Tobin-Keynes, la faccenda si complica: NO PANIC

 http://m5.paperblog.com/i/140/1400605/dance-moms-attention-shoppers-the-aldc-team-i-L-xlfjeX.gifJames Tobin rimase tutta la vita keynesiano, e sempre costruttivamente critico: le sue meditazioni sugli aspetti microeconomici della domanda di moneta gli consentirono di migliorare l’impostazione originale keynesiana, e lo portarono anche oltre.

Quello che non lo convinceva era l’ipotesi di Keynes di perfetta sostituibilità fra titoli e attività reali L’ipotesi permetteva a Keynes di distinguere la moneta da tutte le altre attività non monetarie e di focalizzarsi su un unico tasso di interesse quale anello di congiunzione fra le grandezze finanziarie e i flussi di investimenti nell’economia reale. Tobin invece, partendo dal suo approccio di portafoglio, ritenne che la moneta e i titoli finanziari (limitiamoci per semplicità al debito pubblico) fossero beni facilmente sostituibili, mentre esistesse una tenue sostituibilità fra titoli pubblici e titoli rappresentativi delle attività reali (corporate bonds e azioni). (vds nota 1)

Questa impostazione, apparentemente banale e di buon senso, fu invece di portata immensa: la forte sostituibilità fra moneta e titoli garantisce che anche piccole variazioni nei rendimenti delle attività finanziarie si propaghino su tutti i titoli, mentre la bassa sostituibilità fra titoli e attività reali impedisce una analoga facilità di trasmissione.

All’unico tasso di interesse, disgraziatamente tipico di tutta l’architettura keynesiana e neoclassica, ora si sostituisce il controllo di una intera struttura a scadenza e a premio dei tassi. Un notevole miglioramento, perchè, lo continuerò a ripetere, non esiste IL tasso di interesse, benchè molti economisti della specie televisiva e giornalistica continuino a citarlo.

Tobin portò il discorso sulla struttura a scadenza, e la struttura a premio dei tassi.
Perciò, relativamente al meccanismo di trasmissione degli effetti della politica economica, lo spartiacque non è più fra moneta e ‘titoli’ (un insieme talmente eterogeneo che J.Hicks lo chiamò ‘shmoo’), bensì fra titoli pubblici e titoli rappresentativi delle attività reali.
La tenue sostituibilità fra questi ultimi due infatti potrebbe impedire che gli effetti si allarghino alla economia reale e invece si esauriscano all’interno del solo settore finanziario.

Ma vediamo un esempio per capirci meglio, prendendo spunto da due articoli rispettivamente di D.Wrightsman e B.Friedman che modelizzano lo schema di Tobin.
Supponiamo che la Banca Centrale avvii una politica espansiva fatta di operazioni di mercato aperto, riacquisto titoli contro moneta: l’accresciuta offerta di moneta, compensata dal ritiro dal mercato dei titoli, non fa variare lo stock di ricchezza complessiva detenuto dagli agenti economici (composto da moneta, titoli e capitale fisico), ma ne varia la composizione facendone aumentare il peso della moneta.

L’aumento dell’offerta di moneta fa ridurre i tassi a partire dal mercato monetario, e si propaga velocemente sugli altri segmenti lungo la curva, per effetto della alta sostituibilità fra i titoli e l’ampia estensione e liquidità dei mercati. L’unico modo attraverso cui il mercato dei titoli può tornare in equilibrio è attraverso una generalizzata diminuzione dei tassi (non essendo variato lo stock della ricchezza detenuta).

Ad un certo punto la moneta aggiuntiva satura il mercato finanziario e “preme” su quello dei titoli rappresentativi delle attività reali; secondo la teoria standard ne dovrebbe ridurre i saggi di rendimento e favorire l’incremento delle spese per investimenti. Ma è qui che scatta un “ostacolo” che potremmo quasi definire schumpeteriano: titoli pubblici e attività reali sono ‘sostituibili’ in funzione della liquidabilità del nuovo titolo, delle conoscenze e competenze necessarie per sottoscriverlo consapevolmente, infine della propensione al rischio.

