Theresa May, la perdente nella disputa tra Brexit e mercati

Man mano che la strategia di Theresa May emerge dalla nebbia di confusionari slogan (“Brexit vuol dire Brexit”), i mercati finanziari stanno emettendo il loro verdetto.

La sterlina ha perso circa il 15% contro le principali valute dal giorno del referendum, le aspettative di inflazione per i prossimi 10 anni sono salite a 3,4% ed i titoli di Stato inglesi (GILT) a 10-anni hanno perso il 5% dai massimi. I soli asset inglesi che tengono bene sono le azioni a grande capitalizzazione dell’indice FTSE100, che generano per lo più i propri utili sulle piazze internazionali. In pochi giorni è svanita l’illusione che un divorzio dalla UE sarebbe stato indolore.

Noi pensiamo che, sia per i mercati finanziari che per l’economia reale, le discese non siano finite.

La svalutazione monetaria porterà più danni che benefici al Regno Unito, che importa più di metà del cibo che consuma e quasi la metà dell’energia che gli occorre. Una trattativa a muso duro senza un accordo per il passporting per i servizi finanziari colpirebbe la Gran Bretagna con un tremendo uno-due di perdita di posti di lavoro e aumento dei prezzi per le importazioni. Il risultato che seguirebbe sarebbe la stagflazione, che noi stimiamo costerebbe almeno 140 mld £ (il 7,5% del PIL inglese). I poveri e più vulnerabili, ovvero proprio quelli che hanno votato per la Brexit, verranno colpiti di più.

Il punto è quanto tempo occorrerà al governo guidato dalla May per realizzare che sta dirigendo la nave inglese contro l’iceberg della “hard Brexit“, e se sarà troppo tardi per cambiare rotta. Per ora le istituzioni sembrano in fase di negazione. Mervyn King, l’ex governatore della Bank of England, ha benedetto l’arrivo dell’inflazione, mentre gli attuali policymaker continuano a discutere misure accomodanti. Il governo ha respinto i consigli degli esperti stranieri della London School of Economics, che avevano ammonito sui costi di una eventuale Brexit.

Finché mancherà una strategia politica, gli investitori continueranno a colpire gli asset inglesi. L’agenzia di rating S&P ha recentemente avvisato che la sterlina potrebbe gradualmente perdere il suo status di valuta di riserva, riducendosi al 3% delle riserve valutarie globali dall’attuale 5%. Dopo il pound, il debito governativo potrebbe essere la prossima vittima. I Gilt decennali hanno più che raddoppiato i rendimenti da 0,5% all’1,1% post-Brexit. Ancora adesso i Gilt offrono rendimenti molto inferiori all’inflazione: i bondholder stanno ricevendo ritorni reali negativi del 2% annuo, se le aspettative di inflazione sono corrette, rendendo il debito inglese tra i più sopravvalutati al mondo. Solo Paesi considerati safe haven possono godere di un rendimento così ampiamente negativo, e con una diffusa incertezza politica, questo beneficio potrebbe scomparire rapidamente[sociallocker].[/sociallocker]

Per contrastare lo shock di crescita della Brexit, il governo May ha promesso una spinta agli investimenti. Ma i conti pubblici soffrono già di uno dei maggiori deficit in Europa, secondo solo a quello della Spagna, ed ha già perso il rating a tripla A.

Emettere più debito potrebbe portare ulteriore pressione sia sui rendimenti obbligazionari che sulla sterlina. Una alternativa è quella di stimolare l’indebitamento privato. Questa strategia è stata ampiamente usata dal precedente governo per spingere fiducia e consumi dopo la crisi del 2008. Oggi è molto meno perseguibile. I livelli del debito privato sono già prossimi ai record pre-crisi, in base alle stime del Office for Budget Responsibility.

mentre i prezzi delle case salivano grazie ai piani Help-to-BuyFunding-for-Lending, altrettanto è cresciuta la diseguaglianza fra i possidenti ed i nullatenenti. Spingere i livelli del debito ancora più in alto renderebbe i cittadini più vulnerabili, riducendo lo spazio di manovra della Bank of England per contenere l’inflazione e normalizzare i tassi di interesse, che la stessa premier ha definito troppo bassi.

