Una giornata particolare

 

“Quest’orrore della solitudine, questo bisogno di dimenticare il proprio io nella carne esteriore, l’uomo lo chiama nobilmente bisogno d’amare” (Charles Baudelaire, “Il mio cuore messo a nudo”)

L’Ispettore Alberto Patané uscì dal Commissariato di viale Monza, dove era passato per un saluto agli ex colleghi, che erano quasi le due del pomeriggio.

Era la vigilia di Natale ed era di riposo poiché sarebbe stato di turno al Commissariato di Quarto Oggiaro sia a Natale che a Santo Stefano. Tanto sarebbe stato solo: i suoi erano partiti per Giarre come tutti gli anni, per trascorrere le festività natalizie insieme ai numerosi parenti. Lui, ancora moralmente ingolfato per la triste vicenda di Marina, la quale pochi mesi prima aveva ucciso il marito per sfuggirne le violenze, e per la sua conseguente menzogna per farle riconoscere la legittima difesa in luogo della premeditazione, aveva preferito starsene per gli affari suoi.

Così si era reso disponibile per coprire i due giorni festivi e si era guadagnato la gratitudine di Lo Russo e Rovelli che avrebbero potuto starsene a casa tranquilli, benché reperibili. Lo Russo aveva insistito perché cenasse con la sua famiglia quella sera, ma l’idea di una vigilia con della brava gente che tuttavia non conosceva e in mezzo alla quale si sarebbe sentito un inopportuno intruso non gli andava proprio, così aveva declinato con cortese fermezza.

Però, ora alzava gli occhi verso quel cielo basso che pareva promettere altra neve (dopo tutta quella che era caduta nei giorni precedenti), pensava al suo appartamento senza nemmeno un misero alberello natalizio di plastica e con un frigorifero vuoto come la spiaggia dell’Idroscalo a Natale, ed era tramortito da una potente botta di malinconia, quella malinconia collosa e densa che ti fa rallentare e sentire fuori posto ovunque tu decida di andare.

Allora pensò di cercare consolazione in un luogo teatro di molti ricordi gioiosi, uno dei primi angoli verdi di Milano che aveva scoperto insieme alla mamma quando era bambino: i Giardini Pubblici di Porta Venezia, ora intitolati a Indro Montanelli, che per lui sarebbero sempre rimasti i Giardini Pubblici e basta.

Miriam Maggioni lasciò la filiale della banca nella quale lavorava in Corso Buenos Aires verso mezzogiorno. Era una giornata fredda e umida ed era molto stanca, ma non aveva voglia di andare a casa perciò si avviò verso Porta Venezia: avrebbe fatto due passi ai Giardini.

Non aveva voglia di tornare sulla scena finale della sua storia con Filippo, che si era svolta a casa sua la sera precedente. Lo aveva conosciuto al Plastic un anno prima: alto, affascinante, indolente e strafottente, bella faccia dai lineamenti decisi e irregolari che tuttavia si componevano in un perfetto equilibrio e tutto nella sua persona suggeriva una valutazione istintiva, tanto superficiale quanto azzeccata: il tipico bastardo incallito. E sposato, naturalmente, ma con una moglie che non lo capiva e gli tarpava le ali e due figli piccoli che erano delle palle al piede e insomma il solito trito repertorio.

Fu subito incendio, e Miriam sapeva di infilarsi in una storia perdente ma pensò

“ce la posso fare, starò con un piede di fuori”

e invece finì dentro con entrambi i piedi e tutto il resto e si trovò presto relegata nel ruolo dell’amante consolatrice, comprensiva e naturalmente sempre disponibile. Filippo era prudentissimo e dopo quella prima sera in cui la seguì fino a casa con la propria auto, non frequentarono mai luoghi pubblici, confinando i loro incontri esclusivamente  a casa della ragazza. Per non allontanarsi da Milano – per non allontanarsi da Filippo – lei rinunciò ad una promozione che l’avrebbe portata a Bologna, poi annullò la consueta vacanza in luglio negli States da sua madre e rimase a Milano a lavorare nel mese di agosto, mentre lui era al mare con la famiglia che non sopportava più,

“ma appena torniamo a casa le parlo e via, si comincia una nuova vita”.

