Se non fosse tradizionale, il silenzio della Cina sulla Crimea sarebbe fragoroso. Ancora una volta, Pechino sceglie un profilo bassissimo. Non solo non interviene con il suo peso, ma quando fa sentire la sua voce, lascia soltanto tracce di ambiguità e disimpegno.
«Noi speriamo che la vicenda della Crimea sia gestita il più presto possibile con appropriatezza e risolta con il dialogo politico, con il rispetto delle preoccupazioni ragionevoli e i legittimi diritti delle parti coinvolte»
A seconda delle interpretazioni, può essere contemporaneamente una dichiarazione saggia, prudente, inutile, ipocrita, pilatesca.
La Cina costantemente sfugge al suo ruolo, rifugiandosi dietro alle sue classiche parole d’ordine: inviolabilità delle frontiere, nessuna interferenza, soluzione dei problemi attraverso la via diplomatica. È una scelta defilata, incoerente con le dimensioni e l’ascesa del paese. Pechino non vuole schierarsi, anche se di fatto inclina la sua posizione verso Mosca.
Le relazioni tra i due giganti sono eccellenti dal punto di vista economico, simbolizzate dai flussi di petrolio siberiano che riforniscono la ”fabbrica del mondo”. Inoltre, trovano importanti convergenze politiche, soprattutto in chiave anti-occidentale. Alle Nazioni Unite la Cina si è astenuta sulla condanna di Mosca per il referendum, sapendo che il veto russo l’avrebbe comunque bloccata. Inoltre, «le relazioni russo-cinesi registrano il miglior periodo nella storia», ha affermato il ministro degli esteri Wang Yi questo mese davanti al parlamento di Pechino. In coerenza, Il quotidiano del Popolo, l’organo del Pcc titolava:
«È 11 miliardi di euro il prezzo del sostegno dell’Ue all’Ucraina»
Tuttavia, questa volta la posizione cinese potrebbe condurre ad approdi nuovi e pericolosi. Se si allineasse con la Russia, metterebbe in discussione due capisaldi immutabili della sua scarna politica estera: l’integrità territoriale e la non interferenza negli affari interni di un paese. Mosca ha palesemente violato entrambi, anche se, dal suo punto di vista, con buone ragioni. Per Pechino non esistono mai motivi sufficientemente validi per mettere in discussione questi dogmi. Cosa succederebbe se il concetto di autodeterminazione dei popoli, dopo la Crimea si applicasse nel Tibet, nel Xinjiang, addirittura a Taiwan? È immaginabile un aiuto da una Bruxelles asiatica per un territorio che si vuole staccare dalla Cina? Non si può ipotizzare, Pechino stroncherebbe sul nascere ogni pericolo: il separatismo è pericoloso, inammissibile, non negoziabile.
Per la Cina, la vicenda ucraina dimostra che la cornice del passato è sempre più stretta. Il disinteresse è meno praticabile, la differenza tra forza politica e ruolo attivo non è più facilmente conservabile. Progressivamente dovrà assumere maggiori responsabilità, anche se la sua storia fissa nella Grande Muraglia il confine invalicabile nei due sensi, dove proteggersi e oltre il quale non è opportuno avventurarsi. La contraddizione ormai patente è che, quando si è cresciuti, non ci si può più nascondere.
articolo pubblicato anche sul quotidiano “Europa“

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