Sottoscrivere un bond pubblico anche a lunga scadenza richiede di assumere meno rischi rispetto ad un corporate di analoga scadenza, la cui valutazione settoriale può risultare più difficile e sfuggente di quella della solidità di un paese sovrano emittente moneta, e “fare l’imprenditore” (quindi sottoscrivere per finalità di investimento durevole, mica stiamo parlando di speculatori mordi e fuggi) non è mica impresa per tutti.
Perciò, se ipotizzassimo una scarsa (o addirittura nulla) sostituibilità fra titoli e beni reali, Tobin sostiene che l’effetto complessivo potrebbe essere nullo.
Ma questo discorso non vi ricorda qualcosa? Nel tentativo di rilanciare gli investimenti privati che languivano in maniera miserevole, la BCE anni fa lanciò due programmi di LTRO e TLTRO, ma con scarsi risultati. Ecco che allora inondò il mercato di liquidità tramite il QE con l’obiettivo di comprimere e annullare i risk spreads e abbattere questo benedetto rendimento del capitale e stimolare così gli investimenti.
Possiamo discutere nuovamente sulla bontà della scelta, sui rischi alla stabilità finanziaria, sulla natura di ciò che chiamiamo ‘rischio di impresa’ e sulla corretta remunerazione del rischio e dell’incentivo a moral hazard e selezione avversa, la mia opinione è nota: tutto ha un prezzo e auguriamoci di avere piloti capaci di guidare un atterraggio morbido, o almeno un ammaraggio di fortuna.

Ma torniamo al caso sollevato da Tobin. L’economista di Yale individua che il corretto indicatore dell’effetto espansivo o riduttivo della politica economica sia il rendimento del capitale: una volta determinato dalla riallocazione di portafoglio e confrontato con l’efficenza marginale del capitale, sappiamo se la nostra ricetta politica ha funzionato.

Tobin, giusto per dare una regola del pollice inventò un indice, la q di Tobin, pari al rapporto fra valore di Borsa del capitale azionario e il costo di sostituzione del capitale installato. Poichè i valori di Borsa scontano gli utili attuali e quelli futuri stimati, un rapporto maggiore di 1 significa che la produttività marginale del capitale è superiore al suo costo marginale e alla azienda conviene investire, mentre un rapporto inferiore a uno significa che l’impresa sta già distruggendo valore e quindi non è conveniente fare investimenti.

Non sfuggirà ai più sagaci che questa impostazione di Tobin la si può applicare coerentemente solo a mercati dei capitali azionari e privati solidi, ben strutturati, regolamentati e ad un tessuto economico non bancocentrico. Sono perplesso che si possa applicare al tessuto economico italiano composto da milioni di micro e piccole-medie imprese che certo non sono quotate e di cui solo una modesta parte negli ultimissimi anni si è affacciata al mercato dei mini-bonds.

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Proprio per questo motivo, a partire dagli anni 80 si è sviluppato un filone che partendo dall’analisi del c.d. ‘canale del credito’ si è distinto nello studio del ‘canale bancario’ e del ‘canale di bilancio’.

Il primo ritiene utile studiare il comportamento degli intermediari creditizi, e gli effetti che le scelte dei management bancari, della Vigilanza e della politica monetaria hanno sugli attivi dei loro bilanci. Un riscontro della validità delle loro teorie lo si è visto all’indomani dell’inutile varo dei primi programmi BCE anti crisi, quando le banche a causa di bilanci oberati da crediti deteriorati si rifiutavano di erogare credito malgrado i tassi a zero.

Il secondo filone si concentra invece sugli effetti del ciclo economico e delle aspettative sui bilanci aziendali e quindi, attraverso l’analisi delle Direzioni Credito bancarie, sulla propensione a concedere prestiti per investimenti.

Prima di lasciarci vorrei vedere ora il caso di un intervento di politica fiscale, perchè presenta caratteristiche ancor più anomale rispetto all’analisi tradizionale.
Supponiamo che lo Stato intenda finanziare la spesa pubblica emettendo titoli da collocare presso il pubblico. A differenza di prima, la nuova spesa pubblica fa aumentare la ricchezza complessiva presente nell’economia.
Secondo la teoria della preferenza per la liquidità i tassi aumenteranno e gli investimenti privati si contrarranno di conseguenza (il noto meccanismo di retroazione monetaria).

