Un lupo alla porta

“Gli uomini di più ampio intelletto sanno che non c’è netta distinzione tra il reale e l’irreale, che le cose appaiono come sembrano solo in virtù dei delicati strumenti fisici e mentali attraverso cui le percepiamo.” (H. P. Lovecraft, “La Tomba”)

La jeep dalla carrozzeria verdone un poco ammaccata, guidata con tranquilla perizia dal mio solido e silente accompagnatore mi sta portando, insieme al bagaglio e alla scorta di viveri, alla baita a Malga Ciapela dove trascorrerò le prossime due settimane in completa e perfetta solitudine.

Malga Ciapela si trova a 1450  metri di altitudine ed è una frazione di Rocca Pietore, paesetto del bellunese nei dintorni della più nota Alleghe: da qui partono gli impianti per la Marmolada, che maestosa ed imperscrutabile domina il paesaggio. Per essere precisi, alloggerò in un antico “tabià”, ovvero una di quelle rustiche costruzioni in pietra e legno che si trovano sparse ed isolate sui pascoli dolomitici. Fino a qualche decennio orsono erano adibite a stalle ed alcune svolgono tuttora questa funzione, altre sono state ristrutturate e vengono affittate per le vacanze a chi predilige le soluzioni rustiche ed appartate.

Per raggiungere la casa occorre lasciare l’auto in uno spiazzo riservato delimitato da paletti bianchi e rossi, e salire lungo uno stretto sentiero che taglia i pascoli popolati da pacifiche mucche che alzano appena il testone al nostro passaggio. Fatico non poco a tenere il passo dell’uomo, che procede agile e veloce. Il tabià sorge in mezzo ad un prato a pochi metri dal bosco e dall’esterno ha un aspetto inappellabilmente spartano: vi si accede da una sorta di larga passerella in legno che conduce ad un portico sul quale, in luogo dell’antico portone, si aprono ora una finestra ed una stretta porta in legno, con una rustica panca a ridosso del muro di pietra. L’interno è una sorpresa: l’unica stanza dall’alto soffitto è grandissima ed è molto accogliente, pavimenti e pareti sono rivestiti in legno chiaro il cui profumo resinoso permea l’ambiente, un angolo è attrezzato a cucina, con un tavolo e quattro sedie, e appoggiato alla parete di legno dietro la quale si trovano il letto matrimoniale con i classici piumini a sacco e l’armadio, vi è un divano a due posti. Il bagno è piccolo ma perfettamente efficiente ed i sanitari paiono nuovi, mentre l’elettricità è fornita dal grande pannello solare sul tetto.

Contemplo l’incombente massiccio della Marmolada che si staglia proprio di fronte al tabià e l’ombroso bosco di Malga Ciapela sul lato opposto e finalmente, dopo tanto tempo, mi sento gradatamente pervadere da un senso di pace, ed è come un’onda gentile che lambisce la sabbia cancellando qualsiasi impronta.

Negli ultimi cinque anni ho continuato ad abitare nella stessa città e persino nella medesima casa, facendo più o meno ciò che facevo cinque anni fa. Quando c’eri tu. Più o meno, perché mi sto rendendo conto che vivere e sopravvivere sono due condizioni simili per forma ma completamente differenti per contenuto: colui che sopravvive è come un involucro svuotato, destinato ad afflosciarsi su se stesso.

 Poco dopo guardo l’ampia schiena del signor Paolo, proprietario di questo antico ricovero e di un albergo giù a Rocca Pietore, che si allontana a passo di marcia in mezzo ai pascoli.

“Bene, le lascio le chiavi della macchina, la strada per scendere in paese è semplice, non può sbagliare. Comunque, se ha bisogno mi chiami: dall’albergo sono appena cinque chilometri, posso sempre mandarle qualcuno nel giro di un quarto d’ora”,

ed il suo sguardo dice che non comprende del tutto la scelta di questo luogo di villeggiatura tanto fuori mano da parte di una donna sola.

Prima di pensare a sistemare bagagli e provviste, mi siedo sulla panchina al riparo del portico e mi lascio avvolgere dalla luce dorata del tardo pomeriggio. Tra poco, l’ombra della Marmolada inghiottirà il tabià ed il bosco, mentre le mucche lasceranno il pascolo per dirigersi ai ricoveri notturni. Un grosso rapace, probabilmente una poiana, volteggia lento, planando in ampi cerchi sopra la radura, in cerca di una preda. Milano è così lontana.

