Un luogo chiamato casa

“L’Australia resta una monarchia guidata formalmente dalla Regina d’Inghilterra. Il referendum sulla forma di Stato che prevedeva l’introduzione di una repubblica parlamentare è stato infatti bocciato dal 54,22% degli elettori”. (“La Repubblica”, 6 novembre 1999)

Quella sera del 6 novembre 1999 il piccolo ristorante “Martini’s Italian Rastaurant” era interamente riservato per una festa di compleanno.

Situato nel quartiere di Northbridge in Aberdeen Street, nel settore nord del centro di Perth che si affaccia sullo slargo del bacino del fiume Swan chiamato Perth Water, il locale godeva di una discreta fama che non era limitata alla comunità italiana della capitale dell’Australia Occidentale. Nel 1974 i due gemelli Martini  con le rispettive famiglie (nulla a che vedere con la stirpe del famoso aperitivo, ma figli d’arte nel campo della ristorazione) si erano trasferiti a Perth da Milano: oppressi dal clima di incertezza e di costante pericolo che intristiva la città e in una certa misura condizionava le abitudini dei milanesi, con la trattoria di via Sanniti, al Giambelllino, faticavano a mantenere due famiglie. Poi il quartiere si stava sfaldando: troppi brigatisti, troppa malavita di quella tosta,  e l’eroina si stava portando via una generazione intera. Così dopo molti “se” e “ma” soprattutto da parte delle consorti e fieri “io non ci vengo” dei due rispettivi figli, coetanei e freschi di laurea in giurisprudenza, dopo infinite discussioni con il dépliant colorato che passava di mano in mano prevalse la decisione dei due capofamiglia. Lasciarono gli appartamenti in affitto in via Giambellino e il locale di via Sanniti, salutarono gli amici del Bar Gino e partirono alla volta della capitale più isolata del mondo, dove il centro abitato più vicino, Adelaide, dista oltre 2500 chilometri.

Si trovarono subito bene in quella città vivace e multietnica dal clima mite ed asciutto, dove anche lontano dalla costa si viveva in un’atmosfera più rilassata e meno concitata, in un panorama discontinuo eppure armonioso di architettura ultra moderna, con i grattacieli scintillanti che sfidavano il cielo blu e di atmosfere elisabettiane e coloniali. Presero casa a Subiaco, quartiere che ha il nome del paese laziale dal quale provenivano alcuni monaci benedettini che vi si stabilirono nel 1850 e dove risiedevano altre famiglie italiane, con le quali fecero presto amicizia e che si misero a frequentare regolarmente il ristorante di Northbridge, nel quale veniva proposta una cucina tipicamente lombarda con molti prodotti importati dall’Italia.

L’unico che stentava ad ambientarsi era Dario, il figlio di Mario e Giovanna Martini, che al Giambellino aveva lasciato Clara, storica fidanzata fin dai tempi del Liceo Parini, cosicché la sua anima era ben lungi dal ricongiungersi con il corpo, essendo rimasta a Milano. Prima della partenza le aveva proposto di sposarlo e di partire con lui, ma lei non ne aveva voluto sapere: con una laurea in lettere voleva fare la giornalista e voleva farlo in Italia, più precisamente a Milano:

 “ma non te ne accorgi che qui tutto sta per cambiare? …che possiamo decidere per un futuro diverso da quello dei nostri genitori?”

e non aveva nessuna intenzione di mollare tutto e catapultarsi in mezzo al nulla. A far che, poi? Dario non aveva saputo ribattere alle sue perentorie obiezioni, lui ammirava la sua passione civile e politica ma non la capiva del tutto e ne era anche un po’ intimorito.

Si erano salutati con un velato  imbarazzo, scambiandosi promesse che non avrebbero potuto né voluto mantenere e celando un realistico addio dietro la commozione di un possibile arrivederci. Lui era partito con il cuore a brandelli ma covando l’illusione che, una volta che sarebbe stato lontano migliaia di chilometri,  le sarebbe mancato al punto da farle decidere di raggiungerlo.