La madre di Miriam era un’americana che addestrava cavalli da reining da quando aveva sedici anni; trent’anni prima aveva accettato un ingaggio in un grosso centro ippico appena fuori Milano. Aveva appena diciotto anni, era bella e forte e uno dei clienti del centro, imprenditore milanese nel settore  dell’editoria, era stato colpito da questa figura femminile così al di fuori dei suoi schemi borghesi. L’aveva amata sinceramente e dalla loro storia era nata Miriam, ma Annette viveva per i cavalli e con i cavalli ed era originaria di Amarillo, Texas, che si affacciava sulla mitica Route 66 e Milano le stava stretta.

Miriam aveva vissuto fino all’età di diciannove anni con la madre, i suoi equini ed un certo numero di fidanzati che si erano succeduti negli anni, spostandosi dal Texas all’Ohio all’Oklahoma, dove infine Annette si era fermata sposando il figlio di un importante allevatore di cavalli di razza quarter.

Il padre aveva sempre generosamente contribuito al suo mantenimento e quando lei aveva voluto tornare a Milano – era stufa marcia di traslochi, di polvere e di odore dolciastro di cavalli sudati – le aveva comprato un appartamento in viale Tunisia e l’aveva sostenuta economicamente fino a quando non aveva conseguito la laurea in economia e commercio alla Bocconi e non aveva incominciato a lavorare in Banca. Da quel momento in poi, i loro rapporti tornarono ad essere sporadici e formali. Miriam avrebbe voluto possedere la capacità materna di bastare a se stessa e di liberarsi di emozioni e sentimenti con la stessa elegante naturalezza con cui gli animali si scrollano di dosso la pioggia, ma non ci riusciva: aveva costantemente bisogno di un centro intorno a cui gravitare e ciò la esponeva a sofferenze e delusioni.

La sera dell’antivigilia Filippo aveva cenato a casa sua e poi si erano scambiati i regali di Natale: lui l’aveva ringraziata per l’orologio di marca che le era costato un mese di stipendio e quando lei aveva fissato con malcelata delusione il suo regalo, un pesante posacenere in cristallo

(“io non fumo e lui sì e sa che mi da noia, quindi  a chi ha pensato quando lo ha comprato?”),

aveva esclamato

“a casa ne abbiamo uno uguale e dato che ormai per me questa è praticamente una seconda casa…”.

Miriam aveva di colpo realizzato ciò che sospettava da tempo, e cioè che sarebbe sempre stata la seconda, un comodo rifugio facilmente sostituibile  e certamente non un’alternativa per la quale lottare.

Lo valutò con una lucidità nuova, comprendendo con chiarezza la sua pochezza e la sua meschinità.

“A proposito, in settembre non avresti dovuto chiarirti con tua moglie e fare i bagagli?”

Lui aveva un’espressione più stupita che infastidita quando le rispose

“dai, lo sai che con due figli di mezzo non è facile prendere una decisione simile…”

“…ma io ho rinunciato a un posto di direttore di filiale per starti accanto e rispettare i tuoi tempi”.

Filippo si irrigidì e si mise sulla difensiva:

“nessuno te lo ha chiesto. E’ stata solo una tua scelta”.

Fu come se quella frase fosse dotata di una violenta forza centrifuga capace di scaraventare fuori dalla sua orbita Filippo, che smise di colpo di esserne il centro lasciandola amareggiata e disorientata, con un pesante ed inutile posacenere di cristallo tra le mani.

L’Ispettore Patané raggiunse la fontana davanti a Palazzo Dugnani e si stupì di trovare quasi tutte le panchine poste attorno occupate, in una uggiosa viglia di Natale: per lo più da persone anziane, quasi tutte in coppia, almeno con un cane. Lui, nemmeno quello. Si sedette sull’unica libera, che dava le spalle a quello che una volta era l’ingresso dello Zoo, ormai chiuso da anni. La superficie della vasca della fontana era ricoperta da uno spesso strato di neve gelata e candida che le dava l’aspetto di un’enorme torta ricoperta di glassa e lo zampillo si era immobilizzato in uno spruzzetto ghiacciato alto una ventina di centimetri. Tirò fuori dalla tasca il libro di Baudelaire e decise di continuare a graffiarsi l’anima leggendo i sussulti dissacranti e lapidari di “Il mio cuore messo a nudo”.

