È passato parecchio dal mio ultimo articolo sulla Brexit, non tanto per la pausa estiva quanto perchè confidavo che il governo di Theresa May ci avrebbe stupito con idee e proposte utili a dipanare l’intricata matassa dell’incertezza legalistico-economica del post referendum.
La mia attesa è stata delusa grandemente, e lo stato dell’arte si può ben sintetizzare in questo screenshot dalla pagina delle pubblicazioni del neonato Dipartimento per la Brexit:
Tolto il primo che è l’organigramma del dipartimento, il secondo file consiste in 3 pagine redatte da un altro dipartimento contenente spiegazioni su come funzionano i fondi europei. Notasi le date di pubblicazione.
Il Governo ha prodotto pochissimi o nulli fatti e molti annunci, quasi tutti vaghi e lacunosi, come quello di Davies di fronte al Parlamento il 5 settembre, e non sorprende (benché deluda) l’annuncio della May al Parlamento secondo cui non vi saranno informative periodiche sullo stato avanzamento Brexit.
Alla faccia della democrazia trasparente.
Un paio di annunci relativi alla posizione dell’Irlanda del Nord (NI) nel dopo Brexit sono addirittura in aperta contraddizione con quanto il precedente Segretario di Stato per gli Affari Esteri aveva presentato in un lavoro preparatorio di febbraio 2016. Il problema riguarda il confine fra Irlanda del Nord (inglese) e l’Irlanda (paese UE).
Ancor prima che la UE esistesse, era in vigore un trattato di libera circolazione, che significava confine aperto e libertà di movimento, un beneficio molto sentito dagli irlandesi costretti a vivere in una terra natia divisa, una libertà che era stata ridotta solo ai tempi dei Troubles, la guerra terroristica fra IRA e Gran Bretagna.
I Brexiters sostengono che l’esistenza di questo accordo previgente alla UE di fatto è una rassicurazione per gli irlandesi (molti lavorano in NI o vi hanno parenti, e in ogni caso c’è molto commercio cross border). Peccato che ignorino che all’epoca l’Irlanda non garantiva la libera circolazione di persone e merci. Benché l’Irlanda non faccia parte dell’area Schengen, tuttavia ai cittadini europei è concessa amplissima libertà di movimento e di residenza e lavoro nel territorio, e un confine aperto con la UK favorirebbe la tanto detestata immigrazione europea (non solo di persone ma anche di merci), questa volta pure illegale.
Sembra ovvio che una forma di controlli di confine verrà riattivata, specie se la UK non vorrà scendere a patti sulla libertà di movimento dei cittadini EU.
Il caso di Gibilterra è ancor più delicato anche se poco se ne parla. L’immagine sotto dice tutto.
Stesso destino di promessa da marinaio sembra che dovrà subirlo la garanzia sullo status dei cittadini UE residenti in Inghilterra pubblicato dal Governo all’indomani del referendum. Molti esperti legali , scrive The Guardian, sostengono che l’attuale incertezza sugli obiettivi del Governo e i tempi per approntare l’iter, rendono scarsamente probabile che i diritti rimarranno tali in futuro.
La mia opinione in merito è se possibile anche peggiore: i cittadini UE residenti nella UK verranno usati come merce di scambio (bargaining chips) per ottenere qualcosa da Bruxelles, con l’ovvia conseguenza che per ritorsione lo stesso accadrà agli inglesi sul territorio europeo.
Quando si inizia una guerra, anche telefonica, bisogna sapere chi e cosa si sta combattendo. Gli inglesi finora hanno dato l’impressione di ignorarlo e nella dichiarazione bellica rischia di entrare tutto e tutti.
Lo status delle persone è e temo sarà un fertile terreno di scontro e di compromessi.
