Social impact bond: è vera festa?

La crisi in corso da tempo e il conseguente aggravarsi del deficit delle finanze statali mette sempre più a rischio le attività di assistenza e sostegno alla collettività. Tale situazione, da un lato, comporta che il policy maker individui modalità alternative alle tradizionali politiche di spesa mediante le quali far fronte alla crescente necessità di risorse da destinare ai fabbisogni sociali; dall’altro, offre ai privati l’opportunità di diversificare l’impiego dei propri capitali, poiché il settore del welfare può costituire un mercato dalle potenzialità ancora da sperimentare.

Su questi presupposti si basa la c.d. “finanza a impatto sociale”, nell’ambito della quale investimenti finalizzati a fornire servizi, determinati e quantificabili, alla cittadinanza sono al contempo in grado di generare una remunerazione per chi li effettua. Essa assume una particolare importanza anche nell’agenda UE, rientrando nel più ampio obiettivo della social innovation, al cui raggiungimento vengono destinati fondi comunitari nella programmazione 2014-2020. L’interesse per il tema ha determinato l’istituzione, nel luglio 2013, di una Task Force dei Paesi G8 sui Social Impact Investments, con lo scopo di promuoverne la diffusione nei singoli Stati aderenti. L’Italia, così come gli altri partecipanti, ha elaborato un documento ricognitivo circa l’attuale situazione nazionale della finanza a impatto sociale, formulando altresì raccomandazioni atte a favorirne lo sviluppo. Tra queste ultime, viene indicata l’introduzione di misure normative che consentano operazioni di sottoscrizione di titoli innovativi quali, ad esempio, i social impact bond (SIB). Si tratta di strumenti finanziari

“attraverso cui investitori privati forniscono il capitale iniziale per la gestione di progetti sociali di natura preventiva dietro garanzia da parte di uno o più enti pubblici di elargire, come remunerazione sul capitale investito, parte dei risparmi generati per le casse pubbliche dal successo dei progetti stessi”

Non sono, quindi, obbligazioni (bond) in senso stretto, con un interesse determinato che matura entro un dato lasso di tempo e la restituzione certa (salvo fallimento dell’emittente) del valore nominale del capitale prestato a scadenza; possono essere, invece, paragonati a derivati, il cui “sottostante” è rappresentato dalla realizzazione di un’attività di tipo socio-assistenziale e il cui rendimento non dipende  dall’andamento aleatorio di un certo valore (azione, valuta ecc.), ma dalla capacità dell’attività stessa di generare un impatto sociale, ed è variabile in relazione all’esito raggiunto. La denominazione per essi usata nei Paesi anglosassoni, vale a dire Pay for Success o Pay for Results, ne rende più evidente la sostanza: a seguito di accordi conclusi attraverso un’organizzazione di intermediazione tra vari stakeholder, ossia la pubblica amministrazione, il fornitore del servizio (operatori specializzati del terzo settore) e l’investitore, quest’ultimo ottiene la restituzione del denaro impiegato e il rendimento prestabilito esclusivamente in caso di successo dell’intervento che ha contribuito a supportare e, quindi, solo se il fornitore del servizio raggiunge gli obiettivi prefissati, nonché certificati da un terzo indipendente.

Per spiegare il funzionamento degli strumenti in discorso, si richiama solitamente  il primo caso in cui gli stessi sono stati emessi, vale a dire nel 2010 a Peterborough (GB) nell’ambito di un progetto – di recente sottoposto a verifica – riguardante i detenuti della prigione della città: l’investimento, della durata di otto anni, offre un rendimento solo se i progetti di reinserimento sociale riducono la recidività di Peterborough del 7,5% rispetto ad un gruppo di controllo composto dai detenuti di breve periodo in altre prigioni britanniche; la redditività è proporzionale alla riduzione della recidività. Al caso citato ne sono seguiti diversi altri, nei Paesi anglosassoni soprattutto. I social impact bond danno luogo a una particolare forma di partenariato pubblico-privato, assimilabile al project finance per la costruzione di opere pubbliche, salvo il fatto che per i SIB, almeno inizialmente, la P.A. non impegna risorse dell’erario, bensì dei privati; questi ultimi, a propria volta, sono indotti a investire sulla base non solo delle usuali valutazioni circa rischio e rendimento, ma altresì del giudizio circa le finalità sociali che si intendono realizzare. Le finalità suddette hanno natura “preventiva” – come precisato nella definizione sopra riportata – in quanto si prefiggono di prevenire l’insorgenza di problemi (quali malattie, criminalità ecc.) e, di norma, non sono sostenibili da uno Stato in crisi di risorse, che ovviamente attribuisce priorità alla soluzione dei problemi esistenti rispetto a quelli potenziali. Condizione essenziale perché il progetto venga intrapreso, da un lato, è che l’amministrazione sia in grado di quantificare la spesa necessaria a fronteggiare l’emergenza o il disagio sociale che intende evitare; dall’altro, che un sistema preciso di misurazione dell’impatto generato mediante l’intervento compiuto consenta di stimare i vantaggi da esso derivanti. Solo la ragionevole aspettativa di risparmio, fondata sulla ponderazione comparativa tra i costi e benefici di un’attività di welfare tradizionale, ossia effettuata ex post, e quelli di un’attività svolta ex ante e finanziata come detto, può rendere l’emissione dei titoli in esame conveniente per tutti gli interessati. Infatti, il risparmio di risorse ottenuto consente alla P.A. di impiegarle sia per fini ulteriori, che per la remunerazione degli investitori privati.

