Sglobalizzazione, lavori in corso

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Der Eiserne Kanzler (il Cancelliere di ferro) Otto von Bismark fu il primo che cercò, attraverso un sistema di alleanze negli Anni ’80 del XIX secolo,di creare un equilibrio di forze in Europa: riuscì a isolare la Francia e a contenere le dispute fra Austria e Russia, e fra Austria e Italia. Tentò poi anche un riavvicinamento tra Germania e Francia, per far fronte comune contro la Gran Bretagna.

Nella pax bismarckiana venne realizzato il primo sistema previdenziale al mondo, che servì da modello per tutti gli altri Paesi; poi istituì l’assicurazione contro le malattie (1883) e quella contro gli infortuni (1884).

Bismarck gettò le basi, nel continente europeo, del moderno welfare state. Ugualmente durante la pax americana, dal 1990 a oggi, abbiamo sperimentato una fase di equilibrio geopolitico che ha generato prosperità. La popolazione mondiale è divenuta più sana, le aspettative di vita sono cresciute ovunque, la mortalità infantile è drasticamente calata, il numero di guerre si è ridotto sensibilmente.

Tuttavia una parte importante della popolazione occidentale ha la sensazione di beneficiare troppo poco delle meraviglie della modernità.
La globalizzazione non è più la via che l’opinione pubblica unanime vuole seguire.

LA SGLOBALIZZAZIONE È IN CORSO DA TEMPO

La “sglobalizzazione”, in realtà, è un processo in corso già da tempo: la quota del Pil mondiale rappresentata dal commercio internazionale è passata dal 39% del 1990 a circa il 60% nel 2008, e da allora si è stabilizzata.

I flussi di investimenti esteri nel mondo (Fdi – Foreign direct investments), i finanziamenti bancari transfrontalieri e la percentuale di nazioni con economie convergenti sono tutti in calo negli ultimi 10 anni.
In parte dipende dal fatto che il terziario -cioè i servizi- rappresentano una quota crescente del Pil mondiale e sono per certi versi più complessi da esportare rispetto ai beni materiali.

Dopo la stabilizzazione è ora iniziata la vera “sglobalizzazione“.

dazi Usa valevano l’1,3% delle importazioni nel 2015, ad ottobre 2018 erano già pari al 2,7% e se i dazi verso la Cina verranno alla fine introdotti, arriveranno al 3,4% del totale.

La sglobalizzazione introduce elementi di incertezza normativa e cambia la composizione degli investimenti di lungo termine delle imprese: viene ridotta l’esposizione verso imprese dei Paesi esposti a rischio geopolitico e/o a incertezze su regole, a vantaggio di partner più vicini, sia geograficamente che politicamente.

Gli investimenti dalla Cina verso Ue e Usa segnano -73% nel 2018, se dieci anni fa solo un terzo degli investimenti diretti all’estero da Paesi asiatici si indirizzava in Asia, oggi è la metà del totale a restare in Asia.
In Europa la quota è già del 60%.
Le aziende asiatiche e quelle giapponesi fanno ormai più fatturato in Asia che negli Usa.

UN’ECONOMIA ORGANIZZATA IN MACRO-REGIONI

Il mondo, insomma, si stia riorganizzando per macro-regioni.

Uno scenario multipolare in cui i mercati asiatici, europei e americano saranno più auto-riferiti rispetto al mondo che abbiamo vissuto dal 1990 a oggi.

Chiaramente, in questo contesto, la mossa più sbagliata strategicamente è quella di danneggiare le relazioni all’interno della propria macro-regione, come fa l’Italia litigando con la Francia, minando la credibilità della Bce attraverso le dichiarazioni di componenti del governo, o indicando Bruxelles come sede dei nemici.

La sponda italiana al progetto cinese della Nuova via della seta è grave proprio nell’ottica geopolitica: invece di riconsolidare l’Unione Europea e la Nato, si sceglie lo strappo.

La “colpa” della voglia di rottura dello schema sta nel crescente malcontento della classe media occidentale, che si sente incalzare dai Paesi emergenti in due modi:

  • o perché crescono a tassi molto più sostenuti
  • o perché non crescendo e languendo nella guerrae/o nella povertà, generano spinta all’emigrazione.

