Una sfumatura indefinita, una scia volatile ed effimera come il profumo di una donna che ti capita di incrociare per la via, il balenare di un’intuizione, che quando ti pare di averne afferrato la sostanza è già passata, svanita o forse mutata in qualcosa d’altro che non ti appartiene più o non ti appartiene ancora. E’ questo il colore del cane che scappa, e talvolta la quintessenza di una vita intera.
Erano appena le sette del mattino, ma in quell’agosto siccitoso, peraltro succeduto a due mesi altrettanto asciutti, a Milano la leggera brezza mattutina era già tiepida e fiacca, prossima ad esalare l’ultimo fiato. Presto una calura carognesca ed asfissiante avrebbe avviluppato la città offuscando il cielo sgombro di nubi fino a notte, quando un alito pietoso sarebbe forse riuscito a smuovere appena le tenere foglie delle roselline in vaso che ornavano il terrazzo coperto di casa Mantegazza, all’ultimo piano del numero 31 di via Carlo Poerio.
Già lavato, sbarbato e vestito con un paio di comodi calzoni in leggera tela color sabbia e una polo blu, il signor Attilio aspettava di udire l’energico gorgoglio della moka accompagnato dall’aroma rinvigorente del caffè, che avrebbe sorbito insieme alla moglie Mariuccia all’aperto, come usavano fare nella bella stagione. Se ne sarebbero stati seduti belli comodi sulle poltroncine del vetusto salotto in midollino a godersi quel po’ d’aria, chiacchierando a bassa voce e lasciando scorrere lo sguardo sul panorama familiare dei tetti delle basse palazzine d’epoca poste sull’altro lato della via.
Mentre intuiva il passo leggero e spedito della moglie, in avvicinamento con le due tazzine sul vassoio tondo in metallo verniciato con la pubblicità dell’Aperol, cimelio di un’epoca non così lontana ma di certo ormai passata, l’uomo si insinuò tra due grossi vasi di rose e si sporse leggermente dalla balaustra per osservare, come faceva da molti anni quasi ogni mattina, la sagoma inconsueta della casa situata due numeri più in là, sul medesimo lato della strada.
Stava lì almeno da quarant’anni, ovvero da quando la famiglia Mantegazza si era trasferita in quell’appartamento lasciando la casa di ringhiera in via Gluck, ma la cercava con gli occhi ogni giorno quasi temesse di non trovarla più, tanto era fuori contesto: con i tre frontoni a cuspide in mattoncini rossi, il bovindo sopra il portoncino d’ingresso centrale e le alte finestre senza imposte esterne dai serramenti verniciati di bianco e contornate da una cornice in pietra candida, rappresentava un bell’esempio di gotico fiammingo, e pareva che fosse stata scaraventata in via Poerio da qualche vento capriccioso che l’avesse sradicata da un villaggio nei Paesi Bassi, dove un giorno o l’altro avrebbe potuto improvvisamente ricollocarla.
Si trattava della Casa del Rabbino della Comunità Chabad Lubavitch, nota anche come “Casa 770” poiché uguale a quella che la facoltosa famiglia Lubavitcher, stirpe di ebrei ortodossi di origine bielorussa, acquistò a Brooklyn al n. 770 di Eastern Parkway per accogliere il rabbino Yoseph Schneerson, il quale negli anni ’40 approdò negli Stati Uniti fuggendo dalle persecuzioni naziste. Il singolare edificio divenne molto caro alla comunità ebraica, che ne volle costruire almeno altri dodici in giro per il mondo, identici o quasi fra loro e tutti ugualmente denominati con quel numero.
Verificato che i tre timpani svettavano ancora nel cielo lattiginoso di afa, il signor Attilio disse, girandosi appena:
“Cià, Mariuccia, stemm minga chi tropp a cinquantala…”
(accento sulla penultima sillaba, a dire “non tiriamola troppo per le lunghe”)
“…o lo facciamo adesso, o mi sa che non lo facciamo più”.
La signora Mariuccia, che aveva deposto il vassoio con le due tazzine fumanti sul tavolino tondo, si lasciò andare con grazia sulla poltroncina, portò la chicchera in porcellana alle labbra e sospirò piano, utilizzando quel fiato, giusto perché non era avvezza a sprecarne, per mitigare il bollore del liquido scuro.
