Nei precedenti articoli su Keynes (qui e qui) abbiamo visto che il problema era quello di riuscire a generare una spesa sufficiente a mantenere il reddito nella configurazione di piena occupazione. Considerato che i consumi diventano man mano minori rispetto al crescente reddito e gli investimenti inelastici ai tassi, allora il punto diventa quello di trovarne un sostituto, che viene individuato nell’aumento della spesa pubblica, facendo così diventare lo Stato un soggetto economico a tutti gli effetti.
Molti commentatori hanno per questo descritto Keynes come colui che prescrisse come salvare il capitalismo da sè stesso . Ci tengo a precisare che la seguente trattazione risente anche pesantemente dei contributi di successivi economisti e teorici che si trovarono nella necessità di rendere operative le intuizioni e i suggerimenti di Keynes (Hicks, Modigliani, Kelin, Meade ecc). Per semplicità e brevità condenso il tutto sotto il termine omnicomprensivo di politica economica keynesiana, intendendo con ciò le politiche di sostegno alla domanda.
In merito, tre sono i problemi specifici che ora si pongono alla nuova politica economica di stampo keynesiano: l’ammontare della spesa pubblica richiesta, la sua composizione e il suo finanziamento.
Nei prossimi paragrafi ipotizzerò per semplicità di trovarci in un sistema chiuso agli scambi con l’estero.
SPESA PUBBLICA E MOLTIPLICATORE KEYNESIANO
È intanto immediato comprendere che la spesa pubblica deve per forza essere aggiuntiva per poter essere efficace, e per giunta essere crescente visto che la relazione fra domanda aggregata (per investimenti) e reddito si basa sulla proporzionalità diretta fra i rispettivi ritmi di crescita (si veda precedente articolo).
La teoria keynesiana ha messo in evidenza l’effetto moltiplicativo della spesa pubblica sul reddito, per cui una unità di spesa pubblica aggiuntiva produce un aumento del reddito maggiore di uno.
Qui ne darò una spiegazione concettuale. Se supponiamo di trovarci in una situazione di sottoccupazione in cui la capacità produttiva non è interamente utilizzata, allora la spesa pubblica aggiuntiva (supponiamo per costruire infrastrutture) genera un aumento diretto del PIL (perché entra direttamente nella sua equazione definitoria), e contestualmente un aumento del fatturato delle aziende coinvolte in tutta la filiera produttiva (sia quelle appaltanti e sub-, sia quelle fornitrici di mezzi e materiale); inoltre i partecipanti alla filiera spenderanno in maggiori consumi i redditi ulteriori ottenuti, così distribuendo la maggior ricchezza anche fra i produttori e distributori di tali beni di consumo.
Il processo continuerebbe, non all’infinito, causa l’andamento decrescente della propensione marginale al consumo, ma producendo nel frattempo un ciclo virtuoso di spesa-investimenti-consumi aggiuntivi.
La conclusione è che, tanto maggiore è il valore del moltiplicatore, tanto minore sarà l’aumento necessario della spesa pubblica per generare un determinato aumento di reddito. Poiché si dimostra che il moltiplicatore è pari all’inverso della quota del reddito disponibile non consumata, allora il moltiplicatore dipende direttamente dalla propensione al consumo e inversamente dal livello di tassazione (vds nota 1).
Naturalmente l’ipotesi alla base della spiegazione sopra esposta è che il sistema non sia in uno stato di pieno impiego né di piena utilizzazione della capacità produttiva, altrimenti gli unici (o prevalenti) effetti ottenibili sono per lo più sui prezzi, senza effetti reali sulla produzione.
Da questo punto di vista va quindi tenuto in adeguato conto che assai spesso la spesa pubblica non determina necessariamente un aumento di capacità produttiva. Soluzioni quali aumenti di sussidi, decontribuzioni sociali pagate in deficit, piuttosto che variazioni legislative sulle norme di ritiro dal lavoro e di erogazioni pensionistiche (in senso favorevole ai lavoratori, ovviamente) assomigliano più a consumi che a investimenti.