Tu non ci saresti mai venuto in un posto come questo durante l’estate. Ti saresti annoiato, non eri fatto per le lunghe passeggiate con gli scarponi ai piedi ed il silenzio nelle orecchie. Amavi il mare, il sale sulla pelle, la sabbia sotto i piedi nudi, il vociare allegro della spiaggia, un pubblico da osservare e dal quale essere osservato.

 Un tempo anch’io non concepivo una vacanza estiva che non fosse al mare. La verità è che a quarantanove anni incominci a smottare verso un’età indefinita che ancora non è vecchiezza ma di certo è lontana dalla gioventù, e poco importa se gli odierni cinquantenni si sentono ancora ricchi di energia, di progetti e di aspettative. Io sono realista fino al cinismo, e penso che in questo secolo non sia la vita ad essersi allungata, quanto la senilità, sebbene spesso ingannevolmente supportata da un tratto più che arzillo.

Ormai la vicinanza forzosa con gli altri mi infastidisce, e poi mi guardo allo specchio e fatico a riconoscere il mio corpo, che ricordavo più snello ed atletico. Anche sul viso intravedo un principio di cedimento dei tratti e mi irrito di fronte alla latente espressione di arcigno scontento, di recriminante delusione. Ci rimango male, perché la mia mente mi ricorda diversa, così cerco di guardarmi poco, ma di certo le mie abitudini si stanno modificando.

Del resto, io non ho bisogno di un palcoscenico, e forse sono persino stufa di questa commedia.

Il piccolo televisore a schermo piatto fissato su una parete è un oggetto decorativo quanto inutile, dato che si vedono a malapena un paio di canali locali: d’altronde, anche il cellulare fa quello che può, e se voglio trovare campo devo uscire sul prato. Dopo cena, infilarmi in un piumino a sacco in pieno luglio è una stranezza che mi mette addosso un’allegria infantile. Mi ritrovo a tendere l’orecchio al gorgoglio dell’acqua del vicino ruscello che scorre veloce tra i sassi, e fa da sottofondo alla cacofonia delle voci di alcuni uccelli notturni che non so riconoscere. Ho la sensazione appagante di essere rientrata nel grembo materno, e scivolo in un sonno profondo e senza sogni.

Vorrei poter sciogliere questo nodo che mi soffoca da cinque anni, e ogni giorno stringe un poco di più, fino a farmi patire un’asfissia che stende un velo opaco sopra ogni cosa, e me la fa apparire irreparabilmente noiosa e vana. Allora, magari potrei ricominciare a vivere. Forse è questo che sono venuta a cercare in questo luogo che trasmette un incanto genuino e selvatico.

In questo spazio aperto, dove l’occhio indugia tra il verde brillante dei prati, quello più cupo del bosco ed il chiarore rosato della roccia dolomitica, ho l’impressione di ritrovare un respiro più ampio. Uscendo di casa in certe radiose mattine mi è capitato di stupirmi dinanzi al paesaggio scintillante di rugiada e di annusare profumi dimenticati: di erba, di terra umida, di resina, e un giorno ho scorto un cervo che brucava appena fuori dal bosco. La brezza fresca deve avergli portato il mio odore, perché ad un certo punto ha alzato di scatto la testa e con una leggiadra e veloce giravolta è fuggito tra gli alberi.

Per contrasto, questa visione mi  ha riportato alla mente il paesaggio quotidiano che scorgo dalla terrazza dell’appartamento in zona Carrobbio nel quale siamo andati a vivere subito dopo le nozze. Situato in una bella casa tinteggiata in giallo ocra con le persiane grigie, ha l’ingresso in via Santa Marta ma si trova sulla parte opposta della corte e dunque un lato affaccia su via Bagnera, una volta detta “Stretta Bagnera” poiché è in effetti la strada più stretta del Carrobbio e forse di tutta Milano.