https://youtu.be/Q7fi9G0BiTE

Successe poi che per qualche mese si scrissero regolarmente (le telefonate intercontinentali costavano troppo) ma le loro missive perdevano via via di contenuto e di carica emotiva, finché si ridussero ad un semplice scambio di cortesi quanto vaghe informazioni sul quotidiano. Dario era stato infine costretto a rendersi conto che l’aveva perduta e quando lei non aveva risposto ad una sua lettera non l’aveva più cercata. Dato che a 25 anni i dispiaceri sentimentali si possono superare con stupefacente leggerezza, mentre i genitori e gli zii erano completamente assorbiti dalla nuova attività alla quale partecipava anche il cugino, in barba agli studi di giurisprudenza, Dario decise di richiedere la convalida del suo titolo di studio e poco dopo incominciò a lavorare in uno studio legale in Kings Park Road, la strada che costeggia un tratto dell’omonimo grande parco. Lì si innamorò di Megan, che divenne sua moglie due anni dopo. A metà degli anni 80, con l’unico figlio che iniziava le scuole, divennero entrambi soci dello studio legale; le annate successive trascorsero laboriose, serene e soprattutto veloci.

Le solide certezze acquisite da Dario si incrinarono in una radiosa mattina di febbraio che preannunciava una giornata particolarmente calda. Aveva compiuto 49 anni il novembre precedente e radendosi si osservava con occhio critico nello specchio del bagno,  pensando a suo figlio che aveva iniziato il primo anno di università.

Gli venne in mente che si stava avvicinando  al momento in cui uno tira le somme della propria vita, quando la maggior parte delle mete possibili sono state raggiunte e altre sono state definitivamente accantonate poiché al di fuori della propria portata per svariati motivi, e si sentì improvvisamente a disagio.

“Mi sta venendo la stessa faccia larga di mia madre”,

disse alla sua immagine riflessa, per evitare considerazioni più significative e disturbanti, e mentre cedeva alla tentazione scellerata di domandarsi se ciò che aveva era veramente ciò che voleva, sentì un senso di oppressione al petto ed il cuore che batteva veloce e discontinuo. Le orecchie presero a ronzare sempre più forte intanto che il suo volto nello specchio svaniva in rapida dissolvenza e in pochi istanti fu solo buio. Rientrando dalla consueta corsa mattutina, Megan lo trovò accasciato tra la doccia e il lavabo, privo di sensi e chiamò immediatamente un’ambulanza. In ospedale gli fu riscontrata una leggera aritmia cardiaca

“niente di grave, ma va curata, e dovrà usarsi qualche riguardo”

e venne dimesso la sera stessa con la prescrizione della terapia farmacologica alla quale si sarebbe dovuto sottoporre per scongiurare rischi più gravi, che gli vennero spiegati in dettaglio e che lo scombussolarono non poco.

Lo spavento passò ma Dario non riusciva a scrollarsi di dosso l’inquietudine che lo aveva colto quella mattina davanti allo specchio, che nel suo ricordo si associava al malore immediatamente successivo (anzi, simultaneo) creando un collegamento di causa ed effetto assolutamente insensato ma subdolamente preciso. Riprese pian piano ad occuparsi delle faccende di sempre imponendosi tuttavia dei tempi più lunghi e cogliendo lo sguardo di sua moglie che lo sbirciava ansiosa si ritrovò spesso a pensare alla Milano della sua gioventù, ma soprattutto a Clara. Gli capitava con una certa frequenza di raccontare in famiglia della città che aveva lasciato, con una dovizia di particolari che moglie e figlio faticavano a comprendere, come se volesse rievocare un ricordo che temeva gli potesse sfuggire.

Quella sera del 6 novembre 1999, con i risultati del referendum che rimbalzavano di notiziario in notiziario, tutta la famiglia insieme agli amici più cari si era riunita al ristorante per celebrare il suo cinquantesimo compleanno.

“…ti tocca festeggiare i tuoi cinquant’anni con la vecchia cara Regina Elisabetta!”,

disse suo cugino alzando il bicchiere, subito imitato da tutti. Dario era frastornato e confuso: era felice di essere circondato da quell’affettuoso calore, ma si sentiva sempre più dissociato rispetto alla sua vita presente.

Esasperato dalla sensazione di disallineamento che non lo abbandonava, qualche giorno dopo annunciò alla famiglia che aveva intenzione di prendersi una breve vacanza e di recarsi a Milano

“così, per vedere com’è dopo tanti anni”,

aveva spiegato, convincendosi che lì avrebbe trovato le risposte che cercava e consapevole che esse avrebbero potuto mettere in discussione tutte le scelte che aveva fatto sino a quel momento, ma anche dell’indifferibilità di quella verifica.