Tutto ciò comunque, da un punto di vista strettamente keynesiano, non comporta tuttavia differenze. Il principio del moltiplicatore funziona ugualmente, benché la sua efficacia sul breve piuttosto che sul medio-lungo termine è oggetto di dibattito.
L’ipotesi sottostante è che l’offerta aggregata sia infinitamente elastica fino alla piena occupazione e non generi tensioni inflazionistiche. Lo rivedremo meglio nel prossimo paragrafo intitolato “finanziamento della spesa pubblica”.
Il modello ISLM della Sintesi Neoclassica prevede la possibilità di uno spiazzamento degli investimenti privati ad opera della spesa pubblica (crowding out), cioè una mera sostituzione parziale dei secondi a svantaggio dei primi, che ridurrebbe così il valore del moltiplicatore, spiazzamento causato dall’aumento del tasso di interesse contestualmente alla maggiore spesa pubblica finanziata in deficit tramite emissione di titoli (se sottoscritti dal mercato). Alcuni testi riportano che la teoria ortodossa non contemplerebbe il fenomeno del crowding out, anzi la spesa pubblica, sostenendo il livello del reddito, farebbe da volano agli investimenti. A me pare che Keyenes invece lo ipotizzasse, e d’altronde basterebbe pensare al diagramma del mercato dei titoli per capire che aumentando l’offerta aumenta il tasso di interesse che -lo ricordo- è unico e equilibra contemporaneamente i mercati dei titoli e della moneta.
Faccio notare il significato del principio del moltiplicatore: esso riposa sull’assunto che l’aggiustamento al nuovo equilibrio, dopo uno shock sul livello di spesa aggregata, avvenga sulle quantità e non sia guidato da un aggiustamento (esclusivamente) dei prezzi. Questo per rimarcare una certa distanza di Keynes dai Classici.
LA COMPOSIZIONE DELLA SPESA PUBBLICA
In verità in tutta l’impostazione keynesiana tale quesito è un “non problema”: è indifferente che essa avvenga mediante opere pubbliche o sussidi, per esempio. Ancora oggi spessissimo per denigrarlo si ricorda la massima attribuitagli per cui sarebbe indifferente investire nell’istruzione piuttosto che scavare buche per terra e poi riempirle.
L’importante è che la spesa pubblica aggiuntiva stimoli una adeguata domanda addizionale, la quale metta in funzione una capacità produttiva già esistente e non utilizzata pienamente.
Ma il problema della sua efficacia sta proprio qui, anche se è diventata una questione relativamente recente nel dibattito sia accademico che fra i policymakers.
Se il problema della disoccupazione è un problema di deficienza (o non corretto utilizzo) della capacità produttiva, piuttosto che di scarsità di domanda aggregata, allora la politica keynesiana di spesa pubblica è destinata a rivelarsi potenzialmente fallace, e in tal senso il problema del suo contenuto è destinato a diventare centrale. Nel senso che diventerebbe necessario distinguere spesa pubblica per investimenti (e quali in dettaglio, inoltre) dalla spesa di tipo “consumistico” (sussidi, pensioni, bonus fiscali, e altre regalie che in Italia specialmente hanno un sapore elettoral-clientelaristico).
Un esempio di capacità produttiva deficiente è il seguente: supponiamo di essere uno stato in cui l’economia, prevalentemente composta da processi manufatturieri low tech e a basso valore aggiunto, sia stagnante a causa della concorrenza di costo e prezzo di economie emergenti, e che sia difficile e lunga la conversione a tecnologie più avanzate e a processi ad alto valore aggiunto. In tal caso lo stimolo pubblico per sostenere il reddito si rivela inefficace nel sostenere la conversione (eventuali vantaggi fiscali non sono spesa pubblica keynesiana e ho un presuntuoso pregiudizio liberista che il “pubblico” non sia in grado di generare innovazione) e anzi ostacolano il riequilibrio dei salari, magari mantenendo in vita aziende decotte con la CIG (che è spesa pubblica). La spesa pubblica aiuterà senz’altro i risparmi a non crollare e i consumi (almeno nel breve) a non stagnare, ma che tali risparmi si trasformino in investimenti innovativi è un altro paio di maniche.
