Alessandro Piperno: di chi è la colpa di una vita?

Piperno di chi è la colpa

Abbiamo spesso fatto ricorso a lui, all’autore di oggi, nella sua veste di critico letterario, docente di letteratura francese e cantore di quella cosa splendida che è la narrativa, il raccontare storie, e dei suoi protagonisti più illustri.

Ricorderete forse

le sue parole su Vladimir Nabokov, che ha “attraversato la tragedia del Novecento”, e sul suo Lolita (“un tragico divertissment”) e sono davvero tanti i contributi in cui egli ci racconta, da par suo, i grandi narratori dell’Ottocento e del Novecento, con particolare predilezione per i francesi e per Marcel Proust: stiamo parlando di Alessandro Piperno (Roma, 1972), che torna alla narrativa dopo cinque anni dal suo ultimo e invero un po’ discusso romanzo, “Dove la Storia Finisce” (Mondadori, 2016).

In questa lezione del 2019, Piperno svela quanto sia stata fondamentale, per lui, la lettura del Lamento di Portnoy il romanzo del 1967 che rappresentò il punto di svolta dell’esperienza narrativa di Philip Roth, la liberazione di tutte le sue pulsioni, anche le più nascoste e indicibili.

Come vedremo a breve, il romanzo di oggi (Di Chi è La Colpa, Mondadori, pag. 434, Euro 20), ci porterà spesso a evocare personaggi rothiani, almeno nella nostra percezione; e d’altra parte, già all’epoca del suo folgorante debutto come romanziere (“Con le Peggiori Intenzioni“, Mondadori, 2005), l’autore romano fu spesso accostato al grande romanziere di Newark: l’ambientazione in famiglie di tradizioni ebraiche, l’attenzione alle complesse relazioni famigliari, ai legami parentali così difficili, il riferimento, spesso sfrontato e provocatorio, alla sfera sensuale ed erotica delle relazioni umane, lo hanno spesso fatto avvicinare (si parva licet, ovviamente) al grande americano.

Di chi è la colpa

Ma vediamo di procedere con ordine: “Di Chi è La Colpa” è un grande romanzo, un enorme e riuscito esercizio di virtuosismo letterario, sia pure nella sua struttura narrativa semplice e piana: il protagonista assoluto è l’io narrante, un uomo della nostra generazione di adolescenti negli anni Ottanta; la narrazione in prima persona fa sì che ciò che viene raccontato al momento attuale, con lui quasi sessantenne, sia filtrato dall’esperienza di esserci stati, di poter ripensare, oggi, a quello che è successo; e cosa è successo? beh, tutto quanto si possa chiedere a un romanzo sui nostri tempi: sentimenti, relazioni, separazioni, amicizie, amori, tragedie, morte.

Prima il protagonista introduce la figura del padre, un omone un po’ spiantato e sempre in cerca di un’affermazione professionale che non arriva, poi passa alla madre, una professoressa di matematica proveniente da una famiglia della comunità ebraica romana, che si sposa con un “chiuso” (cioè con una persona non circoncisa, come si dice nella tradizione ebraico-romanesca) e per questo motivo viene esclusa dalla sua famiglia.

Poi, in una sola stagione (che ci pare di poter collocare nel 1983 – anche se questo in verità ha poca importanza) succede tutto: padre, madre e figlio partecipano – dopo tanti anni senza avere rapporti – al Seder di Pesach (la cena della pasqua ebraica) presso la famiglia Sacerdoti, la famiglia di provenienza della madre. Si tratta di un punto di svolta e di un esercizio di grande virtuosismo narrativo: una cena di un paio d’ore che Piperno racconta in oltre cinquanta intense pagine in cui il narratore, il nostro ragazzo adolescente, cresciuto in un palazzone della periferia romana, scopre un mondo nuovo, l’alta borghesia altolocata, i palazzi signorili con vista su Roma, conosce lo zio, Gianni Sacerdoti, principe del Foro e professore di Diritto Penale, bon vivant dell’alta società capitolina, i cugini e gli altri componenti della famiglia.

Poi, poche settimane dopo, il nostro partirà per New York, invitato dallo zio Gianni in sostituzione di una cugina malata, avrà un flirt con la cugina Francesca, e poi tornerà e scoprirà che il padre è uscito di casa (cacciato? fuggito? non è dato sapere), è spesso ubriaco e dorme in macchina; e, poco dopo, un altro punto di svolta, una tragedia forse attesa, che avviene su un balcone, proprio come nell’ultimo libro di Teresa Ciabatti.

Alessandro Piperno

La narrazione di Piperno è intensa, articolata, opulenta, ricchissima: l’autore entra dentro nei sentimenti dell’io narrante, di cui non sappiamo nemmeno il nome; ma è lui il protagonista assoluto, ci parla di sé oggi, da signore di mezza età, ormai affermato scrittore (lo scopriamo a tre quarti del libro), ricorda la sua adolescenza e gli accadimenti che lo hanno portato lì dove è ora, a poter riflettere sulla sua vita, dopo la tragedia che ha colpito lui e i suoi genitori su quel balcone.

E’ difficile rendere l’idea di quanto ricca ed intensa sia la prosa di Piperno, ma ci pare utile provarci, perché questo è un romanzo da leggere e rileggere, per riuscire a coglierne tutti i profondi significati.

