Shanghai: la ricerca della verità a senso unico

Non è facile tentare un’analisi sociale della tragedia di Shanghai, perché l’emozione è ancora dominante. Nella notte di Capodanno sono morti 36 giovani, schiacciati dalla folla impazzita e in preda al panico. È ancora poco chiara la dinamica dell’incidente, ma probabilmente un semplice disguido ha innescato la tragedia. Alcune centinaia di migliaia di persone si erano radunate sul Bund, il lungo fiume simbolo di Shanghai. Tra gli eleganti edifici di stile neoclassico – eredità della presenza europea e americana nella metropoli cinese – era prevista una serie di eventi, tesi a dare a Shanghai lo stesso prestigio delle celebrazioni di Times Square a New York. Anche nella corsa all’effimero si ripropone la rivalità del G2. La sequenza di morte ha avuto luogo vicino ai luoghi dove ho vissuto per molti anni, nella piazza dedicata a Chen Yi, compagno d’arme di Mao, ministro della Repubblica Popolare, sindaco di Shanghai dal 1949 al 1958. Per una tragica ironia, si tratta delle 3 entità sotto il mirino: il partito, il governo, la municipalità di Shanghai.

Nella valutazione che si impone, emergono responsabilità oggettive. La polizia è stata incapace di controllare un flusso grande ma atteso di persone. È stata sufficiente una scintilla per far divampare il caos. Il resto è colpa dell’impreparazione, del ritardo nei soccorsi, del più generale senso di separazione tra governanti e governati. Il dito viene puntato contro l’incapacità di gestire situazioni complesse, in una combinazione di arroganza e di incompetenza. Fortunatamente è stata smentita l’ipotesi più inquietante. La ressa che ha calpestato le vittime non è stata causata dal lancio di banconote false da 100 dollari che avrebbero causato la calca per accaparrarsele. Sarebbe stata un simbolo ancor più doloroso della Cina di oggi.

Il Presidente Xi Jin Ping ha ordinato immediatamente un’indagine sull’accaduto. I suoi detective stanno interrogando i funzionari, i familiari delle vittime, i testimoni. La commozione è stata intensa e i social network sono un canale di distribuzione per accuse e dissenso. La polizia di Shanghai ha chiesto scusa e ha riconosciuto la sua imperizia, forse per ingraziarsi Pechino o per calmare la rabbia. Non dovrebbe essere sufficiente. È molto probabile che alcune teste saranno tagliate perché il clima politico è orientato a fare pulizia della corruzione, dell’inefficienza, dell’indifferenza verso i cittadini. Se questa è un’operazione lodevole, la sua modalità appare invece appartenere al passato. È stata infatti imposta una censura sulla tragedia di Shanghai. I giornalisti, sia cinesi che stranieri, non possono porre domande, devono limitare la copertura sui media, non possono intervistare i familiari. Questi sono vigilati da agenti in borghese, mentre sui giornali nazionali sono pubblicate soltanto notizie che non accendano risentimento e proteste. La stessa sorte hanno subito anche le fotografie più crude ed esplicite.

Una triste ironia emerge: per scoprire i responsabili si mette la sordina alle informazioni, per consentire la trasparenza prevale la reticenza. Più che scovare la verità, il partito è intento a fabbricarne una, alcune volte la più utile, altre la più scomoda. È una delle tante contraddizioni di un paese in trasformazione, un gigante che si scopre impotente di fronte a piccole insidie, soprattutto se impreviste. Dimostra che stranamente è più facile conseguire record economici che gestire con sapienza manifestazioni spontanee come la celebrazione del nuovo anno.

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Pubblicato da Alberto Forchielli

Presidente dell’Osservatorio Asia, AD di Mandarin Capital Management S.A., membro dell’Advisory Committee del China Europe International Business School in Shangai, corrispondente per il Sole24Ore – Radiocor

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