Stretto di Taiwan: dai “tre no” ai “tre link”

Taiwan

Da 65 anni le relazioni tra Cina e Taiwan non sono state così calorose. Sembra veramente lontano il ricordo del conflitto civile, della fuga dei nazionalisti nell’isola nel 1949, delle tensioni militari di un interminabile dopoguerra. Ancora negli anni ’80 la posizione ufficiale di Taipei era inequivocabile, tre negazioni nette verso Pechino: nessun contatto, nessun compromesso, nessuna trattativa. Le speranze di una soluzione negoziale sembravano svanite. Nel 1979 – 8 anni dopo l’ingresso della Repubblica Popolare Cinese alle NU e l’espulsione della Repubblica di Cina – le nuove relazioni diplomatiche tra Washington e Pechino sembravano preludere a un lungo, incerto ma possibile reintegro dell’isola nella madre patria. Appariva netta l’incongruità di avere considerato il piccolo territorio per tanti anni come legittimo rappresentante di tutta la Cina. Nessuno, né le due sponde dello Stretto, né l’intera comunità internazionale aveva allora dubbi: la Cina è una sola entità territoriale; rimaneva da decidere chi ne avesse la legittimità politica, se Pechino o Taipei.

La rigida posizione dei nazionalisti è stata erosa dalla goccia persistente della globalizzazione. L’apertura della Cina denghista è stata un magnete irresistibile per gli imprenditori taiwanesi. Attratti dal basso costo del lavoro, dai vincoli familiari, dalla prossimità culturale, hanno delocalizzato in Cina, trasferendovi le competenze e i capitali. È stata una facile conseguenza attivare le linee telefoniche dirette, gli attracchi marittimi per le merci, i viaggi personali e di affari. Anche gli aeroplani hanno potuto atterrare direttamente negli aeroporti, evitando l’ipocrisia di uno scalo a Hong Hong che doveva “denazionalizzare” l’aereo, facendo perdere al volo il legame tra due entità indipendenti.

Oggi si sorride di questi escamotage. I rapporti politici, addirittura istituzionali, sono a livelli alti e inediti. Si parla apertamente di modalità della riunificazione. Le relazioni economiche sono eccellenti, gli investimenti crescono, così come il commercio e lo scambio di servizi. È una tipica win-win situation. Sembra esser prevalsa, con la complicità del tempo, la vecchia idea pechinese dei tre link: postali, commerciali, di trasporto. I collegamenti da logistici sono diventati politici. Gli ostacoli tuttavia non mancano. L’opposizione a Taiwan accusa il governo del presidente Ma Ying-jeou di cedimento alla Cina, il ricordo della guerra è ancora vivido, gli eserciti sono pronti e agguerriti.

Contemporaneamente, l’integrazione economica procede speditamente, fino a diventare irreversibile. La sordina alla propaganda ha dato via libera ai fatti, più silenziosi e sostanziosi. Oggi gli interessi sono talmente avvinghiati che sarebbe impossibile colpire il presunto nemico senza danneggiare se stessi. Tutto lascia immaginare che il percorso della pace, seppure probabile, sarà lungo e accidentato. Per ora è d’auspicio pensare che la globalizzazione possa essere uno strumento di pace, mentre nello Stretto di Taiwan si scambiano merci invece che pallottole e volano gli aerei civili in luogo di quelli militari.

[articolo proposto anche su AGI China 24]
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Pubblicato da Romeo Orlandi

Presidente del Comitato Scientifico di Osservatorio Asia. Professore di Economia della Cina e dell'Asia. Esperto di globalizzazione. Autore, editorialista, relatore a convegni.

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