Partiamo dal padre, eccolo:

“Per un bambino è importante che il padre abbia una certa stazza: il mio era un colosso. Florido, barbuto, biondissimo, più Thor che Mangiafuoco, difficile immaginare un organismo più in salute. […] Eppure, a fronte di due spalle così, tutto in lui era placido, a cominciare dagli occhi”.

[sociallocker id=47408].[/sociallocker]La madre, Gabriella Sacerdoti, è un soggetto strano, un personaggio quasi misterioso, con un presente tutto diverso dal suo passato e un futuro in cui capiamo che la tragedia incombe: è la rampolla della famiglia, venne accolta da una zia dopo la scomparsa dei genitori (in un incendio che miracolosamente la risparmia), ma poi traligna, sposa un “cananeo”, crea scandalo e rompe i rapporti; è una donna riservata, taciturna, che deve gestire un marito inconcludente, far fronte alle cambiali e ai pignoramenti; è forse troppo trattenuta e il figlio sembra individuare in lei, nei suoi ricordi, tratti sensuali (Edipo è fra noi!):

“[siamo in gelateria] Un gesto sconsiderato, almeno per gli standard di mia madre. Non avevo ancora estratto il cucchiaino che lei aveva estratto la cialda, prima ripulendola con piccoli, studiati, tocchi di lingua, poi addentandola con sinistra voluttà, infine, in due o tre morsi, mandandola tutta giù”.

L’eco di Roth

Philip Roth, si diceva. Sarà per la nostra particolare predilezione per questo autore, ma Piperno ci pare citare, o almeno evocare, alcuni personaggi rothiani, non sappiamo (né ci interessa) quanto intenzionalmente; diversi passaggi ricordano Alexander Portnoy e la sua “reverie onanistica” (espressione usata da Piperno, questa, non da Roth):

“Ah, se è difficile spiegare a un segaiolo di oggi quanto all’epoca fosse arduo munirsi di adeguato materiale iconografico”

e ancora

“Non c’era essere di sesso femminile che non mi sentissi in diritto di spogliare con gli occhi e del quale, se non avessi temuto il castigo, non mi sarei approfittato”.

Mentre qui siamo con Markus Messner (protagonista di “Indignazione”) ed al suo celeberrimo monologo di fronte al decano Caudwell:

“Non ero disposto ad offrire all’ebraismo più chance di quante ne avrei concesse, in analoghe circostanze, al culto di Cristo, Buddha e Iside, qualora mi fossero stati proposti”.

E troviamo anche l’eco istrionica di Mickey Sabbath, in questo libro, quando il narratore, al funerale della propria madre, riesce finalmente, di fronte alla cugina Francesca, a piangere e a liberarsi, ma non senza essere preda del desiderio e del conflitto con l’eros:

“Forse questo era il meglio che potevo dare, il mio più onesto contributo alla società, l’essenza vischiosa del mio lutto: piangere a cazzo ritto”.

La narrazione di Piperno, come abbiamo già detto, è travolgente ed avvincente, come già era stata nel dittico “Il Fuoco Amico dei Ricordi” (“Persecuzione”, Mondadori, 2010 e “Inseparabili”, Mondadori, 2012), ma oggi essa ci pare ancora più sicura, matura, profonda, a tratti cinica e distincantata, forse un po’ debordante, ma capace di svolte repentine e scioccanti (che, puntualmente, finiscono in un’aula di Tribunale e “al Tg delle 20”).

E di chi è la colpa, allora? E, come il narratore si chiede nella prima pagina, “Dove sono finiti tutti?”. Anche in questo romanzo, in fondo, ritroviamo la narrazione del mistero doloroso della famiglia, delle incomprensioni, delle tragedie che esso può provocare:

“E forse era questo il guaio: le famiglie. Avevo sbagliato a lamentarmi della mia. Erano tutte uguali. Ecosistemi ermetici, ricettacoli di doppiezze irredimibili”.

Piperno ci regala questa storia del nostro tempo e della nostra generazione, la costruisce e la allarga arricchendola di particolari e di prospettive, affronta minuziosamente, di nuovo, il fluire dei ricordi ed i minimi particolari di una famiglia distrutta e dilaniata, ci parla di rinascite, bugie e sensi di colpa.

La scena madre finale

resa con un altro eccezionale virtuosismo letterario (un dialogo immaginario fra il narratore e la madre) ricostruisce il quadro, chiarisce il senso profondo di ciò che è successo, e ci dà la chiave di lettura di questo libro:

“E’ l’errore commesso dalla gran parte delle persone. Stanno tutti lì a chiedersi: di chi è la colpa? […] Mai che si dicano: forse è colpa mia. O ancora meglio: forse non è colpa di nessuno […] E’ difficile accettare il pensiero di essere i soli protagonisti della propria vita”.

Ecco, sì, la vita: in fondo è questo che racconta Alessandro Piperno: una vita.

 

p.s.: una recensione a parte la meriterebbe uno dei temi di questo libro, l’ebraismo: il senso di essere ebrei, di pensare a Israele, e di volerci tornare; il piacere di sorridere degli ebrei, di capirli, ma anche di sfotterli e di metterli alla berlina, come già fecero Philip Roth e Mordechai Richler, solo per citarne due. Ma ci sarà modo di parlarne altrove.

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Pubblicato da Leonardo Dorini

Manager, consulente, blogger. Mi occupo di finanza ed impresa, amo lo sport. Ma sono qui per l'altra mia grande passione: la letteratura.

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