Molti Britannici sono rimasti esclusi da questa ripresa degli asset senza recupero dei salari: i salari reali sono infatti ancora al di sotto dei livelli pre-crisi. 16,8 milioni di cittadini hanno meno di 100 £ di risparmi, secondo un sondaggio di settembre a cura della ONG Money Advice Services. Dare la colpa agli immigrati e alla “casta” ha portato consenso tra gli elettori a corto di speranze, ma è una strategia miope. Gli UK hanno beneficiato ampiamente del loro status di crocevia dei servizi in Europa, mentre non c’è alcuna evidenza che l’immigrazione abbia comportato minori redditi o perdita di posti di lavoro.

Il cuore del problema inglese è un modello di crescita sbilanciato, centrato su Londra ed i servizi finanziari, una carenza di investimenti nei settori che spingono la produttività anziché sulla rivalutazione degli asset, con il risultato di aver creato una ben radicata disuguaglianza.

Quello che serve alla nazione è un accesso più ampio all’istruzione, investimenti sostenibili in infrastrutture, una strategia per diversificare al di fuori dei servizi finanziari ed una riforma del suo sistema fiscale alleggerendolo sui redditi e focalizzandolo di più sul patrimonio. Servono inoltre nuove case, più che piani per far salire i prezzi di quelle esistenti. Sono anche queste le ragioni che hanno spinto molti cittadini del Regno all’esasperazione e a votare per l’uscita dalla UE.

Per prosperare al di fuori dell’Unione Europea, l’Inghilterra ha bisogno di ripensare il proprio modello di crescita. Finora, Theresa May ha mostrato agli investitori di non averne uno. In una prolungata guerra con i mercati, le passate crisi vissute in Europa insegnano che raramente a vincere sono i governi.

articolo pubblicato in inglese su Financial Times
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Pubblicato da Alberto Gallo

Partner in Algebris Investments e gestore del fondo Algebris Macro Credit. Le grandi idee possono cambiare il mondo.

3 Risposte a “Theresa May, la perdente nella disputa tra Brexit e mercati”

  1. salve. plis, aggiungete il link all’eventuale articolo originale. come fanno altri grandi media. gracias. saludos sudamericanos.

  2. “Fish and chips” – original, by/on London

    ._^ È importante riconoscere (“sapere”), tuttavia (“inoltre”), che entrambi i settori – [quello delle Banche (ie, dei Banchieri) e quello dell’agricoltura (ie, degli Agricoltori)] -, condividono (“hanno”) un rapporto (“reciprocamente”) vantaggioso – “al momento, privilegiato”.

    I prodotti freschi che le Persone (ie, i “Britannici”) acquistano presso i negozi o che gLi vengono consegnati a Casa, non solo è cresciuto per da/gli agricoltori, ma è finanziato dalle Banche ^_.

    §- British Bankers Association (BBA, Press release, THE), “Record rise in bank lending to farmers – Commenting on the figures, BBA CEO Anthony Browne” – October 10, 2016
    https://www.bba.org.uk/news/press-releases/record-rise-in-bank-lending-to-farmers/#.WAy8APmLTIU

    OoOoOHHHHHH … perdindirindina: DIN-DON-DAN, alors!

    °l°
    _”Banking is probably more affected by Brexit than any other sector of the economy, both in the degree of impact and the scale of the implications”_
    °l°

    A. Browne [BBA, Chief Executive (CEO), THE], London: October 22, 2016
    [(in) “Brexit politicians are putting us on a fast track to financial jeopardy” – (by Guardian, Observer, com, The)]

    Surfer [ll “fish and chips”, ricordo o faccio presente agli “infinitesimali it-ALICI” ed ai Loro pastorelli (NEL REGNO UNITO NON VI CONOSCE NESSUNO: solo nel Paese delle sòle – ossia, l’Italia -, sieTe interpellati e “risplendeTe”), che è I_L piatto T_I_P_I_C_O della Cucina Britannica – (ove) la materia prima DEVE essere rigoroSiSSimamente FRESCA; niente surgelati O PORCHERIE assimilabili l Tira davvero una brutta aria: ogni giorno che passa, infatti, i prezzi (dei freschi) aumentano. Capito pecore e pastorelli N.E.U.R.I]

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