In conclusione, i social impact bond potrebbero canalizzare fondi necessari allo svolgimento di compiti di rilevanza sociale; permettere ai soggetti pubblici l’effettuazione di attività di welfare finanziate da terzi e poste in essere da operatori specializzati, conservandone comunque il controllo; consentire ai privati una diversificazione dei propri investimenti; infine, in quanto titoli performance-based, garantire l’efficienza e l’efficacia delle politiche realizzate, mediante pratiche di management-by-objectives nella gestione dei mezzi impiegati. Per più di un profilo, quindi, i SIB rappresentano una novità interessante nel panorama degli strumenti finanziari attualmente esistenti. Tuttavia, al fine di non ingenerare aspettative non essere sufficientemente fondate, occorre una valutazione attenta delle implicazioni a essi connesse, in quanto idonee a spostare il bilanciamento fra le opportunità e i rischi in maniera determinante. Ciò appare tanto più importante ove si consideri che i titoli in questione, unitamente a school bonus, school guarantee e crowdfunding, sono menzionati in un documento ufficiale, recentemente divulgato dal Governo in occasione della pubblica consultazione denominata “La buona scuola”. In tale documento i social impact bond vengono descritti come “strumenti di finanza buona”, qualificazione evidentemente conferita dalla finalità sociale in vista della quale vengono emessi. In particolare, essi sono indicati come possibile fonte di sostegno ad azioni sociali volte a limitare il fenomeno della dispersione scolastica (si cita l’esempio di interventi finanziati negli USA per supportare bambini provenienti da contesti poveri e ad alto pericolo di marginalizzazione). Ne viene così fornita una rappresentazione molto positiva: ma poiché i SIB possono presentare criticità rilevanti, sembra necessario trattarne al fine di una valutazione più esaustiva.

Al riguardo, possono prendersi le mosse da un’affermazione contenuta nella descrizione del documento di consultazione menzionato, ove i social impact bond vengono definiti come titoli con “una redditività particolarmente alta proprio perché hanno un impatto sulla capacità delle scuole di creare il futuro” ed è perciò importante che “vadano stimolati dall’intero Paese”. Lascia perplessi la circostanza che l’espressione “redditività” – vale a dire la misura della remunerazione del capitale investito – nel caso di specie venga usata in maniera ambigua, potendo essere indifferentemente correlata al valore sociale così come a quello economico che il titolo è idoneo a produrre, inducendo in quest’ultimo caso aspettative di guadagno che sarebbe bene non alimentare senza fondamento. Ugualmente, il termine “impatto”, che per gli strumenti in questione assume un rilievo particolare, poiché tramite esso viene misurato il rendimento dell’azione svolta, può dare adito a dubbi. Peraltro, anche laddove esso connotasse chiaramente l’effetto inteso in termini sociali, l’acclarata “capacità delle scuole di creare futuro” non garantisce che i SIB siano idonei a produrre in ogni caso gli esiti positivi che il documento pare presupporre: ad esempio, l’intervento programmato potrebbe non risultare efficace ovvero essere condotto da un soggetto non adeguato. Appare palese l’inversione logica del rapporto fra causa ed effetti che nella descrizione dei social impact bond viene compiuta dal documento in discorso: è la bontà dell’iniziativa di finanza sociale a potenziare l’azione della scuola, e non viceversa, così come l’apprezzabilità dei fini perseguiti non conferisce automaticamente valore ai mezzi preposti a realizzarli. L’invito, poi, all’intero Paese affinché i bond suddetti “vadano stimolati” concorre senz’altro a creare equivoci di non poco conto, poiché confonde due piani diversi: i SIB sono, come visto, titoli di rischio mediante i quali viene effettuato un impiego di denaro in vista di un ritorno in termini economici, non il canale cui far affluire fondi elargiti per beneficienza a iniziative socialmente rilevanti. L’esortazione al Paese contenuta nel documento citato sembra, pertanto, poco cauta, soprattutto laddove si consideri che i soggetti sui quali finisce per gravare il rischio connesso agli strumenti in argomento sono esclusivamente gli investitori privati. Infatti, come esposto, la P.A. eroga il corrispettivo previsto solo nel caso in cui il progetto vada a buon fine, non essendo altrimenti tenuta ad alcun esborso; i fornitori dei servizi sociali ricevono il compenso per le prestazioni rese anche se non raggiungono il risultato cui si erano impegnati; i valutatori dell’impatto sociale, in qualità di terzi indipendenti, ottengono comunque il corrispettivo concordato; l’intermediario che ha agevolato la rete di accordi tra le parti interessate e collocato i titoli in discorso trattiene le commissioni a copertura dei propri costi, prelevandole direttamente dal capitale raccolto. I privati sono, pertanto, gli unici soggetti che perdono in caso di fallimento del progetto: l’invito del Governo affinché investano nei SIB è, dunque, quanto meno azzardato. L’assunzione da parte loro di un rischio così rilevante potrebbe essere bilanciata dalla previsione di proventi molto elevati: tuttavia, la complessa architettura contrattuale sopra descritta comporta costi di istruttoria e di gestione della negoziazione di certo rilevanti, che inevitabilmente finirebbero per erodere gli eventuali ricavi conseguenti. Se, invece, gli elementi di rischiosità dello strumento venissero compensati dalla predisposizione di una garanzia per il caso di esito sfavorevole dell’investimento, prestata da un soggetto pubblico a ciò preposto, verrebbe vanificato uno degli intenti essenziali dell’operazione: vale a dire quello di sopperire alla scarsità di risorse dell’erario.