Era preparata al fatto che l’avrebbe spuntata il marito, anche quella volta come tante altre, e non perché la signora Mariuccia fosse un tipo remissivo, non era nemmeno tanto accomodante. Tuttavia, avrebbe seguito l’Attilio anche in capo al mondo, se glielo avesse proposto, non solo per l’amore che la legava a lui da sessant’anni e passa ma per una mirabile, inossidabile sintonia in virtù della quale erano sempre stati mossi da pulsioni e aspirazioni condivise, che si fondevano, si integravano e si smussavano senza grande sforzo.
Che poi, nel caso specifico non si trattava di andare in capo al mondo, ma appena ad un centinaio di chilometri da Milano, sulle sponde del Lago Maggiore, dove tanto tempo prima – eppure sembrava appena ieri – erano stati in viaggio di nozze.
Ne avevano fatti, di viaggi, i coniugi Mantegazza: avevano incominciato dopo il ‘75, quando lui era diventato responsabile del settore litografico di una casa editrice specializzata in pubblicazioni d’arte e aveva incominciato a guadagnar bene, la moglie era impiegata in un grande studio legale in via Torino e l’unico figlio Vittorio era iscritto a ingegneria al Politecnico e ormai le vacanze le faceva con gli amici.
Così ogni estate cambiavano meta, avevano girato tutta l’Italia in auto perché a lui piaceva guidare e aveva una predilezione per le decappottabili, manco vivesse a Sanremo invece che a Milano, dove si mastica umidità per otto mesi all’anno. Nella primavera dell’85 aveva persino comprato un’Alfa Romeo Spider del ’79 (la seconda serie, la cosiddetta “coda tronca”), e quando l’aveva ritirata era così contento ed elettrizzato che benché piovesse a dirotto aveva aspettato che la signora Mariuccia uscisse dall’ufficio e l’aveva scarrozzata per Milano sulla vetturetta rossa, con il fragore dell’acqua che batteva sulla capottina di tela nera.
Pochi anni dopo erano andati in pensione e ormai Vittorio conviveva con la morosa in un quartiere residenziale alle porte della città e allora si erano spinti più lontano, visitando Paesi europei ed alcune isole sperdute in qualche oceano, dalle quali erano ritornati un poco frastornati da troppo sole e da un mare troppo vasto, nel quale l’orizzonte si perdeva.
Non avrebbero saputo dire con precisione in quale momento della loro esistenza si fossero lasciati invischiare in una sorta di pigrizia che poi era sconfinata in un sotterraneo timore ad allontanarsi dall’ambito abituale: era stato più o meno intorno agli ottantacinque anni di Attilio, che coincidevano con gli ottantaquattro della consorte. L’Alfa Romeo era chiusa nel box già da qualche anno, ed era stata sostituita da un teutonico e rassicurante Maggiolino, rigorosamente cabrio, con il quale gli spostamenti si erano fatti via via più modesti e più rari.
E una mattina in cui, essendo guasto l’ascensore, si erano ritrovati a scendere le scale aggrappati al corrimano, l’Attilio e la Mariuccia si erano guardati senza dire nulla, ché non ce n’era bisogno, poiché si erano capiti. Avevano preso a guardar serenamente scorrere il mondo dalla finestra e dal terrazzo, e in certe giornate uggiose nelle quali il mattino si confondeva con la sera, aprivano lo scatolone delle foto e delle diapositive e viaggiavano nel loro passato.
Fu nell’autunno appena trascorso, quando l’Attilio ebbe un lieve incidente sul parcheggio di un centro commerciale (uno sfrisino da niente, ma fu l’orgoglio a riportare la ferita più grave) che il Maggiolino raggiunse la gloriosa Alfa Romeo nel garage, e alla signora Mariuccia piaceva immaginare le due vetture che se la contavano su nella fresca penombra del sotterraneo.
D’altronde, novant’anni sono novant’anni. Però, in quell’estate iniziata presto e che pareva non dovesse mai finire, l’Attilio aveva incominciato a scrutare l’orizzonte con lo sguardo smanioso, finché non se ne era uscito con quell’idea:
“Aspettiamo la settimana di ferragosto, che il Vittorio è via, stacchiamo il telefono e tutt’al più gli diciamo che è guasto, tanto abbiamo i cellulari. Andiamo a vedere se c’è ancora l’albergo dove siamo stati in luna di miele: non è lontano, me la sento di arrivare fin là. Oggi, Mariuccia, domani non so”.
