa causa per mancato guadagno e alla fine la Corte di Cassazione gli dà ragione.

E’ questo secondo me l’elemento rivoluzionario: la legge tutela il mancato guadagno tralasciando la gestione del rischio, o se preferite mettendo questa peculiarità che io ritengo fondamentale in secondo piano.
E la domanda che mi pongo è la seguente: ma a questo punto a cosa serve la consulenza? A cosa serve la gestione del rischio quando ormai qualsiasi cosa accade, la legge può farti la pelle?
Non conviene mettersi a benchmark come vuole la profilatura del cliente con una gestione passiva, rendendo inattaccabile la gestione della banca? Il cliente avrà certamente una qualità del servizio inferiore ma almeno non comporta grane per l’intermediario.

Credo che questa sentenza possa muovere non poco nell’ambito del mondo della finanza italiano.

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Pubblicato da Danilo DT

Danilo Rambaudi, alias Dream Theater, è un operatore finanziario dal 1995. Asset Allocation Manager, collabora con istituzioni finanziarie e siti finanziari italiani e non, nell'ambito dell'analisi e della ricerca. Analista tecnico, ma anche padre e marito (e a volte se ne dimentica).

3 Risposte a “Una sentenza da impallidire”

  1. Interessante. Domanda: i clienti erano a conoscenza dell’esatta composizione del fondo? (Per esempio, per me risulta difficile al di là del 70-30 e del rating) inoltre: furono informati del cambio di gestione?
    Sinbad

  2. Trattandosi di una gestione patrimoniale è possibile, da parte del cliente, vedere la composizione del portafoglio in qualunque momento. Senza dimenticare che periodicamente, tipicamente ogni tre mesi, la banca rendiconta comunque al cliente il dettaglio della gestione e dell’operatività di periodo.

  3. A mio parere, la sentenza non fa altro che confermare il precedente e univoco orientamento della medesima Corte (si veda Cassazione civile, sez. I, 24548/2010) sui termini entro i quali il cliente può proporre la richiesta del risarcimento del danno in caso di asserita “mala gestio” del patrimonio affidato al gestore.

    Sotto tale profilo, la Cassazione ribadisce che il contratto di gestione patrimoniale:

    – differisce dal contratto di conto corrente e, quindi, non può essere applicato il termine per l’approvazione tacita (60 giorni dal ricevimento, artt. 119 TUB e 1832 c.c.) del rendiconto bancario (fermo che tale approvazione si riferisce alle operazioni contabili e non al danno eventualmente subito per tali operazioni, come è stato rilevato nel caso dell’anatocismo);

    – differisce dal contratto di mandato (in quanto il mandato si esaurisce con la conclusione dello stesso mentre la gestione patrimoniale configura un rapporto continuativo) e quindi non può applicarsi il termine per l’approvazione implicita del rendiconto indicato dall’art. 1712 c.c..

    Quindi, a legislazione vigente, il rendiconto di gestione patrimoniale, a prescindere dalla sua periodicità, non determina casi di approvazione tacita, impeditivi di richieste risarcitorie, a meno che nel contratto non sia prevista una specifica clausola, approvata dal cliente separatamente, che preveda la decadenza di tali richieste (per effetto dell’intervenuta approvazione tacita del rendiconto) trascorso un adeguato periodo di tempo. Naturalmente, anche in tal caso, non si esclude che potrebbero essere azionabili richieste derivanti dal danno conseguente alla palese violazione del grado di propensione al rischio e del profilo di benchmark fissato dal cliente. In caso di silenzio contrattuale, si applicherà l’ordinario termine di prescrizione decorrente dai singoli rendiconti. Né, ribadisce la Cassazione, l’eventuale “mala gestio” nella gestione patrimoniale può trovare compensazione nei – migliori, in senso assoluto e relativo – risultati conseguiti in periodi precedenti.

    La sentenza, pertanto, non entra affatto nel merito della vicenda, se cioè sia stato giusto censurare, per eccessiva prudenza, l’attività del gestore. Tale valutazione è stata operata dal Tribunale e dalla Corte d’Appello sulla base di una consulenza tecnica, evidentemente affidata ad un esperto in materia di investimenti. Appare significativo che tra i motivi di ricorso in Cassazione non vi fossero rilievi in ordine alla corretta valutazione della perizia da parte dalle due corti di merito, con ciò lasciando intendere che la perizia aveva rappresentato elementi di fatto e circostanze non contestabili (che però rimangono ignote al commentatore, così come le clausole contrattuali e tutti gli altri elementi).

    Al riguardo e prescindendo dal caso specifico, può dirsi che non risulta che sia mai stato contestato (e per questo sarebbe utile e necessario conoscere il contenuto della perizia e della sentenza di primo grado) che l’obbligazione del gestore sia di mezzi e non di risultato. Nonostante, infatti, l’alto grado delle competenze tecniche richieste, non è affatto detto che l’operato del gestore debba necessariamente preludere ad un determinato risultato, né ovviamente che il conseguimento di un rendimento inferiore ad un qualsiasi benchmark, pur espressamente indicato, costituisca di per sé inadempimento del gestore.

    Se però, nel caso in esame, si fosse stati in presenza di un così grande cambiamento interpretativo (e appare impossibile) la sentenza della Cassazione ne avrebbe dato conto, anche solo per rispondere ai motivi di appello.

    Altra cosa, chiaramente, è quando si sia in presenza di una strategia di investimento palesemente e/o irrazionalmente incongruente con il grado di propensione al rischio e con il profilo di benchmark concordati con il cliente.

    Sul punto (ma su qualsiasi attività umana), però, nessuna legge potrà mai impedire che possano sorgere contestazioni, evitabili unicamente tramite dettagliate previsioni contrattuali (che consentano anche modifiche, concordate, nella strategia di investimento), comunicazioni tempestive ed accurate, lealtà e diligenza nel rapporto fiduciario.

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