Gli analisti più acuti sostengono da tempo che il vero G2 risiede nell’accoppiamento tra la Cina e le multinazionali, tra le immense capacità produttive del paese e i profitti delle aziende. Le corporation, è noto, seguono i propri interessi, che spesso divergono da quelli del paese da cui provengono. Il loro potere è troppo forte per essere contrastato; la Cina è un magnete così potente da non offrire alternative. Lo stesso tipo di esame è coerente con gli investimenti cinesi all’estero. È l’interesse a motivarli: aziende e stati hanno bisogno di liquidità, che abbonda in Cina.
Pechino ha bisogno di tecnologia, materie prime, visibilità internazionale. Per svilupparle ha bisogno di tempo e competenze: entrambe sono merce rara. Preferisce accaparrarseli dove siano disponibili, dove le sue riserve valicano ogni confine.
Se tutto ciò è incontrovertibile, lo sbarco di capitali cinesi sui campi di calcio italiani è solo una questione di tempo. Le squadre italiane hanno molto da vendere. Son appetibili il marchio, la visibilità (anche televisiva) internazionale, il palmarès di vittorie, l’entusiasmo che il calcio è in grado di suscitare, sia in Italia che all’estero. La Cina non è ancora capace di produrre national champions, come peraltro spesso le succede in molti settori industriali. Ha abbandonato l’arretratezza del terzo mondo, ma non per il calcio. Può ingaggiare professionisti stranieri a fine carriera, può spingere sull’orgoglio nazionale, ma la magia dello sport le è estranea. Secoli di disciplina hanno limitato la tecnica, l’impegno prevale sempre sul divertimento.
Se si vuol fare business con il calcio, meglio avventurarsi all’estero, dove la tradizione è forte, ma i bisogni sono ora un ostacolo. L’Italia appare la meta ideale. Le società italiane sono piene di debiti. Non riescono a costruire gli stadi e sopravvivono con i diritti televisivi. Avrebbero bisogno di risorse, di marketing, di promozione, tutti aspetti che passano in secondo piano dietro la conservazione e l’incompetenza. Il fascino della Premier League è lontano, l’organizzazione della Bundesliga è inarrivabile, la tecnica della Liga spagnola un miraggio. Rimane la sopravvivenza, il declino inevitabile, fino a quando non arriveranno capitali freschi. Quelli cinesi potrebbero sposarsi in Italia, perché non solo interessi ma anche modalità coincidono. Senza parafrasi, il calcio italiano è non solo povero ma anche malato di etica. Gli scandali sono innumerevoli, quelli che emergono sono la punta dell’iceberg. Si gioca in stadi vecchi; l’ordine pubblico è sempre a rischio, i campioni vanno all’estero, i club e la Nazionale non vincono più nulla.
La dirigenza naviga tra la difesa dei propri privilegi e l’incapacità di colpire l’illegalità. Sembra che quest’ultima debba sempre prevalere. Si scoprono pagamenti in nero, capricci dei calciatori, tangenti dei procuratori, corruzione arbitrale, arroganza dei presidenti. E se fosse proprio questo il campo di una futura collaborazione, di un nuovo matrimonio di interessi? I capitali cinesi sono spesso spregiudicati, talvolta poco inclini all’etica, capaci di interpretare la passione come un business, in grado di depositare i soldi in casseforti inespugnabili, magari in Svizzera. Cosa c’è di diverso dai manager, per le squadre del Bel Paese? Poco o nulla. Per le squadre italiane cambierebbe solo la proprietà, non la conduzione.