Tasmania, un posto per salvarsi. Dalle proprie inquietudini.

Tasmania

Su La Lettura n. 571 del 13 novembre scorso è apparsa un’intervista a due voci (a cura di Cristina Taglietti) a un giovane narratore italiano di quarant’anni e a un signore inglese più anziano che è fra gli scrittori più brillanti ed acuti di questi tempi, ossia Ian Mc Ewan (nato nel 1948).

Il giovane italiano è l’autore di oggi, Paolo Giordano, nato a Torino nel 1982: laureato in fisica, fu protagonista di un grande successo letterario quando era giovanissimo e la sua opera prima (La Solitudine dei Numeri Primi, Mondadori, 2008) vinse il Premio Strega e rimase lungamente in cima alle classifiche di vendita; in seguito, il nostro ha scritto altri quattro romanzi, oltre ad essere apprezzato commentatore ed editorialista dalle colonne del Corriere della Sera: a lui ci siamo spesso affidati per la sua capacità di analizzare in maniera razionale, ma non priva di un’accorata partecipazione, uno degli eventi che ha sconvolto le nostre esistenze recenti, la pandemia (su cui ha scritto anche un instant-book, Nel contagio, Einaudi, 2020).

Ed è proprio sulla coda della pandemia, nel 2021, che Giordano scrive il suo ultimo romanzo, edito da poche settimane, che trattiamo oggi: Tasmania (Einaudi, 2022, pagg. 258, Euro 19,50).

TASMANIA

Tasmania è un romanzo scritto in prima persona e l’io narrante è uno scrittore di quarant’anni, laureato in fisica, che pubblica sul Corriere della Sera e quindi la prima cosa da dire è che si tratta di un romanzo fortemente autobiografico, e presto vedremo che significato ciò abbia.

La storia di P.G. (del narratore sappiamo le iniziali soltanto) si svolge negli anni dal 2015 ad oggi e in molti passaggi Tasmania è un romanzo fortemente ancorato a fatti reali successi nel mondo, dove quindi troviamo una forte componente non-fiction: si raccontano l’ondata di attentati a Parigi ed in altre capitali europee, il timore del terrorismo islamico, l’avvento delle proteste per il climate-change (ad esempio a Londra nel 2019) ed un modo diverso di considerare molti temi, che ha dato origine a vari movimenti (#metoo e #woke).

Paolo Giordano ha dato una spiegazione a questo aggrapparsi ai fatti reali, affermando che “l’invenzione pura non trovava spazio” all’interno di un mondo reduce da tutti questi sommovimenti e scosso poi, quasi a voler rigirare il coltello nella piaga, da qualcosa di totalmente inatteso, e ulteriormente sconvolgente, come la pandemia di Covid-19. Perché allora, dopo quattro romanzi totalmente fictional, Giordano si affida, un po’ come aveva fatto Emmanuel Carrère ad un certo punto della sua carriera, ad eventi reali?

Egli risponde affermando che non aveva altra scelta, non poteva esimersi dal farlo:

“ho tradito il romanzo presumendo di essere più reale…mi sono messo in mezzo, in un momento in cui era difficile non affidarsi agli eventi reali”

ha dichiarato Giordano in questo colloquio con Valentina Barengo, quasi parafrasando dichiarazioni simili di Carrère (“ormai so scrivere solo di qualcosa che è accaduto”).

