Ultima chiamata

 

Dopo l’impegno politico che caratterizzò gli anni ‘70 e le tragiche deviazioni dei “compagni che sbagliano”, dopo l’insensata ferocia degli anni di piombo, negli anni 80 Milano divenne la capitale della filosofia di vita che Roberto D’Agostino definì edonismo reaganiano.

L’Ingegner Nava, titolare dell’omonima ditta in Via Millelire che produceva valvole industriali a sfera, aveva un enorme cruccio: quell’unico figlio tanto desiderato e arrivato tardi, quando lui e la signora Elvira ormai non ci speravano più.

Ernesto era stato un bambino gracile e malaticcio e  a causa di ciò viziato fino all’inverosimile dalla madre e dalle innumerevoli tate che si erano susseguite e che venivano sempre selezionate dalla signora, secondo i suoi personalissimi quanto discutibili criteri educativi.

Il bambino noioso e capriccioso si era evoluto in un adolescente indolente ed intollerante a qualsiasi forma di autorità, che aveva sempre frequentato scuole private ed era stato supportato da infinite ore di ripetizione e ciononostante si era diplomato allo Scientifico con due anni di ritardo e con il minimo dei voti.

A vent’anni si era parcheggiato alla facoltà di Ingegneria del Politecnico, dove si era infine (inspiegabilmente) laureato in Ingegneria ambientale.    Aveva trent’anni.                                                        A quel punto, ritenendo esaurito il suo impegno nei confronti della famiglia e della società, aveva potuto finalmente dedicare senza ulteriori distrazioni le sue energie alla naturale inclinazione per la ricerca del divertimento, ma tutto era così fugace ed irrimediabilmente al di sotto delle aspettative, che alla fine si riduceva ad una continua quanto inutile fuga dalla noia.

Questa affannosa ricerca non prevedeva né ammetteva alcuna regola, e dunque tutto  era lecito.

Ernesto non era bello – era alto e allampanato, e gli occhi verdi erano troppo vicini e sfuggenti – ma aveva un’aria aristocratica e un po’ dandy, vestiva solo Armani, aveva lunghi capelli biondi curatissimi e un brillante da mezzo carato nel lobo sinistro.                                   Abitava in un appartamento di proprietà della madre situato in un immobile d’epoca in via della Spiga, a due passi da quello occupato dai genitori, non faceva mistero di vivere praticamente di rendita e aveva anche una Porsche 911 nera, che completava degnamente il cliché.

Viveva a Milano, era ricco, correva l’anno 1985: decisamente, si trovava al posto giusto, nel momento giusto.

L’Ingegner Nava, che di tanto in tanto si rimproverava di non essere stato più partecipe all’educazione del figlio ed aveva ormai rinunciato a discutere con la moglie sull’argomento, lo aveva nominato Direttore dell’impresa di famiglia all’unico scopo di garantirgli una cospicua rendita mensile, ben sapendo che la signora Elvira, che disponeva di un apprezzabile patrimonio personale, provvedeva regolarmente ad incrementarla.                                        Inutile precisare che Ernesto praticamente non metteva mai piede nell’ufficio sulla cui porta una lucente targa in ottone indicava “Direttore – Ing. Ernesto Nava”.

Del resto, Ernesto era un animale notturno che durante il giorno aveva bisogno di recuperare le forze.

Un ronzio sommesso ma insistente gli stava trapanando il cervello, ripercuotendosi all’interno della scatola cranica in un susseguirsi di dolorosissime ondate.

Dopo un po’, realizzò che era il telefono. Ernesto decise di non rispondere, prima o poi avrebbe smesso. Si tirò faticosamente a sedere sul divano dove era disteso e guardò le ore: le dieci. Nel senso di 22. Ecco perché era buio.                                                                                       La spia della segreteria telefonica lampeggiava, indicando che erano presenti dei messaggi, ma Ernesto decise di non curarsene.

Le tessere sparpagliate a caso nella sua memoria incominciarono a ricomporre lentamente il mosaico. Ricordò che la sera prima aveva fatto il solito giro: Santa Tecla, un salto al Nepentha e chiusura al Vogue Club, del quale naturalmente possedeva la chiave d’oro (geniale trovata del proprietario, che consegnò una simbolica chiave laccata in oro a tutta la bella gente della Milano by night).                         La sera dopo sarebbe partito per Los Angeles (aveva bisogno di vedere facce nuove) così aveva salutato i compagni di nottata che corrispondevano con discreta approssimazione al suo concetto di amici.      Al Vogue aveva incontrato una modella americana piuttosto sbronza che lo aveva invitato a casa sua, un buco dalle parti di Città Studi.                                                                                                Avevano tirato abbondantemente della roba pessima che la ragazza aveva estratto da un cuscino dello sgangherato divano, e qualche ora dopo (era ormai giorno fatto) lui si era trascinato fino a casa con le tempie che martellavano, trasmettendo vibrazioni negative a tutte le membra. Una volta arrivato, doveva essere crollato sul divano.