Si consideri, peraltro, che all’evidenziata incertezza circa il risultato dell’investimento non corrisponde alcun potere di influenza né di controllo dei privati in ordine alla gestione delle attività cui il titolo è correlato: lo squilibrio a loro carico appare evidente, soprattutto poiché le attività suddette, al momento, sono di tipo sperimentale, quindi dall’esito particolarmente dubbio. Ma anche qualora il progetto sociale in vista del quale l’investimento è stato realizzato venisse portato a compimento, dunque anche in caso di pieno successo, il privato sarebbe comunque esposto al rischio del mancato assolvimento dell’obbligo assunto da parte dell’ente pubblico coinvolto: il ritardo con cui la P.A. effettua il pagamento dei debiti di propria competenza è stato portato alla ribalta, negli ultimi tempi, con molta evidenza. A ciò si aggiunga la circostanza, sopra accennata, per cui l’efficienza del modello dipende dalla capacità delle amministrazioni di quantificare i costi dei servizi già esistenti, nonché il risparmio di spesa riveniente da interventi alternativi di tipo preventivo: si dubita, tuttavia, che esse siano provviste di personale dotato di una specifica competenza nelle misurazioni necessarie e disponibile a essere impiegato in progetti innovativi quali quelli indicati. Non può mancare di rilevarsi, in aggiunta ai profili sopra esposti, che andrebbe verificato se l’offerta al pubblico dei bond in discorso, nella ricorrenza delle condizioni previste dalla legge, richieda l’autorizzazione della competente autorità di vigilanza; inoltre, se la scelta del fornitore dei servizi comporti l’applicazione della normativa in materia di appalti, che pure dispone una serie di adempimenti. Si tratta di profili dei quali non può non tenersi conto nella valutazione complessiva dei titoli in esame. Così come pure va sottolineato che l’aumento della tassazione di recente disposta a carico di una delle categorie di soggetti più attivi nella realizzazione di attività sociali, vale a dire le fondazioni bancarie, ne riduce le disponibilità di fondi, non favorendo così di certo il connubio tra pubblico e privato necessario nelle operazioni rappresentate: tali soggetti sarebbero investitori ideali, potendone sostenere meglio di altri i rischi conseguenti e disponendo, altresì, di un know-how particolare con riguardo alle politiche sociali.

Sulla base di quanto sopra esposto, appare più chiaro perché la meritevolezza dell’obiettivo in vista del quale i social impact bond vengono richiamati nel documento di consultazione citato non connota automaticamente nello stesso modo gli strumenti preposti a realizzarlo. Non sempre il fine giustifica i mezzi né li qualifica positivamente per definizione. Confondere piani di giudizio mediante l’utilizzo di espressioni ambigue e, soprattutto, in assenza di elementi informativi essenziali non concorre certo a una trasparenza tanto necessaria quanto declamata e poco praticata.

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Pubblicato da Vitalba Azzollini

Classe 1963, studi classici, laurea in giurisprudenza alla Luiss, lavora in un'Autorità di vigilanza (ed esprime opinioni a titolo esclusivamente personale). Scrive per diletto su giornali on line e su Leoni Blog. Ha pubblicato paper per l’Istituto Bruno Leoni.

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