Miriam aveva l’impressione che camminare nell’aria fredda le alleggerisse il cuore: pensò che era sempre stata sola, anche quando stava con Filippo, ma ora non aveva nemmeno un’illusione da coltivare. Era la vigilia di Natale, suo padre non le aveva telefonato per gli auguri e sua madre invece l’aveva sommersa di chiacchiere sui suoi progetti futuri – perché ne aveva in continuazione, come se pensasse di avere un futuro illimitato – e le aveva chiesto frettolosamente come stava.

Sui viali inghiaiati dei Giardini la neve si era sciolta in una poltiglia fangosa e in alcuni tratti ghiacciata. Quando raggiunse la fontana di fronte a Palazzo Dugnani notò con disappunto che non c’era una panchina libera: dopo un attimo di incertezza, si diresse verso l’unica occupata da un uomo immerso nella lettura. Si sedette piano  all’estremità opposta per non disturbarlo – cercava sempre di non dare fastidio, era fatta così –  ma lui percepì la leggera vibrazione del legno della panchina sotto il suo peso ed alzò gli occhi dal libro. Miriam posò lo sguardo sui suoi capelli scuri e ricci

(“secondo me questo esce dal mare con i capelli asciutti”)

e sugli occhi verdi, che si illuminarono subito in un sorriso gentile che alzò appena gli angoli della bocca piena e ben definita, ma con un ritardo di qualche istante. Pensò che non doveva essere molto più grande di lei e percepì qualcosa di vulnerabile che glielo fece riconoscere come simile.

L’Ispettore Patané studiò velocemente e con discrezione la fisionomia della ragazza che gli si era seduta accanto – deformazione professionale, ma solo in parte: di altezza media, aveva lunghi capelli ramati e un viso grazioso dai lineamenti delicati ma gli occhi azzurri erano spenti e dava l’impressione di essere una che aveva consentito che le camminassero addosso con gli scarponi chiodati. Sentì un immediato, pericolosissimo bisogno di proteggerla e di lenire in qualche modo la sofferenza che traspariva dalla sua persona e pareva stritolarla.

Non ci volle molto perché incominciassero a rovesciare parole dentro piccole nuvole biancastre di fiato condensato, che danzavano eteree e finivano per mescolarsi tra i loro volti arrossati dal freddo. Si raccontarono senza bugie ma con qualche omissione, tacendo le sconfitte e girando al largo dalle disillusioni e cercarono di proporre il loro lato migliore, come quando ci si mette in posa per una foto.

Ad un certo punto il cielo divenne ancora più grigio e prese a cadere un nevischio gelato. Miriam si tirò il cappuccio sulla testa e rimase a guardare i piccoli fiocchi pesanti che si posavano sulla testa ricciuta dell’Ispettore Patané, mentre un pensiero la sfiorava

“quest’uomo è così dolce e rassicurante e vorrei che mi stringesse e mi dicesse che va tutto bene”

ma se ne vergognò e lo scacciò subito, rimanendo ferma nel centro della sua solitudine.

Lui si alzò lentamente, come se stesse cercando di prendere una decisione. Poi disse

“…non ho molto da offrirti”

e lei capì perfettamente e rispose

“…sono una che si accontenta di poco”.

Si presero per mano e andarono verso la stazione metro di Palestro, mescolandosi alla folla di ritardatari alla forsennata ricerca dell’ultimo regalo. Salirono sul treno e scesero a Loreto, presero per via Padova e si fermarono in un negozio di gastronomia: ne uscirono carichi di pacchettini e Miriam pensò che parevano una coppia qualunque che si preparava per la cena della vigilia. Si stupì dell’ordine meticoloso del suo appartamento da scapolo e per questo lo prese un po’ in giro e fu allora che lui le si avvicinò e la strinse nell’abbraccio che lei desiderava.

