Nel bollettino semestrale del Fondo Monetario Internazionale intitolato “Debito: usare con saggezza” viene evidenziato con decisione come il malcontento politico che si esprime attraverso istanze populiste sia fonte di preoccupazione. La tesi del FMI è che le politiche protezioniste mettano a rischio la crescita globale.
I movimenti populisti, che effettivamente stanno accrescendo la loro base di consensi, sono tipicamente trasversali, non identificandosi in maniera univoca né con la destra né con la sinistra, animati da un forte scetticismo verso le ricette economiche tradizionali e orientati a proporre soluzioni semplici e radicali a problemi complessi e stratificati.
La linfa di cui si nutre il populismo è innanzitutto la crescente disuguaglianza: per misurarla nei singoli paesi può essere utile utilizzare il Palma ratio, un coefficiente che prende il nome dall’economista cileno Jose Gabriel Palma e che misura il rapporto tra la ricchezza del 10% della popolazione più ricca e quella del 40% più povero. Le statistiche tenute dall’OCSE mettono facilmente in luce come i paesi che hanno un coefficiente di Palma più elevato sono anche quelli in cui il consenso raccolto dai movimenti populisti è più elevato.
Tuttavia sebbene globalmente i movimenti populisti stiano crescendo, le disuguaglianze -riprendendo un’osservazione fatta da Bill Gates– su scala planetaria si sono in realtà ristrette negli ultimi trent’anni (qui un approfondimento su elephant curve).
Sono semmai, nello stesso periodo, cresciute le disuguaglianze interne ai singoli paesi. L’apertura dei mercati e l’abbattimento delle barriere per la libera circolazione di persone, beni e servizi ha quindi spostato ricchezza dalla classe media occidentale verso i cosiddetti Paesi emergenti. Non è quindi un caso se i movimenti populisti elevano ad emblema della loro lotta la sovranità nazionale: il ripristino di confini più rigidi costituisce la loro cura per un’emorragia di benessere che diversamente non sanno come arrestare.
Quello che ad un primo sguardo sfugge è che il principale motore dell’aumento delle disuguaglianze interne dei singoli paesi non è stata la globalizzazione, ma le politiche monetarie.