A differenza del resto della famiglia, Megan intuì molto più di ciò che lasciò intendere ma capì anche che doveva lasciarlo andare.

Il volo Qantas atterrò a Milano Linate alle 19,35 del 22 novembre  e appena fuori dall’aeroporto, sul taxi che lo conduceva verso la città, Dario ritrovò la nebbia, una fitta cortina opalescente della quale si era ormai scordato e che gli diede la claustrofobica sensazione di trovarsi racchiuso in una nicchia fumosa. Era lunedì e il traffico in Corso XXII Marzo era abbastanza intenso, non aveva prenotato un albergo ma disse al tassista di portarlo in Via Manzoni, al Grand Hotel et de Milan: si sarebbe tolto la soddisfazione di soggiornare nel bell’edificio in stile art déco a pochi passi da Piazza della Scala, che da ragazzo aveva potuto ammirare solo dall’esterno.

La mattina dopo quando uscì dall’albergo una leggera foschia velava un cielo incolore e rabbrividì nel suo soprabito troppo leggero (non possedeva un cappotto poiché a Perth non serviva). Si diresse di buon passo verso piazza della Scala, entrò in Galleria del Toro, sbucò in Piazza del Duomo e passeggiò a lungo in Galleria del Corso, camminando verso piazza San Babila. Molti esercizi commerciali che ricordava non c’erano più, ritrovò ancora la dimensione più raccolta che gli era tanto mancata nella vastità degli spazi australiani, ma ebbe la sensazione che la città intorno a lui scorresse con una cadenza più veloce ed effimera. Sull’onda dei ricordi, che si dispiegavano nella sua mente come dei brevi filmati o come istantanee appena un poco sbiadite si ritrovò in via Festa del Perdono, davanti all’Università Statale. Il suo viaggio nel tempo proseguì nel primo pomeriggio al Giambellino. Dario girò a lungo per le vie dove aveva vissuto la  sua infanzia – a quell’epoca si giocava molto per strada anche in città, dove i rioni erano di fatto dei paesotti con una specifica identità – faticando a riconoscerle. Nei dintorni di Piazza Tirana i casermoni popolari gli apparvero in tutta la loro decadente bruttezza, nemmeno una mano di intonaco ad ingentilire le facciate ingrigite dallo smog di decenni. Si stupì di trovare ancora in piedi benché fatiscenti le case minime di via Degli Oleandri, dove ora pareva mutata la provenienza degli immigrati che vi abitavano, per lo più stranieri. Sparite tutte le botteghe, le latterie, le drogherie, erano spuntati ovunque call center per stranieri e alimentari arabi, e in Via Giambellino lo storico “Bar Gino” era diventato “Bar Masera”.

Si sentì smarrito e più che mai straniero: era preparato a trovare una città diversa da come la ricordava, però il degrado del quartiere nel quale era cresciuto lo aveva colpito e rattristato. Erano solo le cinque del pomeriggio ma era già buio e una nebbia sottile e vaporosa stava salendo da San Cristoforo. Dario non avrebbe saputo dire come era arrivato davanti al n. 135 di Via Giambellino. Trent’anni prima Clara abitava lì con la sua famiglia e lui l’aveva attesa milioni di volte davanti a quel cancello; cercò il nome sul citofono e si stupì di trovarlo ancora: “Famiglia Corsi”. Stette a guardarlo per un po’, poi pigiò il pulsante: voleva rintracciare Clara, si sarebbe fatto dare il numero di telefono, ma fu proprio la sua voce che sentì chiedere

“…chi è…?”

e fu colto alla sprovvista. Fu tentato di girare sui tacchi e andare via, ma era per quello che era venuto dall’Australia: aveva bisogno di vederla, per capire se si trovasse dalla parte giusta del mondo.

“…Clara? Sono Dario, Dario Martini”.

“Dario Martini???”

Un clac metallico fece scattare la serratura del cancello e Dario entrò nel cortile, osservando le aiuole spoglie dentro cordoli di cemento sbeccati in più punti dove qualche albero asfittico attendeva la primavera per rinascere. Scala B terzo piano, case senza ascensore. Per le scale, odore di aglio e cipolla e di urina di gatto, e di case poco arieggiate.