Così, in quella mattina che prometteva ancora una calura appiccicosa come la bava di una lumaca, la signora Mariuccia aveva colto l’esortazione a non “cinquantarla”. Nel tardo pomeriggio si erano risolti a dare una spolverata al Maggiolino color amaranto e con la capote abbassata avevano girato prudentemente per la città sospesa del periodo ferragostano
“…tanto per riprendere un po’ la mano”
spingendosi fin sui Navigli, dove si erano imbattuti in gruppetti di turisti per lo più stranieri. Erano rincasati stanchi e un poco rintronati dal sole e dall’aria, ma eccitati come due adolescenti.
Il mattino dopo partirono dunque di buon’ora attraversando la città con tutta calma, il signor Attilio con un berretto all’inglese a proteggere il capo e mezzi guanti in pelle e cotone forato, la signora Mariuccia con un bel foulard in seta e grandi occhiali scuri, e dopo due ore abbondanti, con il motore del Maggiolino che ronzava sommesso senza mai superare una velocità di crociera di 60-70 chilometri orari, pure sulla Milano Laghi dove c’era un po’ di movimento e dalle auto che li sorpassavano giungevano sguardi incuriositi, approdarono sul lungolago di Arona. Nel bagagliaio vi erano due valigie nelle quali avevano cacciato cose in abbondanza e per ogni evenienza, come se non avessero le idee chiare sulla data del ritorno.
Durante il tragitto l’uomo si era a poco a poco rilassato e la tensione per la guida alla quale in quei mesi si era disabituato con sorprendente rapidità si era dissolta, lasciando il posto ad una consapevole prudenza, complice anche la sorridente e fiduciosa tranquillità della sua compagna, la quale si godeva il paesaggio ed il sottile piacere di quel transitare per luoghi mutati eppure noti, e di tanto in tanto lo sfiorava con una carezza lieve.
Superarono Meina e proseguirono verso Lesa e Belgirate, e certe belle ville con i parchi protetti da impenetrabili muri in pietra erano sempre lì, in tutta la loro consunta bellezza, uno splendore appannato eppure misteriosamente seducente. Appena fuori dall’abitato di Belgirate, dopo una leggera curva, ritrovarono l’albergo nel quale avevano trascorso i loro primi giorni da sposi: la porta di ingresso e le finestre erano però sbarrate, i muri scrostati in più punti, l’insegna dipinta sul muro ormai illeggibile, il giardinetto sotto il pergolato ridotto ad un gerbido rinselvatichito. Ristettero in silenzio per qualche istante sullo spiazzo sterrato che una volta fungeva da parcheggio, poi si allontanarono improvvisamente rattristati da un piccolo dispiacere.
Faticarono un poco a rimettersi dritti, quando decisero di fermarsi a pranzare a Stresa in un ristorante che aveva un bel dehors ombreggiato vista lago, perché la magia che in quel viaggio sentimentale nei luoghi dove era iniziata la loro vita comune aveva spolverato dallo spirito diversi decenni, non aveva avuto alcun effetto sulle articolazioni.
Milano, 1954. Erano usciti dalla fresca penombra della Chiesa di San Cristoforo nella limpida mattina di fine giugno ed erano rimasti abbagliati dalla luce vivida del sole che faceva luccicare le placide acque del Naviglio Grande. Era bella da far battere il cuore, la Mariuccia, snella come un giunco nel lungo, semplicissimo abito in raso opaco bianco confezionato dalla mamma sarta, con il pizzo macramè a sottolineare la scollatura, la calottina candida sui capelli ramati che ricadevano sulle spalle in morbide onde, le scarpette a punta in vitello bianco con un po’ di tacco, e le iridi castane sfavillanti di bagliori dorati appena sopra un sorriso che avrebbe potuto uccidere. Anche l’Attilio, alto e magro ma di spalle ampie faceva un figurone nell’abito grigio chiaro, la cravatta di una tonalità un po’ più scura sulla camicia bianca, i capelli neri domati da una discreta dose di brillantina e lo sguardo grigio più o meno come il vestito riscaldato da un’intima, incontenibile felicità. Si erano presi per mano sulla soglia di quel sagrato, e da allora avevano sempre camminato insieme.