Cenarono ascoltando musica e parlando piano, chiusero fuori il mondo e si scambiarono calore e consolazione, fu l’incontro di due solitudini che per qualche ora si fondono e si trasformano in un universo appartato e completo, che tutto comprende e che può fare a meno di tutto, e fu una bella vigilia di Natale.

Il ronzio sommesso e disturbante della sveglia strappò brutalmente dal sonno l’Ispettore Patané, che prima di aprire gli occhi allungò un braccio verso l’altra parte del letto, e la trovò fredda e vuota. Si mise a sedere e si guardò attorno. Non vi era traccia della presenza di Miriam, a parte una lieve fragranza fiorita tra le lenzuola

(“è destino che io rimanga da solo in questa casa con la scia di un profumo”).

Ripensò all’incontro del giorno precedente e si rese conto che non si erano nemmeno scambiati i numeri di telefono, non sapeva come si chiamasse di cognome la ragazza né dove abitasse. Lei sapeva dove trovarlo, lui avrebbe solo potuto aspettare. Dovette ammettere di aver intuito qualcosa di sfuggente, come un lato in ombra che gli aveva impedito di immaginare un’evoluzione di quella giornata, eppure non aveva saputo resistere al bisogno di alleviare il dispiacere di lei – qualunque esso fosse – almeno per un po’, almeno la notte di Natale. Si alzò, indossò la stessa malinconia appiccicosa del giorno prima e si preparò per trascorrere il giorno di Natale in Commissariato.

Miriam era sgusciata fuori dal letto dell’Ispettore alle prime luci dell’alba. Lo aveva guardato con la nostalgia di ciò che era stato e con il rimpianto di ciò che forse non avrebbe mai potuto essere: eppure le sarebbe piaciuto poter rimanere nell’abbraccio protettivo di un uomo che portava il segno di qualche ferita ma sembrava ancora disposto a rischiare.

Prima avrebbe dovuto separarsi dall’immagine del corpo di Filippo che giaceva immobile nel suo salotto con il cranio fracassato da un posacenere di pesantissimo cristallo. Avrebbe dovuto prendere le distanze da quella se stessa che lo aveva avvolto in un tappeto, caricato in ascensore (che fortunatamente scendeva direttamente in garage) e infilato a fatica nel bagagliaio  dell’auto. Avrebbe dovuto infine rimuovere il ricordo della corsa nella notte fino al Ronchetto delle Rane, nella campagna intorno ad una cascina isolata che suo padre aveva ereditato dai nonni e nella quale l’aveva portata quando pensava di ristrutturarla, i primi tempi in cui lei era tornata in Italia. Ma più di tutto, avrebbe dovuto smettere di pensare a quando si era avvicinata con l’auto al vecchio pozzo asciutto, aveva tolto il coperchio di assi di legno e vi aveva gettato cadavere, tappeto e posacenere

(quel tonfo soffocato e cupo)

dando poi fuoco a tutto lanciando vari fiammiferi accesi. Era stata a guardare le fiamme che si alzavano gagliarde e crepitanti sul fondo del pozzo, mentre le narici si riempivano di un lezzo penetrante e  disgustoso. Era poi tornata a casa, aveva ripulito tutto, si era fatta una doccia e si era spruzzata una gran quantità di profumo – ma niente, continuava a sentire quell’odore – e poi era andata a lavorare.

Ecco: avrebbe dovuto elaborare e metabolizzare tutto ciò (e anche sperare di farla franca, ma l’ossessiva prudenza di Filippo nella gestione della loro relazione giocava a suo favore), riconciliarsi con se stessa  e poi forse avrebbe potuto pensare di tornare a bussare alla porta dell’uomo che le aveva regalato la notte di Natale più bella della sua vita.

 

 

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Pubblicato da Sonia Fantozzi

Spirito irrequieto alla costante ricerca dei perché e dei percome. Ha lasciato Milano,ma in cima a una collina ha scoperto che sarà milanese per sempre.

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