Con un percorso a L collega via Santa Marta a via Nerino, e ponendosi nel mezzo della stradetta dal fondo lastricato con le antiche pietre rettangolari che il tempo e l’usura hanno reso lucenti e scivolose, soprattutto nei giorni umidi, se si allargano le braccia si possono sfiorare i muri degli edifici che incombono sui due lati, e se si alza lo sguardo si ha l’impressione che le sommità arrivino a congiungersi. Questo budello al quale tutti i palazzi presenti volgono le spalle, dall’elegante  Casa Cornaggia Medici al Cinema Eliseo, che su questa stradina angusta pone le uscite di sicurezza, è entrato nella leggenda per le gesta di Antonio Boggia, primo serial killer che qui compì i suoi efferati delitti, ed il cui inquieto fantasma parrebbe aggirarsi ancora per la via nelle notti più buie e gelide. Recentemente i muri deturpati da anonimi e iperattivi graffitari sono stati ripuliti ponendo rimedio al degrado che accentuava l’aspetto vagamente sinistro della via, ma in questa strettoia dove non riesce a penetrare il sole, sporgendomi dal terrazzo tra i vasi di rose ad alberello annaspo invano in cerca d’aria, e in certe notti di nebbia bagnata e lattiginosa non escluderei di potermi imbattere nel fantasma del Boggia.

Oggi ho fatto una passeggiata particolarmente impegnativa e stasera mi sento il corpo affaticato e dolorante e la mente incredibilmente, meravigliosamente svuotata di qualsiasi pensiero, interamente concentrata con amorevole sollecitudine sull’indolenzimento delle membra. Non riesco nemmeno a leggere due pagine del corposo volume che ho portato con me, e cado in un sonno buio e profondo, nel quale mi potrei immaginare assolutamente immobile.

Eppure, nel mezzo della notte mi sveglio di soprassalto e mi ritrovo seduta sul letto con il cuore in gola, senza afferrarne il motivo. Non ricordo nessun sogno che possa avermi turbata, ma dopo qualche secondo odo distintamente un concitato trapestio sull’assito del portico, in un silenzio innaturale nel quale solo il ruscello continua a far sentire la sua voce di solito così rassicurante, ora oscuramente aliena.

Dopo un poco mi sforzo di dominare l’affanno, esco piano dal piumino cercando di limitare il lieve scricchiolio delle piume e poso cautamente un piede dietro l’altro sul pavimento avvicinandomi alla finestra, ma naturalmente prima di coricarmi ho chiuso le imposte in legno pieno, e dunque non posso vedere assolutamente nulla. Silenzio. Solo il canto dell’acqua che fluisce carezzevole sui sassi. Poi, di nuovo quel leggero e veloce scalpiccio: ma nessun passo umano farebbe questo rumore, mi dice il mio cervello, questi sono piedi che poggiano a terra anche le unghie. Sarà qualche volpe, o qualche altro piccolo mammifero notturno, il mio respiro è tornato tranquillo e allora subentra la curiosità, così apro piano la porta e mi accorgo che è una notte di luna piena, e c’è una luce bellissima e argentea che illumina i prati, tanto che l’ombra degli alberi si proietta nitida sul terreno.

Poi vedo qualcos’altro risplendere nel buio, e sono gli occhi color miele di un lupo che se ne sta ieraticamente seduto sui posteriori, proprio davanti alla breve rampa che sale fino al portico. Non so se sia la paura a paralizzarmi o piuttosto la malia ancestrale  che si sprigiona da questo animale dal chiaro pelo fulvo più scuro sul dorso, il muso appuntito e le piccole orecchie triangolari, gli arti anteriori lunghi e sottili, e mentre lo osservo trattenendo il fiato non ho dubbi sulla sua natura di lupo, sebbene io sappia che qui sono rarissimi.

Sembra scrutarmi con curiosa attenzione, e il suo sguardo dorato mi mette a disagio perché è come se si stesse aprendo un varco nella mia anima senza che io passa impedirglielo, e quando vi sarà riuscito, perché sono certa che avverrà, non potrò nascondergli nulla.

Mi separa circa un metro dalla porta, ma appena sposto un piede per retrocedere, il corpo snello del lupo si protende leggermente in avanti, vibrando in un ringhio sommesso, con l’ispido pelo ritto sulla schiena e le labbra arricciate a scoprire i denti aguzzi e bianchissimi. Poso di nuovo il piede a terra e rimango lì a rabbrividire nella notte limpida e fresca, io e lui sotto la luna radiosa, gli occhi avvinghiati, il suo afrore che mi investe a folate, e resisto a fatica all’insano desiderio, che mi si sta insinuando sotto la pelle, di avvicinarmi e di sentire sotto le dita quel pelo lanoso e folto. Il tempo si ferma su questo lembo rarefatto di realtà inverosimile: mi chiedo allora se sto sognando, e cosa ricorderò al mio risveglio.

