The fool on the hill (La Canzone Inclinata)

Le giornate si allungano, l’aria è tiepida, sui rami degli alberi sono comparsi i teneri bitorzoli delle gemme: un altro inverno è passato.

Il vecchio contempla il tramonto dalla sua panchina. Siede composto, la schiena appoggiata alla dura spalliera del sedile che è casa sua da sette anni. Tiene le mani allacciate sul grembo, le ginocchia piegate e i piedi posati per terra. Da qui si apre una bella visuale su Milano, si allarga oltre gli svincoli autostradali e i casamenti del quartiere QT8: dicono che nelle giornate più limpide si scorgono i profili aguzzi delle guglie del Duomo. Ma forse non è mica vero, perché lui non li ha mai visti.

 Certo, definire “monte” la Montagnetta di San Siro è un’esagerazione tipicamente milanese.Tuttavia, la grandezza di questa protuberanza risiede nella sua funzione di custodia della memoria della Seconda Grande Guerra: così come Milano risorse dalle macerie più bella di prima, da un cumulo di detriti della città bombardata nacque la montagna dove, negli anni ’80, i milanesi andavano persino a sciare.

Nella cava a San Siro convertita in discarica nell’immediato dopoguerra, l’architetto Piero Bottoni, progettista del quartiere dedicato all’ottava Triennale del 1947, aveva immaginato un lago balneabile. Osservando l’accumularsi di detriti, decise di innalzarlo ulteriormente ed ecco la montagna: “Giacché sogno e poesia muovono, malgrado le apparenze, il mondo”, per citare le sue parole.

Ai meneghini non si può certo rimproverare una scarsa inventiva: in mancanza del mare hanno creato l’Idroscalo, in assenza di monti si sono dotati della Montagnetta di San Siro. Per i vecchi milanesi è sempre stata semplicemente La Montagnetta, sebbene Bottoni l’avesse chiamata Monte Stella in memoria della defunta moglie.

Sempre perché dotati di fervida immaginazione, a proposito della composizione del basamento dell’altura molti milanesi mormorano di carcasse d’auto rubate e persino di cadaveri che vi sarebbero stati occultati nei decenni ’60 e ’70, quando i lavori di innalzamento e di piantumazione erano ancora in corso e nottetempo capitava di registrare viavai sospetti.

Dino non è così vecchio. Molti altri settantenni sgambettano energicamente tutte le mattine sui vialetti del Parco dei Giusti, sorto sulla Montagnetta nel 2003 e intitolato a coloro che nel mondo si opposero ai genocidi e ai crimini contro l’umanità. Passando davanti alla sua panchina, qualcuno di questi lo sbircia senza parere, nello sguardo subito distolto un misto di curiosità e di compassione. Alcuni dopo qualche tempo hanno preso a salutarlo e addirittura di tanto in tanto gli portano indumenti smessi freschi di bucato, biscotti,  scatolette di carne, frutta. Gli allungano il sacchetto con un sorriso imbarazzato, raramente tentano di imbastire una qualunque conversazione. Dino ringrazia con un cenno del capo, ricambia il sorriso.

Day after day
Alone on a hill
The man with the foolish grin
Is keeping perfectly still
But nobody wants to know him
They can see that he’s just a fool
And he never gives an answer
But the fool on the hill…

Nel 2003 Dino Malerba era appena tornato dall’Andalusia, dove aveva trascorso quarant’anni nella regione agricola attorno a Cordoba lavorando come bracciante nelle fattorie e negli allevamenti di tori e di cavalli. Un mestiere faticoso, usurante e mal retribuito; ciononostante era riuscito a mettere da parte qualche soldo. Così, quando aveva compiuto sessantatré anni aveva pensato di essere troppo vecchio per quella vita e forse, infine, era pronto per tornare a Milano.

Però, dopo tanto tempo passato in un luogo che sembrava placidamente refrattario alla modernità, si era sentito un estraneo in quella città profondamente mutata. Non aveva più nessuno, l’aspetto di molti luoghi non combaciava con quello conservato nella sua memoria.

Allora aveva incominciato a sentire il richiamo della voce di lei, ammaliante e sinistro come il canto delle sirene. Dopo qualche tentativo di resisterle e di sottrarsi, aveva ceduto e, accogliendo l’oscuro invito, era tornato sulla Montagnetta, consapevole che da lì non si sarebbe mai più mosso.

Finiti i soldi, era ricorso alla carità scoprendo che Milano è una città generosa, ricca di anime belle che si preoccupano e si occupano di chi, per diverse ragioni quasi sempre insindacabili, vive sulla strada.

Dino era nato nell’estate del ’40, all’indomani della scellerata adesione mussoliniana alla Seconda Guerra al fianco della potente Germania.

Aveva dunque appena tre anni quando sua madre morì nel ’43, durante il bombardamento che devastò Piazza Fontana; suo padre scomparve alla fine dell’anno successivo nelle boscaglie sull’Adda, insieme a un gruppo di gappisti scovati dalla legione Muti. Fu la zia materna Rosalba, infermiera che non si era mai sposata, a prendersi amorevolmente cura di lui.

Sul medesimo ballatoio della casa di ringhiera affacciata su Via Ripamonti, dove Milano finiva perdendosi nelle risaie e nei campi coltivati a cereali, abitava la signora Jole con la piccola Gisella. Si era sempre dichiarata vedova, ma tutti sapevano che un marito non lo aveva mai avuto e il padre di quella bella bambina chissà dov’era. Ciò non impedì al vicinato di manifestare la propria concreta solidarietà alla donna, che si barcamenava facendo la sarta in casa.