Ma torniamo a Tasmania: il protagonista ed io narrante è ovviamente, per definizione, al centro di questa vicenda, ma questo è un romanzo corale, e P.G., la moglie Lorenza ed il figlio di lei, Eugenio, sono al centro di un sistema con tanti altri rivoli narrativi (sub-plot, direbbero alcuni): c’è Giulio, il compagno di università, che vive a Parigi ed è alle prese con il divorzio tempestoso da Cobalt e con la lotta per vedere il figlio Adriano; c’è il prete-atleta Karol (un riferimento ad un possibile moderno Wojtyla?) che a un certo punto si innamora di una ragazza ventenne; c’è Jacopo Nobili, “premio Nobel” (fra virgolette perché non è proprio così), esperto di clima e di nuvole, che a un certo punto viene distrutto sui social per aver detto nientemeno che la condizione femminile è quella che è perché le donne sono effettivamente inferiori (anche questo è un fatto che si rintraccia, effettivamente, nelle cronache di alcuni anni fa); c’è Curzia, free-lance in teatri di guerra o simili; ci sono le lezioni che P.G. svolge a Trieste e che gli fanno incontrare ragazzi impegnativi e problematici.

Ma non finisce qui: Paolo Giordano riesce anche a fare divulgazione, e, utilizzando l’espediente narrativo di un libro che sta ipotizzando di scrivere sul tema della bomba atomica (tristemente, purtroppo, di attualità), ci fa tornare a quell’agosto 1945 con pagine crude, vivide, interessanti.

Come era successo con La Solitudine dei Numeri Primi, questo romanzo così fortemente ancorato alla cronaca recente (ma non alla cronaca della pandemia, che viene saltata di netto dal plot), riesce però anche a colpirci nel profondo con quella sua inquietudine di fondo, quel senso incombente di pericolo e di ansia, con passaggi di forte emotività e partecipazione: qui in realtà si parla di noi, delle nostre crisi famigliari, del nostro non saper cosa fare della nostra vita e di voler “sistemare tutto”, come si conviene a chi vive in un tempo così complesso:

“Volevo uscire e telefonarle per sistemare tutto al più presto. Volevo sempre sistemare tutto al più presto. Il mio rapporto con la discontinuità non si poteva definire dei migliori”.

Oppure:

“Le cose che fai quando non ti vede nessuno: non erano sufficienti per andare avanti? Ballare, non sentirsi responsabile di niente, vivere l’euforia momentanea”.

Il romanzo, fra l’altro, si apre con P.G. e Lorenza che rinunciano ai (vani) tentativi di avere un figlio e da qui, duecento pagine dopo, si arriva alla struggente scoperta di cosa era stato il rapporto con il figlio di Lorenza, Eugenio, lo “stepchild” di P.G.:

“Stavo pensando […] a tutti i piatti di pasta che avevo cucinato per lui e alle attese in macchina fuori dalle feste e ai moduli compilati e alle raccomandazioni superflue e al vaporizzatore cangiante che da bambino teneva nell’angolo della stanza e ora non sapevo che fine avesse fatto. E stavo pensando che tutte quelle cose, insieme alla pizza fuori programma che stavamo mangiando per colazione il primo gennaio 2020 – non ne ero sicuro, lo consideravo adesso per la prima volta – forse erano state una paternità”.

Forse, il rischio di questo libro così vario, corale e concitato era di essere dispersivo, di mettere troppa carne al fuoco, anche perché oltre a quello che abbiamo citato c’è anche parecchio altro, come ad esempio la breve storia di Alma e Maurizio, o il rapporto di P.G. con i genitori quando torna brevemente a Torino, o il finale, forse un po’ ambizioso, in Giappone, a incontrare i sopravvissuti dell’olocausto nucleare nel 2022, dopo la pandemia.

Sì, questo rischio c’è: il romanzo può effettivamente prestare il fianco a questa critica, di voler trattare troppi temi; tuttavia, se volete un consiglio, corretelo pure, il rischio di calarvi in questo “troppo”, andate anche voi alla ricerca della Tasmania, il posto dove andreste se foste costretti a salvarvi. E anche se, alla fine, in Tasmania non va nessuno, vi accorgerete, molto probabilmente, che la questione è ben posta.

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Pubblicato da Leonardo Dorini

Manager, consulente, blogger. Mi occupo di finanza ed impresa, amo lo sport. Ma sono qui per l'altra mia grande passione: la letteratura.

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