Vite che sono un po’ la mia

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Vite che non sono la mia

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Non serve viaggiare per essere in viaggio. No, non è l’ennesimo gioco di parole, ma un’evoluzione recente che rende straordinario il nostro essere qui sul pianeta terra di questi tempi.

Se ci pensi è ovvio. Pensa a Internet, il nuovo elefante rosa. Da quando abbiamo gli smartphone siamo sempre connessi e quindi non lo siamo mai. Internet non esiste, è semplicemente affondato nella nostra vita come un tesoro sommerso, rendendola migliore.

In azienda non è andata tanto diversamente. Fino a qualche anno fa, prima del piano dati di massa, Facebook e la posta privata erano murate dietro un firewall, con gli smartphone personali questa barriera non esiste più. “Pheega, sei sempre in ferie!” direbbe il milanese imbruttito. Un po’ è così.

Se torniamo al tema del viaggio il filo è ancora più sottile. Ripetiamo l’ipotesi da cui sono partito per declinarla meglio: non serve viaggiare per essere in viaggio. Non vi sarà sfuggito che non vale il contrario: devi assolutamente essere in viaggio per viaggiare. La noia è il disallineamento del dato fisico (sto viaggiando: percorro dei chilometri, attraverso luoghi, dormo in letti remoti etc) rispetto al dato mentale (sono investito da una serie di stimoli eterogenei che fanno più o meno allacciare le mie sinapsi e incoccano più o meno i miei neuroni specchio). Stiamo solo dicendo che il viaggio è un fatto mentale. Siamo dei tamagotchi che si auto-imbottiscono di endorfine. Se il vissuto non le innesca non c’è viaggio che tenga, siamo a terra. C’è un laboratorio perfetto per testare la nostra tesi ed è la nostra città, soprattutto se trasformata in carrozza turistica dopo anni da zucca business.

L’esercizio mentale che propongo è molto semplice: siamo capaci di viaggiare in città?  Lo sapeva bene Marcovaldo negli anni ’60, quando Italo Calvino gli fa prendere un normalissimo tram un po’ speciale e Marcovaldo si ritrova perso e catapultato in una Torino felliniana. Però in Marcovaldo c’è un ineludibile retrogusto di alienazione. Lo sanno più e meglio i designer della catena Citizen-M: i loro alberghi sono progettati per far cortocircuitare in un unico vissuto la città, poniamo Londra, di chi è in viaggio col vissuto dei londinesi. All’ora dell’aperitivo, rito meticcio per eccellenza, il Bar dell’hotel li vede rimescolati alla perfezione. Lo stesso capita in molti hotel newyorkesi che hanno aperto un locale glamour. Se l’insonorizzazione è fatta a regola d’arte puoi decidere se dormire o vivere la movida senza particolari problemi. Per vivere Londra o Parigi non da turisti (ricordo ancora il livore della mia ex-fidanzata quando indelicatamente le dissi che ora potevo vivere Venezia non da turista, ma la cosa ci porterebbe lontano), per viverle non da turisti è necessario un doppio lavoro. Da un lato l’immaginazione e la fertilità mentale di chi a qualunque titolo è in viaggio; dall’altro un’opera profonda di redesign urbanistico per ripensare e riprogettare i luoghi di incontro, di scambio, di emozioni condivise. Non vanno progettate troppo, vanno accolte e sapute accogliere. I luoghi perfetti hanno una qualità sfuggente, un qualche non so che a cui non sapremmo di preciso che nome dare. È il tocco felice e invisibile del designer, l’interplay è perfetto quando la tecnologia scompare. Come Internet che è affondato nelle nostre vite, ricordate all’inizio?

Nel prossimo post magari vi racconterò dieci modi per essere in viaggio nella propria città. Per ora prepariamo il terreno. Per ora proviamo a pensare come cambia il mondo se a cambiare è il suo percepito, il suo vissuto, a tutti gli incroci di vite proprie e altrui cui siamo chiamati.

Sarebbe un tassello importante nella rifondazione non solo della città ma anche e soprattutto del nostro vivere associato. Trovare degli ancoraggi che diano un senso al nostro essere continuamente in viaggio. Per lasciare anche noi, come Giorgio Caproni, un 

Biglietto lasciato prima di non andar via

Se non dovessi tornare,

sappiate che non sono mai partito.

Il mio viaggiare

è stato tutto un restare qua,

dove non fui mai.

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Pubblicato da Filippo Pretolani

Non tutto quello che esiste implicitamente ha bisogno di essere reso esplicito — Peter Sloterdijk. Fondatore di Gallizio editore e co-fondatore dell’Istituto Kaspar Hauser per gli Studi Economici.

Una risposta a “Vite che sono un po’ la mia”

  1. una modesta proposta per viaggiare nella propria città: coprire in un giorno una distanza di 10.000 passi ovviamente a piedi. L’inconsueto/meraviglia trascina già in “letti remoti”. Bello, bello il post.

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