La luna sta scomparendo dietro le montagne, il cielo schiarisce velocemente e i primi raggi del sole tingono di una calda luce arancione le cime, sopra ad un mare di nuvole candide e vaporose abbracciate alle rocce. Il lupo si alza senza fretta, si gira e scompare trotterellando verso il bosco, senza mai voltarsi indietro. Io rimango a guardarlo con un assurdo senso di perdita, poi rientro in casa, mi infilo nel piumino e mi addormento profondamente, risvegliandomi solo a metà mattinata. Le impronte terrose e nitide che trovo sulla rampa e sotto il portico mi confermano che non ho sognato.

Non torna tutte le sere, no: in alcune notti che all’improvviso si fanno silenziose sento il suo lieve zampettare sul portico, ma mi avvolgo nel piumino come in un bozzolo, perché so che non potrei resistere ancora al richiamo tenebroso di quegli occhi ambrati.

Eravamo in vacanza in Sardegna e mi capitava spesso di osservarti con una trepidazione nuova, forse avevo intuito il tuo irrimediabile allontanarti. Un pomeriggio sostammo in un posto bellissimo, una scogliera brulla e bionda a picco sul mare trasparente del colore cangiante dello smeraldo sotto il limpido cielo blu scuro, una bellezza feroce e violenta, che  ti sconvolge e non ti appartiene. Ti avevo forzato ad un amplesso furioso del quale non avevi nessuna voglia e ad un tratto mi dicesti

“…mi dispiace, ma non provo più niente per te”.

“C’è un’altra?”

“No, te lo giuro. E’ solo che l’amore è finito, e io non posso più vivere con te”.

Mi voltasti le spalle, preferendo la vista della caletta là sotto, racchiusa da una corona di scogli appuntiti, allo spettacolo impietoso del mio sgretolamento, della mia incapacità ad accettare che l’amore finisca senza un motivo, e non rimanga più nulla. Fui alle tue spalle con un balzo e spinsi con tutte le mie forze, rimanendo poi a guardare il tuo corpo immobile che tingeva di rosso la roccia, mentre il furore si ritirava a poco a poco, lasciando il posto ad un orribile vuoto. Dopo “l’incidente” tornai a Milano, prendendo a lasciar scorrere le giornate nella casa dove tutto parlava e seguita a parlare di te e della tua irrevocabile assenza.

Stasera dormirò per l’ultima volta in questa casetta, in un luogo che è divenuto così familiare: è ora di rientrare a Milano, riprendere il lavoro, ricominciare a cercare un cielo scialbo oltre i muri dei palazzi.

Oppure, aprire la porta al lupo, e lasciarlo entrare.

Ma lui non si fa vedere, ed io riparto con un inspiegabile rimpianto per qualcosa che non si è compiuto.

Le giornate si susseguono l’una all’altra, senza nessun altro scopo che vada oltre la sopravvivenza quotidiana. Ed è di nuovo autunno, un novembre uggioso e precocemente freddo. Stasera le grosse pietre rettangolari su via Bagnera luccicano nella fioca luce opalescente, ed anche senza il fantasma del Boggia questo claustrofobico budello, deserto nella notte che incombe,  ha un aspetto inquietante. Mi addormento poco dopo essermi coricata, i consueti e rari rumori cittadini sulle vie qui attorno non mi disturbano.

E’ notte fonda quando mi strappa bruscamente dal sonno un rumore lieve ma inconsueto, come un leggero raschiare sul legno della persiana della porta finestra del terrazzo. Rimango per un poco ad ascoltare, ed è proprio quello che sembra. Mi alzo dal letto e mi dirigo verso il soggiorno. E’ una notte senza luna e il grande terrazzo è popolato da ombre fitte che la luce posta sopra la porta e che lascio accesa la notte non riesce a dissipare.

Apro lentamente e percepisco il brillio dorato dei suoi occhi prima ancora di vederlo: il lupo mi osserva, seduto sui posteriori, il pelo luccicante di umidità, paziente e quasi amichevole.

Io sono pronta, ed ora cammino decisa nella sua direzione, le braccia aperte per accoglierlo mentre spicca un balzo silenzioso e potente: ed è come se ci corressimo incontro per unirci nell’ultimo abbraccio.

https://youtu.be/dvBPCm25z4I

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Pubblicato da Sonia Fantozzi

Spirito irrequieto alla costante ricerca dei perché e dei percome. Ha lasciato Milano,ma in cima a una collina ha scoperto che sarà milanese per sempre.

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