La porta si aprì prima che avesse il tempo di suonare il campanello e si trovò di fronte Clara che gli sorrideva con gli occhi chiari circondati da una sottile rete di rughe, ravviandosi con una mano i lunghi capelli tinti di un colore troppo scuro. Si salutarono stringendosi la mano con un gesto impacciato e lei lo fece accomodare nel tinello, dove l’arredamento era cambiato, più moderno, ma le piastrelle di graniglia multicolore tirate a lucido erano le medesime. Chiese notizie dei genitori e seppe che si erano trasferiti da alcuni anni a Piacenza, città di origine della mamma:

“non ne potevano più della bolgia che è diventato questo quartiere, avevano perso tutti i loro riferimenti, così se ne sono andati. Stanno bene, vado spesso a trovarli, soprattutto adesso che mia figlia è in Inghilterra, dove frequenta una scuola di sceneggiatura”.

Sorseggiando un caffè, venne a sapere che Clara aveva una figlia di diciannove anni ma non si era mai sposata; lui le raccontò del ristorante di Northbridge e della sua carriera di avvocato, di Perth e della sua famiglia.

“Io non mi sono mai mossa da qui; ho visto tanti amici perdersi per l’eroina ed altri ugualmente perduti dietro una P38, senza riuscire a cambiare nulla. Ad un certo punto ho voluto un figlio, ma non un marito. Ho cresciuto uno spirito libero che a diciannove anni ha spiccato il volo: spero per lei che non si faccia fregare dalla nostalgia e che non torni, qui non riuscirebbe mai a realizzare i suoi sogni”.

“…già, i sogni. Volevi fare la giornalista, ricordi?”

“volevo fare tante cose. Chissà, non era il momento, non era il luogo, non era destino. Ho dovuto cambiare i miei piani: faccio l’insegnante, con l’illusione di poter avere una minima influenza su quelli che saranno gli uomini e le donne di domani. Faccio parte del comitato di quartiere e lotto insieme agli altri per portare l’attenzione degli amministratori sullo sfacelo di questo posto, per restituirgli la dignità che aveva  e che merita. Bisogna sapersi adeguare, Dario”.

Provò rispetto e ammirazione per la passione che sentiva ancora vibrare in lei, nonostante le rinunce e le sconfitte. La vecchia pendola appesa dietro il divano scandiva il tempo con monotona determinazione, mentre fuori dalla finestra la nebbia si infittiva. Dario osservava la donna che gli sedeva accanto sul divano e pensava che avrebbe potuto invecchiare insieme a lei, in quello stesso luogo, se non fosse partito: ma lo aveva fatto, era orgoglioso di ciò che aveva saputo realizzare e non aveva senso chiedersi cosa sarebbe successo se fosse rimasto. Provò all’improvviso la stessa annoiata malinconia che si prova alle cene con gli ex compagni di liceo con i quali non si ha più nulla da condividere, ed ebbe voglia di andare via. Si congedò da Clara con una fretta colpevole e si salutarono con un abbraccio, entrambi consapevoli del fatto che non si sarebbero mai più rivisti.

Nei due giorni successivi girò ancora per Milano annotando con curiosità nuova i cambiamenti, finalmente libero dalle distorsioni della nostalgia per il ragazzo che era trent’anni prima e per un passato che apparteneva solo alla sua memoria. Il venerdì mattina un forte vento aveva spazzato il cielo che si presentava limpido e terso. Dario osservò il movimento in via Manzoni, vide passare un tram giallo – lui aveva fatto in tempo a vederli verdi – di cui udì prima il caratteristico sferragliare. Pensò che si sarebbe sempre sentito legato  a Milano, era la sua città, lo sarebbe sempre stata, ma casa sua era in un assolato altrove a migliaia di chilometri, dove c’era la sua famiglia, dove c’era la vita che aveva scelto di costruire, giorno dopo giorno.

Si rese conto che aveva ancora molte mete da raggiungere, e che era ora di tornare a casa.

https://youtu.be/1lyu1KKwC74

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Pubblicato da Sonia Fantozzi

Spirito irrequieto alla costante ricerca dei perché e dei percome. Ha lasciato Milano,ma in cima a una collina ha scoperto che sarà milanese per sempre.

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