Si fa presto a vedere le assonanze di quanto scrivo con la situazione odierna europea dove si ripete spesso che è necessario intervenire per liberare le capacità produttive inespresse del sistema: liberalizzazioni, ricerca e sviluppo, estensione dell’ambito di applicazione delle IT, apertura ai mercati esteri e conseguente problema del dimensionamento aziendale, tanto per citarne alcune. Ci tengo a precisare che i concetti sono solo analoghi, in quanto la teoria keynesiana faceva riferimento ad una capacità produttiva GIÀ esistente e sottoutilizzata, mentre in Europa si parla (anche) di capacità inespresse e potenziali, per le quali le uniche politiche possibili sono quelle della offerta e in particolar modo di incremento della produttività per mutuare il linguaggio della Real Business Cycle Theory.
Un illuminante e recentissimo esempio di spesa pubblica spinta ma rivelatasi improduttiva nel lungo periodo è il caso cinese: da qualche anno molti siti di divulgazione economica puntano il dito contro le “cattedrali nel deserto” fatte di città fantasma, fabbriche mai inaugurate o attivate a metà regime, infrastrutture verso il nulla e cumuli di materiale a corrodersi nei porti. L’effetto moltiplicativo a breve termine è stato visibilissimo dalle statistiche, ma più oscuro appare oggi il contributo al PIL, che infatti rallenta pur in presenza di continue iniezioni di spesa (appunto per il meccanismo di saturazione descritto nella teoria keynesiana del ciclo), mentre il paese va a braccetto con un debito pubblico e privato crescente. E con ciò arriviamo all’ultimo problema.
FINANZIAMENTO DELLA SPESA PUBBLICA
Se la spesa pubblica addizionale venisse finanziata tramite maggiore tassazione (per garantire il pareggio di bilancio, condizione cara a Europa e agli economisti classici), diventa chiaro che l’effetto complessivo sul reddito tende a diminuire o annullarsi, perché diminuirebbe il moltiplicatore keynesiano (causa della maggiore aliquota fiscale).
È per questo che la politica economica keynesiana predilige la spesa pubblica in deficit speding,. (vds nota 2).
Il pareggio, o l’avanzo, di bilancio vengono visti dai sostenitori keynesiani come errori di policy se applicati in fasi di disoccupazione e contrazione economica, mentre sono neutrali in fasi di piena occupazione.
Nè per i keynesiani ci sono pericoli di un’eventuale inflazione, neppure qualora collegata alla maggiore spesa in disavanzo, proprio a causa della suddetta ipotesi di sottoccupazione e sottoutilizzo della capacità produttiva. Queste infatti sarebbero in grado di assorbire ogni aumento della domanda.
In altri termini si sosteneva che l’economia reale avrebbe assorbito ogni aumento di domanda senza generare spinte inflazionistiche fintanto che fosse rimasta “sotto il potenziale di crescita”, che poi è lo stesso quesito del precedente paragrafo (il sottoutilizzo della capacità produttiva). In termini tecnici, il moltiplicatore keynesiano della spesa pubblica si fonda sull’ipotesi che l’offerta aggregata fosse infinitamente elastica prima della piena occupazione, e cioè si verificasse una situazione del genere in figura.
Tuttavia, strozzature settoriali e rigidità dei fattori hanno distrutto tale ipotesi, rendendo necessario riconsiderare il fenomeno inflazionistico collaterale alla spesa pubblica.
In chiusura, dopo aver esposto il pensiero keyesiano, mi sembra più “abbordabile”il tentativo di spiegare il titolo della sua opera principale: Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta.