L’amico Gianni, testimone di Attilio con la fidanzata Aldina, li aveva caricati sulla prestigiosa Aurelia prestata dal proprietario dell’autofficina dove lavorava, e seguiti dai rispettivi genitori a bordo della Bianchina del papà di Attilio e dai due giovani testimoni di Mariuccia in Lambretta, si erano avviati alla volta della Brianza, per il pranzo in una modesta trattoria.
Seduti all’ombra nel dehors dal quale si vedeva il lago piatto come una tavola i due anziani coniugi levarono i calici di prosecco in un brindisi:
“…a quell’estate del ’54, signora Mantegazza”,
“…e a tutto quello che c’è stato dopo, signor Mantegazza”.
Dopo il pranzo risalirono in macchina e proseguirono fino a Baveno. L’intenzione era quella di fermarsi in un albergo sul lungolago, ma era la settimana di ferragosto e quella riviera era più frequentata di quanto immaginassero. Dopo tre tentativi andati a vuoto, trovarono posto in un vecchio albergo con un giardino che scendeva direttamente al lago, proprio di fronte alle Isole Borromee. L’austera facciata dipinta di rosa antico e le persiane in legno grigio avrebbero meritato una più scrupolosa manutenzione, ma la camera era ampia e luminosa ed era dotata di un balcone con un tavolino e due comode sedie dal quale si godeva una magnifica vista.
“Siamo in vacanza, signora Mantegazza, proprio come una volta”,
disse l’Attilio quella sera, sorridendo alla moglie, e si impappinò per un lungo istante ad osservarne il volto nella luce dorata del tramonto che si rifletteva sulle acque del lago, appena increspate da una bava di vento. I capelli, ora candidi e corti ma sempre folti e mossi, formavano una sorta di aureola intorno all’ovale dalla linea ancora gradevole, le guance un poco incavate e molte linee sottili attorno agli occhi dalle iridi accese da mille bagliori ambrati, la carnagione che manteneva una trasparenza luminosa a dispetto di qualche spiegazzatura.
Lei gli sorrise di rimando, e per un momento al posto dell’anziano signore un poco stempiato dal franco sguardo grigio incastonato in una fitta ragnatela di rughe, vide il bel ragazzo con il quale tanti anni prima aveva incominciato un viaggio, e nessuno di loro poteva sapere quanto sarebbe durato e dove li avrebbe portati.
Fu un meraviglioso attimo fuggente nel quale si incontrarono di nuovo, giovani tutti e due, un lampo velocissimo di inafferrabile vaghezza: come il colore del cane che scappa.
Per qualche giorno si godettero il verde rigoglioso del giardino e il via vai rilassato del lungolago osservando i battelli che conducevano i turisti alle Isole e la sera a cena sfoggiarono gli abiti eleganti e un poco fuori moda che avevano stipato nelle valigie. Risalirono infine sul teutonico Maggiolino e sempre con la capote abbassata, perché il tempo si ostinava a rimaner soleggiato, sebbene le temperature fossero state mitigate da qualche temporale notturno, fecero ritorno in città.
Guidò piano e con estrema attenzione, l’Attilio, e quando arrivarono a casa era esausto, tanto che non cenò nemmeno e si coricò prestissimo e la signora Mariuccia gli si stese accanto con un libro in mano, per non lasciarlo solo con tutta quella stanchezza.
Il mattino dopo l’uomo si alzò rigenerato da un buon sonno nel suo letto, e mentre aspettava la moglie sul balcone per la colazione si sporse cercando con lo sguardo la Casa 770: era ancora lì, e i tetti della case di fronte erano ancora lì, e il suo piccolo mondo circoscritto era ancora lì, con tutto il suo contenuto di ricordi che lo rendeva vastissimo.
“Abbiamo fatto bene a fare questo viaggetto, Mariuccia” ,
“…certo che abbiamo fatto bene”,
ed entrambi tacquero trafitti dal pensiero crudele ed insopportabilmente realistico che quello era stato l’ultimo viaggio: ma fu solo un lampo, rapido e subito sbiadito, come il colore del cane che scappa.
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