Le dichiarazioni dei banchieri sui requisiti di capitale sono per me la letteratura del grotesque preferita. La tiritera che ci viene propinata è sempre la stessa, dal 2009 ad oggi: regole eccessive di capitale comprometterebbero l’economia reale perchè costringerebbero le banche ad un assorbimento di capitale che rimarrebbe lì ozioso senza entrare nel circuito del credito a beneficio di imprese e famiglie.
In passato abbiamo avuto campioni mondiali di lancio di tiritera, non solo CEOs di importanti banche multinazionali, ma addirittura un ex (sfingeo) presidente Fed si espresse in termini analoghi. Ultimi in ordine di apparizione sono il presidente ABI, il presidente EBA, l’Institute for International Finance (una associazione di ricerca sponsorizzata dalle banche di tutto il mondo), il CEO di BancaIfis e il Parlamento Europeo, che a questi punti va enumerato fra le lobby bancarie.
Naturalmente la tiritera non è semplicemente sbagliata, è proprio consapevolmente fuordeviante. Tutto ruota attorno al (voluto?) fraintendimento della parola “capitale bancario”, che viene trattato come se fosse una riserva di liquidità, cioè disponibilità delle banche che però non può essere mossa dai forzieri. Tale conclusione non esiste nelle regole sul capitale contenute negli accordi di Basilea.
Il capitale in generale è un finanziamento, anzi il finanziamento per eccellenza, quello che ne costituisce le fondamenta e può aiutarla a crescere. Nulla impedisce alle banche di avere più capitale e quindi di immettere quella liquidità in più all’interno del circuito del credito.
Il grido di dolore lanciato da questi personaggi è non solo ipocrita ma anche irritante. È noto che fu proprio l’eccessivo leverage bancario una delle cause della crisi che colpì il sistema fin dal 2007. Nell’audizione davanti alla Commissione USA di inchiesta nel 2010 diversi CEOs lo ammisero candidamente.
Le banche sono con ogni probabilità le aziende che ricorrono in misura maggiore al debito per finanziarsi, il che è ironico considerando l’attenzione che invece rivolgono alla capitalizzazione delle PMI loro clienti quando devono valutarne il merito di credito. IMF calcolò che prima della crisi moltissime banche in tutto il mondo avevano debiti oltre il 96% del proprio attivo, quindi un equity del 4% e un leverage astronomico.
La leva finanziaria è un ottimo investimento per i managers bancari: permette di incrementare i risultati in termini di ROE (il rendimento dell’equity, cioè quanto rende il capitale messo) senza chiedere che gli azionisti ne mettano tanto, anzi ne basta una spruzzatina. I rischi sono tutti in capo ai creditori della banca: altre banche, in un pericolosissimo effetto domino, gli obbligazionisti, i depositanti.
Il problema è che il ricorso (eccessivo) al leverage e ad altri strumenti di ingegneria finanziaria per coprire la banca dai rischi (per esempio la cartolarizzazione degli attivi, che ha generato i mutui subprime), incentiva l’azzardo morale, cioè il venir meno della necessaria attenzione e cura nella analisi, erogazione e gestione del credito. Non per nulla stiamo a livello mondiale affogando nei cosidetti non performing loans, crediti deterioratisi per l’inadeguata valutazione dei rischi.
L’azzardo morale è ancor più incentivato se a salvare tali campioni di efficenza deve intervenire lo Stato a spese dei contribuenti, i quali magari sono gli stessi depositanti retail a cui sono stati venduti prodotti complessi, talvolta aggirando o manipolando gli strumenti a tutela del risparmiatore (per esempio il regolamento MIFID che prevede la profilazione delle conoscenze finanziarie e della propensione al rischio del cliente).
La verità è che aumentare il capitale non è senza costi impliciti per il banchiere e i suoi azionisti, ma non della natura che loro, e i loro burattini, vorrebbero farci credere: tutti sanno che possedere una banca dà potere, e nessuno vuole vederselo diluito dall’ingresso di altri soci; e nessuno sarebbe disposto a mettere altro denaro se dubitasse della effettiva redditività dell’affare. Questo è il punto cruciale: se sai che potrai mangiarti la gallina domani, rinunci volentieri all’uovo oggi. Ma forse sono i CEOs e gli azionisti stessi i primi a non credere alla redditività della propria banca.