La classe media occidentale vede inoltre sempre più concentrarsi la ricchezza e le posizioni di successo in poche mani, in un contesto che mitizza la meritocrazia. Come se l’Occidente fosse il luogo delle pari opportunità, dove ognuno può raggiungere la posizione che merita, e non come esito della lotteria della nascita.

SE LA MERITOCRAZIA GIUSTIFICA LO STATUS QUO

In meritocrazia, la ricchezza e il vantaggio sono il giusto compenso del merito, non la fortuna di eventi esterni. In realtà anche il merito è, almeno in parte, il risultato della fortuna. Il talento e la grinta, dipendono molto dal corredo genetico e dall’educazione ricevuta. La fortuna può concedere doti (merito) o fornire circostanze in cui il merito può tradursi in successo.[sociallocker].[/sociallocker]

Questo non significa negare il talento e l’operosità delle persone di successo. Ma ricordare il ruolo della fortuna aumenta la generosità: ricordare i fattori esterni (fortuna, aiuto degli altri) che hanno contribuito al successo nella vita rende più propensi a fare beneficenza rispetto a ricordare fattori interni come l’impegno e l’abilità.

E in un mondo affetto da disuguaglianza e rabbia sociale c’è un gran bisogno di alzare il livello della generosità media.

Spesso la convinzione di vivere in un contesto di meritocrazia, o di essere latori di un concetto puro, convince i soggetti della loro buona fede morale.
Convinti di essere, a priori, nel giusto, diventano meno inclini a esaminare il proprio comportamento cercando tracce di pregiudizio.

La meritocrazia, inoltre, giustifica e – paradossalmente – consolida lo status quo, dando un perché alla collocazione sociale di ognuno, che a questo punto rappresenta ciò che è “giusto” e reclama la difesa del sistema se viene messo in discussione.

MA LA CRITICA DEL MERITO VIENE DIMENTICATA COI MIGRANTI

L’equivoco mostruoso della presunzione di meritocrazia è la trasformazione della disuguaglianza materiale in superiorità personale.
Autorizza i ricchi e i potenti a considerarsi realmente esseri superiori.
Titoli accademici, successi professionali o artistici diventano prova del talento e dell’impegno.

Allo stesso modo, i piccoli fallimenti quotidiani diventano segni di difetti personali, fornendo una ragione per cui coloro che sono in fondo alla gerarchia sociale “meritano” di rimanere lì.

La stessa classe media occidentale, però, nell’additare le élite reclamando il ruolo dei fattori esterni e ridimensionando il merito individuale (arrivando a disprezzare la cultura, le istituzioni ed i membri dell’establishment), cambia approccio quando l’argomento è l’immigrazione.

Essere nati dalla parte “giusta” del mare improvvisamente non è più frutto del caso, ma diventa una strana forma di merito da presidiare dall’aggressione esterna.

Un’eccessiva convinzione di vivere in un mondo meritocratico incoraggia l’egoismo, la discriminazione e l’indifferenza verso la condizione degli sfortunati.

La vita ci offre innumerevoli promemoria di come un “tiro di dadi” possa far cambiare tutto, come la scomparsa dell’amico Andrea Garufi (@_beneathsurface) ci rammenta.

Ricordarlo aumenterebbe la generosità nel mondo e limerebbe gli spigoli della rabbia sociale.

Nel frattempo, chi governa grazie alla rabbia sociale deve ricordarsi di cavalcare la tigre con senso della misura, puntando a scelte ragionevoli e strategiche.

Perché proprio Bismarck ammoniva:

«Lo statista deve vedere per tempo che cosa sta per arrivare e regolarsi di conseguenza. Qualora manchi di farlo le sue misure giungeranno per lo più troppo tardi.

Quando il treno è stato instradato su un binario sbagliato e incomincia a scendere la china, se le viti dei freni sono allentate, nessuna forza lo preserverà dallo schianto».

Articolo pubblicato su Lettera43 il 20.03.2019
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Pubblicato da L'Alieno Gentile

Precedentemente conosciuto con il nickname Bimbo Alieno, L'Alieno Gentile è un operatore finanziario dal 1998; ha collaborato con diverse banche italiane ed estere. Contributor OCSE nel 2012, oggi è Global Strategist per l'asset management di una banca italiana.

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