Si alzò con cautela. Si sentiva le gambe rigide, andò in bagno e prese due aspirine.  Dopo una doccia calda di un quarto d’ora si sentiva quasi padrone del suo corpo ed il mal di testa si era notevolmente affievolito. Si vestì rapidamente, chiuse la valigia preparata dalla colf e chiamò il taxi che lo avrebbe portato a Linate.

Durante il tragitto, il mal di testa gli passò del tutto. Incominciò a pensare alle persone che avrebbe contattato a Los Angeles, su indicazione di Lele, altro trentenne nullafacente dedito a molti vizi, con il quale Ernesto  condivideva spesso i suoi giri notturni.

Si rammentò che non aveva telefonato ai suoi per salutarli, ma li avrebbe chiamati dalla California. Del resto, non aveva voglia di sentire le solite inutili menate.

I suoi erano da qualche giorno in montagna a Stava, una frazione di Tesero, in Trentino.                                                                                                            Era il 19 luglio 1985.

Come al solito era in ritardo. Entrò di corsa nel settore partenze internazionali e si diresse verso i banchi della Pan Am proprio mentre l’altoparlante annunciava

“ …ultima chiamata per il volo PanAm 405 diretto a Los Angeles via Roma….”

Quando si presentò al banco ed esibì biglietto e documenti, la graziosa addetta lo guardò con aria contrita e disse:

“Signor Nava, la prego di seguirmi….c’è una comunicazione importante per lei”.

La ragazza uscì dal banco e lo condusse ad un vicino ufficio di polizia aeroportuale, dove un funzionario accaldato ed impacciato gli annunciò che una frana aveva spazzato via l’albergo Erica di Stava nel quale risultavano essere ospiti il signor Nava Giorgio e la signora Mapelli Elvira.                                                                                                                       Non c’erano superstiti.                                                                                                     I coniugi Nava avevano voluto festeggiare cinquant’anni di matrimonio nella modesta pensione dove avevano trascorso insieme la prima vacanza da adolescenti: si erano fidanzati allora, e non si erano mai più lasciati.

Il primo pensiero che la mente di Ernesto compitò in maniera del tutto autonoma fu

“quindi da ora in poi non mi dovrò più giustificare con nessuno”.

Ne provò imbarazzo, ma per quanto si sforzasse nel suo intimo non riuscì a trovare traccia di autentico dolore: appena una sensazione di vertigine, una lieve sensazione di vuoto allo stomaco, ma niente di più.

Fu con un certo disappunto che dovette rinunciare alla vacanza a Los Angeles per occuparsi di tutte le formalità legate alla scomparsa dei suoi genitori e all’accesso alla cospicua eredità.

Spinto dalla noia e dal desiderio di dare una svolta alla sua esistenza, Ernesto decise che si sarebbe occupato dell’azienda di famiglia: incominciò liquidando il vecchio Mereghetti, Direttore Amministrativo, di fatto fidatissimo braccio destro del padre, e Castini, il Direttore Commerciale, uomo di grande esperienza che lavorava con l’Ing. Nava da trent’anni.                                                                  Li sostituì con due giovani della cui selezione si volle occupare personalmente affiancato da Lele, che reputava essere un grande conoscitore della natura umana, il quale si divertiva molto ad interpretare l’inedito ruolo di consulente.

Fu proprio Lele che gli presentò Osvaldo, proponendolo come Direttore amministrativo e finanziario: originario della vicina Brianza, Osvaldo aveva esibito un curriculum da operatore finanziario di tutto rispetto anche se palesemente in contrasto con la giovane età); Lele gli aveva anche decantato le sue doti di trader spregiudicato ed audace. Il neo assunto Direttore Amministrativo aveva  indiscutibilmente notevoli doti di affabulatore, e non ci mise molto a convincere  Ernesto dell’opportunità di  trasferire buona parte del denaro presente sui conti correnti intestati alla società in un conto cifrato in una Banca di Lugano.

“Via, Ernesto, oggi come oggi solo gli sfigati non ce l’hanno. Conosco bene il Direttore di una Banca a Lugano, lo contatto, ti porto le carte da firmare e penso a tutto io”.

Ernesto ci cascò come un perfetto idiota e, come prevedibile, qualche settimana dopo Osvaldo scomparve insieme ai suoi soldi.