Fino a una certa età, Gisella fu una bambina vivace e mingherlina dalle trecce color rame e il viso spruzzato di efelidi che in estate, al primo raggio di sole, si arrossava con tanta facilità da costringerla all’uso di un cappello di paglia. La metamorfosi avvenne con la pubertà e fu improvvisa e straordinaria, tanto da creare un temporaneo vuoto attorno alla sua persona per effetto dello stupore e della subitanea timidezza suscitata nei vecchi compagni di gioco.

Lunghi capelli rosso rame, carnagione lattea, l’ovale perfetto e gli occhi ardenti, dello stesso colore dell’uva bianca quando è matura, il corpo dalla forma di anfora e una stupefacente sensualità del tutto naturale. Una volta che ebbero superato la fase d’immobile sbalordimento, i maschi della corte di via Ripamonti presero a soprannominarla Gilda, per l’impressionante somiglianza fisica con il personaggio interpretato dalla diva Hayworth.

Negli anni dell’adolescenza anche Dino sbocciò e divenne un aitante giovanotto dal ciuffo bruno e ribelle spiovente sugli occhi celesti. A forgiare il fisico ci pensò il mestiere di muratore, che aveva intrapreso già a quattrodici anni.

L’amore, o qualcosa che gli somigliava molto, sbocciò tra i due ragazzi nell’estate del ’62, complice la parziale esibizione delle rispettive nudità sulle spiagge dell’Idroscalo.

“Svegliati, Dino, che la Gisella ha altre ambizioni, con te sta solo facendo pratica. Quella mira a trovare un riccone che la sposi e le faccia fare la signora, non ha nessuna intenzione di faticare tutta la vita al fianco di un muratore! Divertiti pure, se vuoi: non combinare un guaio e non te ne innamorare, non è roba per te”.

In cuor suo, Dino sapeva che la zia Rosalba poteva avere ragione, ma era troppo tardi: oltre a essere stregato dalla sua fatale bellezza, amava Gisella con disperata cocciutaggine. Più sentiva che la passione focosa  con la quale lei si concedeva aveva a che fare con l’egoistica  voluttà piuttosto che con l’amore e più intuiva che era sfuggente come l’acqua tra le dita, più si intestardiva.

Si frequentavano da un anno quando Gisella si decise a dar corpo a certe voci che circolavano già da un po’, ma che Dino non aveva voluto prendere in considerazione. Si trovavano su di una strada sterrata ai piedi della Montagnetta e si erano infrattati tra i cespugli, nei pressi di uno dei cantieri dove si lavorava per l’innalzamento.

In quella bella bella notte di maggio, dai finestrini aperti della 600 usata che Dino stava pagando a rate, entrava una brezza lieve e la pelle candida di Gisella riluceva come seta preziosa sotto il chiarore della luna. Si erano separati dopo uno dei consueti amplessi smaniosi consumati sullo scomodo sedile posteriore dell’auto, il respiro ancora corto, appagati e madidi del medesimo sudore. Lei gli aveva annunciato d’improvviso, come se stesse parlando del più e del meno, che aspettava un figlio dal proprietario di una grande drogheria più vecchio di lei di vent’anni. Lo aveva conosciuto perché era cugino della titolare della modisteria in via Cappellari, dove faceva la sartina.

“Capisci che questa era l’occasione che aspettavo, Dino? E dai, non fare quella faccia, non è mica detto che non dobbiamo più vederci. Certo, dovremo essere prudenti, ma…”

Dino allora si era aperto in un sorriso. Aveva allungato una mano verso il lungo, dolcissimo collo di lei, dove appena sotto la pelle una piccola vena palpitava come il battito d’ali di una farfalla, come per farle un’ultima carezza. Le si era avvicinato piano e lei gli aveva porto le labbra per un bacio. Allora aveva stretto le mani sempre più forte, lo sguardo fisso negli occhi di lei, finché non li aveva visti appannarsi e spegnersi mentre il corpo si afflosciava sul sedile, inutile involucro senza più un’anima. Comprese in quel momento che Gisella non lo avrebbe lasciato mai più: aveva ottenuto ciò che voleva, ma certo non come lo intendeva.

Dunque, quanti misteri si celano sotto la Montagnetta?

Nelle settimane successive, Dino raccontò alla polizia che lui e Gisella si erano da poco lasciati perché la ragazza si era messa insieme al ricco proprietario di una drogheria in via Cappellari, il quale risultava essere sposato con una gran dama dell’alta borghesia milanese. Aggiunse che la ragazza gli aveva confessato di aspettare un figlio dall’uomo e di temere la sua reazione. La polizia rivolse le sue attenzioni al droghiere e poco dopo Dino partì per l’Andalusia.

Credeva di essere pronto, si illudeva che gli anni, la lontananza e le fatiche di una vita avvilente e solitaria lo avessero infine ripulito, riscattato e liberato: Invece no, tornando a Milano aveva subito sentito la voce di Gisella che lo chiamava.

La gente pensa che sia matto, però un matto innocuo e gli dispensa perfino gentilezze e pietà. Lui non parla perché non ha più niente da dire; nessuno può sentire la sua voce arrochita e la sua cadenza intrisa delle seducenti morbidezze della lingua spagnola.

Rimane seduto su quella panchina, un giorno dopo l’altro; ascolta la voce di Gisella, nell’attesa che venga a prenderlo. Perché è certo che lo farà.

…But the fool on the hill
Sees the sun going down
And the eyes in his head
See the world spinning ‘round…

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Pubblicato da Sonia Fantozzi

Spirito irrequieto alla costante ricerca dei perché e dei percome. Ha lasciato Milano,ma in cima a una collina ha scoperto che sarà milanese per sempre.

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