Il problema è – e rimarrà, avanti di questo passo – il modello del business bancario, che è vecchio, ipersindacalizzato e non più efficente rispetto ai progressi di tecnologia e alle competenze richieste. Quando i banchieri si lamentano con la loro tiritera, sembra che vogliano dirci che è infantile sperare che si possa avere crescita sostenibile e stabilità finanziaria. Bell’affare se dovessimo credere a questi omini di burro: già, proprio come quello della favola di Collodi, che portava Pinocchio e Lucignolo in carrozza al paese dei balocchi e, qualche mese di bagatelle dopo, li andava a prendere trasformatisi ormai in asini per rivenderli al mercato a spese zero.
BASILEA
Le regole di Basilea, imponendo requisiti minimi di capitale ponderato per il rischio (in termini tecnici, RWA), hanno tentato di rimediare a questo deludente stato delle cose, ma senza grande successo finora. Il fatto è che molto dipende dal peso associato a ciascun impiego (affidamento bancario) in base al rating di controparte: i sistemi sviluppati autonomamemte all’interno delle banche più strutturate sono stati spesso oggetto di critica da parte degli Enti Regolatori, e verranno nel prossimo anno modificati “a tappeto”; quelli esterni sono nel migliore dei casi poco attenti al vero rischio di controparte, e fanno “di tutta l’erba un fascio”. Dico ciò perchè conscio che il compito bancario di intermediazione del denaro e valutazione del merito di credito non sono problemi modesti, anzi si tratta di impegni difficili che richiedono conoscenze specifiche e molta esperienza.
E così anche il valore delle garanzie influenza l’RWA, però necessiterebbe a sua volta di una manutenzione importante nel momento che la crisi aumenta il numero di immobili sequestrati da portare in asta diminuendone il valore, oppure inonda il mercato di NPLs diminuendone la probabilità di recupero. Chi ha memoria lunga si ricorderà che quest’ultimo ad un certo punto è sembrato lo scoglio su cui – senza un nulla osta salvifico della BCE e dell’EBA – si sarebbe arenato la prima bozza di salvataggio di Monte dei Paschi.[sociallocker].[/sociallocker]
Ma anche se il concetto di capitale ponderato per il rischio è formalmente corretto (accumulo capitale in funzione del rischio “effettivo” che io banca mi prendo sui miei clienti), tuttavia si è dimostrato insufficiente. Le ponderazioni sono basse, e il livello del capitale non è, in termini percentuali sul totale dell’attivo, cresciuto significativamente, perciò basta un errore nella valutazione dei rischi, incentivato dal moral hazard che dicevamo prima, per mangiarsi una rilevante fetta dell’equity. O annichilirlo.
Per questo Basilea ha previsto che dal 2018 si associ a questa regola di capitale anche una sull’entità del leverage e un’altra sulla liquidità (o per meglio dire, sulla disponibilità minima di assets facilmente e velocemente liquidabili e di canali “di emergenza” per il funding in caso di problemi di liquidità e/o di bank run, corsa agli sportelli).
A chi obietta che quest’ultimo criterio è effettivamente un assorbimento di liquidità come denunciano i banchieri, ricordo solo l’imponente ammontare di investimenti in titoli di Stato che da anni fanno le banche europee, contando su un RWA pari a zero, a scapito del credito: quindi dove starebbe l’ulteriore assorbimento paventato dai nostri campioni?
Il problema semmai è di natura diversa, cioè la frammentazione dei mercati dei capitali, in cui ciascuna banca si è ripiegata esclusivamente sul debito pubblico del proprio paese esponendosi pesantemente al suo rischio emittente.
E in tempi in cui si parla di estendere le ponderazioni per il rischio anche ai titoli di debito pubblico detenuti, ovviamente la faccenda diventa pelosa. Il “danno” che i banchieri denunciano è solo quello che ci viene imposto dalla loro incapacità di diversificare il rischio.
Sono questi ultimi due criteri le vere spine nel fianco dei banchieri oggi, perchè riducono i margini del loro giochetto azzardato e dei loro impieghi rischiosi, e spiegano la potente attività di lobbying che si sta facendo.
La nomina di Trump, trainata dal dilagante populismo, da questo punto di vista potrebbe rivelarsi un boomerang per il “popolo”, specie quando leggo che fra i papabili al ministero del Tesoro c’è J. Dimon, un altro campione di lobby bancaria, e l’abolizione della legge Dodd-Franck.
Sicuri di voler montare sulla carrozza per il Paese dei Balocchi?