Ma mentre la trasmissione dei tassi su tutto il mercato del debito pubblico saranno veloci e “lisci”, la domanda di beni capitali, per ipotesi poco sensibile rispetto alle variazioni di rendimento sui titoli, cade di poco a causa del limitato effetto sostituzione visto sopra.
Senonchè a questo punto interviene il discorso sull’effetto ricchezza: dato che la ricchezza complessiva è aumentata, se essa ha un effetto sul prodotto interno lordo allora quest’ultimo crescerà e per tramite delle migliorate aspettative produrrà un circolo virtuoso di attese che faranno decollare gli investimenti.

Si tratta di un chiaro effetto reddito, già noto alla teoria microeconomica delle scelte di allocazione: all’effetto sostituzione (negativo) si contrappone un effetto reddito (positivo). Tanto più alto è l’effetto ricchezza nei confronti dei beni capitali e tanto più tenue la loro sostituibilità con i titoli, tanto più sarà possibile che il tasso del rendimento dei titoli rappresentativi delle attività reali scenda (oppure specularmente che cresca il prezzo di corporate bonds e azioni) pur in presenza di un generalizzato rialzo dei tassi dei mercati del debito pubblico per aumento della spesa pubblica.

In questa situazione, paradossale per i rappresentanti della Sintesi Neoclassica, il moltiplicatore della spesa pubblica avrebbe un valore addirittura superiore a quanto previsto dalla teoria, e l’effetto di retroazione sarebbe parzialmente o del tutto annullato. (vds nota 2)

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Prima che qualcuno vada a prendere il megafono per inneggiare a squarciagola alla spesa pubblica (magari pure quella corrente, tipo sussidi o bonus), evidenzio l’ipotesi madre di questa impostazione: solo se l’effetto ricchezza fosse rilevante allora il meccanismo avrebbe senso, altrimenti abbiamo la solita retroazione monetaria e basta, in aggiunta ai ben noti problemi di qualità della spesa pubblica.
Considerando l’attusle ‘ricchezza’ delle economie avanzate, di che incredibile importo dovrebbe eseere la spesa pubblica aggiuntiva per generare tale effetto virtuoso?

Avevamo già incontrato un effetto ricchezza, ricordate?, parlando di Don Patinkin e del suo effetto Pigou. Rimando all’articolo per i dettagli, ma sappiamo che l’autore stesso era ben poco convinto del suo valore pratico. Inoltre, non dimentichiamo mai un ulteriore argomento contrario, molto sentito ai nostri giorni: se la distribuzione della ricchezza è inequale, l’effetto complessivo può esserne distorto e inferiore.

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Perciò, per quanto l’analisi di Tobin sia avvincente, essa è stata solo la tappa iniziale di ulteriori indagini.

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(nota 1) Veniva meno quindi quella supremazia della moneta riconosciuta dalla impostazione keynesiana, e prendeva peso invece l’attenzione al concetto di liquidità: se moneta e titoli sono facilmente sostituibili, allora il compito principale delle Autorità è di garantire un funzionamento oliato dei mercati, garantendone estensione, profondità e accessibilità. Ecco da dove arriva l’attenzione che la Banca Centrale Europea diede al famigerato fenomeno della frammentazione dei mercati dei capitali, cresciuto in concomitanza con la crisi e concausa della stessa, impedendo la trasmissione delle politiche monetarie.

(nota 2) Un caso altrettanto anomalo e curioso è il seguente: se a essere tenue fosse la sostituibilità fra moneta e titoli e l’effetto ricchezza nei confronti dei beni capitali fosse basso, allora si potrebbe generare addirittura un moltiplicatore negativo. Come è intuitivo, sono condizioni difficilmente spiegabili e accettabili, pertanto se ne conclude nuovamente che un moltiplicatore negativo è teoricamente assurdo.

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Pubblicato da Beneath Surface

Alla soglia degli anta decide di tornare alla sua passione giovanile: la macroeconomia. Quadro direttivo bancario, fu nottambulo ballerino di tango salòn, salsa cubana e rueda. Oggi condivide felicemente la vita reale con le sue due stupende donne.

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