Subito dopo la scomparsa del neo assunto Direttore amministrativo Una visita nella Banca di Lugano gli aveva infatti rivelato che il conto cifrato corrispondente alle credenziali in suo possesso era stato completamente svuotato qualche  giorno prima: Ernesto aveva balbettato una scusa qualsiasi ed era uscito di corsa dalla Banca.

Tornando verso Milano, si era reso conto che quel denaro era perduto per sempre. Era una grossa somma, la cui mancanza rischiava di mettere in discussione la capacità di sopravvivenza dell’azienda.

Insieme a Osvaldo si era dileguato anche Lele.

Ernesto era andato a cercarlo nell’immobile lussuoso in Corso Venezia, dove lo aveva più volte accompagnato rincasando all’alba: aveva scoperto che in effetti abitava lì, ma era il figlio dei custodi, i quali gli avevano riferito che Lele era partito per il Sudamerica, dove gli avevano offerto un’interessante e ben remunerato lavoro.

Per la prima volta nella sua vita, Ernesto ebbe paura, e contemporaneamente si rese conto di essere solo: non aveva amici fidati, non aveva coltivato rapporti con nessun parente, era figlio unico di figli unici, e non c’erano più mamma e papà a coprirgli le spalle rimediando ai suoi errori.

Non se la sentiva di andare a casa né tanto meno in ufficio, così parcheggiò l’auto in via Palestro e si diresse verso i giardini di Porta Venezia, dove si sedette su una panchina, anche se il cielo si stava oscurando e si udiva il borbottio minaccioso di un temporale in avvicinamento.

All’improvviso rivide se stesso bambino, rincorrere una palla in quegli stessi giardini, sotto lo sguardo protettivo della mamma. Pensò ai suoi genitori, che nonostante la loro ricchezza avevano vissuto concedendosi degli agi, ma mai degli sprechi, e rivide l’espressione di dolorosa riprovazione con la quale lo avevano spesso guardato negli ultimi anni.

In quel momento qualcosa dentro di lui si spezzò, e il dolore ed il rimpianto gli si riversarono addosso.

Un lampo illuminò il cielo con un crepitio rabbioso, seguito da in tuono dalle sonorità lunghe e profonde, e una pioggia impietosa lo inzuppò in pochi istanti, mescolandosi alle sue lacrime.                                 Dal vialetto di ghiaia si sollevavano piccole nubi di vapore. Da quella nebbia leggera una figura si stava dirigendo a capo chino nella sua direzione.

Era un cane, una specie di spinone con il pelo marroncino e bianco talmente bagnato che aderiva in piccoli ricci infeltriti al corpo scarno. Zoppicava vistosamente. Raggiunta la panchina sulla quale sedeva Ernesto, il cane si sedette ai suoi piedi ed alzò il muso verso di lui.                                                                                                                                   L’acqua gocciolava dalle orecchie pendenti e dal muso, conferendogli un aspetto ancor più derelitto e miserevole. Tremava, e scrutava Ernesto con i grandi occhi nocciola, come se dovesse decidere se poteva fidarsi.

Ernesto ricambiò lo sguardo e pensò che non aveva mai visto un cane più brutto, ma provò istantaneamente un sentimento che non conosceva: la compassione.

“ehi, amico, anche tu non sei messo tanto bene”.

Mentre il temporale si allontanava, e un raggio di sole filtrava tra le ultime gocce di pioggia, l’uomo ed il cane continuavano a guardarsi.

L’uomo si ritrovò a raccontare al cane la sua storia, sforzandosi di essere sincero. L’animale pareva ascoltare e comprendere.

Quando Ernesto tacque, ebbe la sensazione che, ascoltandolo, il cane avesse preso una qualche decisione.                                                             Allora pensò che avrebbe cercato immediatamente Mereghetti e Castini e li avrebbe scongiurati di tornare a lavorare con lui. Soprattutto, avrebbe chiesto loro di insegnargli quel che doveva imparare, e con il loro aiuto avrebbe potuto rimettere in carreggiata l’azienda. C’erano altre cose che doveva sistemare nella sua vita, e pian piano lo avrebbe fatto.

Ernesto si alzò e prese in braccio il cane, che lo guardò fiducioso:

“andiamo, si va a casa”.

Aveva compreso che era quella l’ultima chiamata, e non poteva davvero tardare ancora.

https://youtu.be/Iny2cs1mvYs

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Pubblicato da Sonia Fantozzi

Spirito irrequieto alla costante ricerca dei perché e dei percome. Ha lasciato Milano,ma in cima a una collina ha scoperto che sarà milanese per sempre.

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