Per Keynes la sottolineatura sta nell’aggettivo “generale”, in quanto secondo lui la propria teoria rappresentava più correttamente la realtà, rispetto alla teoria classica che ne è invece un caso particolare se si assumessero alcune ipotesi peraltro restrittive.
Vediamo perché: per gli economisti classici, risparmi e investimenti sono entrambi funzioni del tasso di interesse, e la moneta serve esclusivamente per le transazioni e non ha rapporti con i tassi, e influenza esclusivamente il livello dei prezzi assoluti. É perciò determinabile, dall’incontro di risparmio e investimenti, il livello del tasso che li eguaglia. Inoltre per l’ipotesi di informazioni complete e perfette, si ottiene sempre una configurazione di piena occupazione di tutti i fattori, al livello dei tassi determinato dal sistema risparmio-investimenti, livello che garantisce peraltro l’equilibrio corrente e l’equilibrio intertemporale: ciascun soggetto cioè, in base alle informazioni perfette e complete che ha, determina oggi il set di capitale, lavoro, consumi eccetera odierni e futuri tali da massimizzare l’utilità di ciascuno.
In termini tecnici, per i classici, il tasso di interesse coincide con l’efficenza marginale del capitale e con il saggio di preferenza temporale.
Keynes invece disconosce che il risparmio sia funzione del tasso di interesse, e stressa bensì la sua relazione con il reddito. Non è perciò possibile mettere a sistema direttamente investimenti e risparmi (pertanto non è coerente al sistema keynesiano un “tasso reale naturale” alla Wicksell), mentre evidenzia la relazione fra moneta (speculativa) e tassi. Inoltre, in base alla assunzioni da lui fatte (insieme con il rigetto della concorrenza perfetta e delle informazioni perfette e complete), si dimostra che il livello di piena occupazione è raggiungibile solo qualora si susciti un adeguato livello di domanda privata che lo supporti, cosa non facile.
In altri termini, il livello di piena occupazione è solo uno dei possibili livelli di equilibrio della domanda a cui il sistema economico si può assestare. Questo significa che il tasso di interesse, che si forma sul mercato della moneta, non garantisce che risparmi e investimenti coincidano, quindi non garantisce il pieno impiego, e quindi (dovessero pure per qualche motivo coincidere tasso monetario e efficienza del capitale) non garantirebbe in ogni caso che esso coincida con il saggio di preferenza temporale.
L’unico modo perché ciò avvenga è di tornare alle ipotesi classiche, che però Keynes ritiene casi particolarissimi e restrittivi rispetto ai suoi (concorrenza e informazioni entrambe perfette e prezzi flessibili).
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(nota 1) Keynes nel cap.X della Teoria introdusse il moltiplicatore degli investimenti. In ogni caso il significato e il valore algebrico del moltiplicatore sono esattamente identici. Ci tengo a precisare che quanto scritto considera un sistema chiuso agli scambi con l’estero: nel momento che li introdurremmo, nell’articolo del modello keynesiano in economia aperta, vedremo che il valore del moltiplicatore sarà inferiore a quello in economia chiusa. Questo dipende dal fatto che parte del reddito prodotto verrà consumato in importazioni di beni dall’estero (infatti al denominatore del moltiplicatore comparirà il tasso di cambio e la propensione alle importazioni).
(nota 2) In merito vale sottolineare come la pratica keynesiana successiva al suo fondatore abbia abbandonato la politica monetaria giudicandola irrilevante: il motivo è ovvio se si considera che l’impianto keynesiano si basa essenzialmente sulla trappola della liquidità che di fatto ostacola l’effetto espansivo dell’offerta di moneta. In secondo luogo i keynesiani consideravano instabile tanto la domanda di moneta quanto la sua velocità di circolazione, considerandole troppo imprevedibili per potersi razionalmente basare su un intervento monetario. Nulla tuttavia impediva, in linea di principio la sottoscrizione di debito pubblico tramite la banca Centrale.
Una risposta ad un lettore qui ha spunti interessanti per quanto trattato in questo articolo.