Quel che è peggio, Allen Green, avvocato inglese, ha portato dal suo ultimo viaggio a Bruxelles l’impressione che anche i burocrati europei abbiano le idee vaghe e confuse[sociallocker].[/sociallocker]
Deve essere per questo che metà delle statue di recente installazione di fronte al Parlamento Europeo raffigurano struzzi con la testa infilata nella sabbia…
Di recente alcuni dati buoni relativi a produzione industriale, fiducia, vendite al dettaglio e l’andamento della Borsa, hanno fatto alzare la cresta a molti sostenitori della Brexit, domestici e europei, sfociati nella accusa rivolta dagli onorevoli al governatore Carney di aver ecceduto in zelo nel tagliare i tassi, e che la Brexit non ha urtato l’economia.
Magari Carney ha veramente ecceduto, ma i Brexiters continuano a dimenticare che la sterlina viaggia da due mesi lateralmente rispetto al minimo toccato post referendum, che in un paese dipendente dall’import significa importare inflazione da produzione, specie in vista degli aumenti (seppur timidi) del costo del petrolio.
La produzione industriale cresce, ma soffre quella manifatturiera, e i prezzi del mercato immobiliare residenziale calano da due mesi ininterrottamente. Anche gli investimenti in infrastrutture hanno subito a luglio un crollo drastico. Inoltre, come fa implicitamente notare Daniel-Gros su Project Syndacate il manifatturiero inglese soffre di una progressiva decadenza dalla metà degli anni 90, perciò una apertura libertaria del commercio estero come vorrebbero i Leavers, lo lascerebbe del tutto in balia alla concorrenza di prezzo e prodotto dei mercati emergenti.
Quello che fa ridere è che lo stesso ministro Liam Fox, leaver della prima ora, se ne deve essere accorto, e in un accesso di rabbia ha additato i produttori inglesi come “idioti senza palle“, lamentandosi che è inutile che lui si dia da fare per portare la Grande Inghilterra sui mercati internazionali se poi non ci sono esportatori inglesi che ne prendano possesso.
Povero Liam.
Continua a far discutere il destino della City di Londra, enorme hub finanziario che godendo del “passaporto” garantito alle banche con residenza a Londra, è da decenni la testa di ponte delle banche internazionali che vogliono fare affari nella UE. Anche se il riserbo è massimo nell’ambiente, pare che molte si stiano muovendo per spostare uffici e personale, anche se si sta presentando il problema di dove andare, specialmente perchè in giro manca fisicamente lo spazio per spostarvi migliaia di persone.
La mia opinione sul settore finanziario è mutata da luglio, quando ho preso in mano la direttiva europea MIFID 2. Essa regola la modalità con cui i servizi fonanziari vengono prestati nell’Unione, e entrerà in vigore nel 2018. Fra le altre cose la normativa, che a Londra è ancora in fase di ricezione, prevede che il “passaporto finanziario” venga concesso anche a paesi terzi esterni alla UE qualora vi sia una sostanziale “equivalenza” nelle legislazioni finanziarie.
Non c’è dubbio che tale equivalenza esiste con Londra, e quindi i tempi con cui un la Brexit si abbatterebbe sulla City si allungano indefinitamente. Naturalmente le direttive cambiano, ma non frequentemente, e Londra una volta fuori non avrebbe parola da mettere sul processo di modifica delle leggi europee, e sarebbe costretta a stare al traino.
Ma la catastrofe paventata sul settore finanziario non è imminente, nè a breve, specie se si nota che alcuni osservatori sostengono che l’articolo 50 opportunisticamente non verrà attivato prima di settembre 2017, data delle elezioni tedesche.
Questa mia opinione non è condivisa da tutti: il bravo e influente Nicolas Veron scrive su Bruegel che la Brexit impatterá sulla City con un’enfasi maggiore di quanto io pensi, anche se Veron riconosce esistere il dubbio della ‘equivalenza finanziaria’.
Ma resto della mia nuova idea che per smantellare un centro finanziario mondiale servono moooolti anni.
Infine, una delle cose più curiose, e gravide di potenziali conseguenze, è la notizia secondo cui alcuni economisti ritengono possibile per la Scozia adottare una criptovaluta, tipo Bitcoin, per sganciarsi dalla UK e approdare dolcemente verso la UE.
Se i nostri connazionali populistico-noeuro sapessero leggere e capire quell’articolo ne farebbero subito una bandiera.
Sì, ma per disintegrare l’Unione Europea.