Cina: l’alimentazione come cavallo di Troia

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Si può acquistare una bistecca di maiale in Virginia e venderla dopo 7 mesi ad Hong Kong a un prezzo notevolmente maggiorato? Sì, se il prodotto è stato ben surgelato, è ancora appetibile dopo il trasporto, integro per passare i controlli e soprattutto se ci sono acquirenti o controllori che danno fiducia alla confezione. Queste ultime 2 categorie hanno voltato le spalle al prodotto e hanno decretato il fallimento dell’IPO (initial public offer) del WH Group presso la Borsa di Hong Kong. Registrata nelle Isole Cayman, l’azienda aveva annunciato l’imminente quotazione nell’ex colonia, per poi ritirare l’IPO a causa di “deteriorating market conditions”. Non ha visto la luce l’attesissima offerta, che si annunciava una delle più grandi della storia. In realtà il prezzo delle azioni era troppo alto per le valutazioni degli investitori. Qualcosa è andato storto, contro i piani delle 29 banche che avevano strutturato l’offerta e prima ancora il leverage buy out che aveva reso famoso l’acquisto dell’asset più pregiato del gruppo: la prestigiosa Smithfiled, fondata nel 1936 e ancora oggi la più grande azienda statunitense per la lavorazione della carne di maiale. WH è una società nuova che aveva acquistato in precedenza la cinese Shuanghui, al vertice nel paese che conta i più estesi allevamenti al mondo. Dopo essersi privatizzata, l’azienda è diventata una holding internazionale e ha poi acquisito la Smithfield, nella più onerosa operazione di investimento cinese negli Usa. In realtà la nazionalità dell’operazione non è univoca. In effetti, si rilevano capitali da Goldman Sachs, Temasek (il fondo sovrano di Singapore) il fondo cinese CDH e altri nomi importanti tra gli investitori internazionali. È questa una situazione classica della finanza globalizzata, dove lo spostamento di capitali è così agevole da non richiedere eccessive indagini sul loro passaporto. Ciò che sorprende invece – dopo la ricostruzione dei fatti – è la permanenza di questi investitori, che non sono ovviamente inesperti, nella compagine che è andata incontro a questo eclatante fallimento a Hong Kong.

I segnali forti – anche al di là di quelli captati dagli esperti non mancavano. Prima dell’IPO il management della WH – in mani cinesi – si era assegnata un bonus di 600 milioni di dollari, una liberalità imprevista e inedita. Inoltre il piano di sviluppo non appariva promettente, almeno non così specializzato come l’integrazione di colossi industriali avrebbe richiesto. Infine i debiti dell’azienda erano considerati eccessivi (stimabili addirittura in 7 miliardi di Usd). Se ne erano accorti gli investitori più potenti, i cornerstone che tradizionalmente acquistano a condizioni migliori i primi blocchi di azioni, attratti da un prezzo più basso. I venditori ne traggono comunque vantaggio perché possono vantare ai clienti futuri nell’IPO la sottoscrizione di investitori qualificati: un segnale diretto di fiducia nell’operazione. Questa volta non si è presentato nessun cornerstone investor e i risultati sono stati di conseguenza negativi. Eppure tutti gli azionisti hanno proseguito nel lanciare l’IPO o non sono riusciti a convincere il management di WH ad avere un atteggiamento meno aggressivo sul mercato. Ritornano prepotenti i dubbi che sempre avvolgono queste operazioni. Forse non si riesce a contraddire chi è troppo potente, probabilmente si ha paura delle ritorsioni, di perdere opportunità di business. Gli stessi dirigenti aziendali possono comportarsi in maniera acquiescente per le loro stesse carriere. Questa volta il mercato è stato severo e potrebbe non essere estranea una valutazione politica. Il bonus milionario pre-IPO è oggettivamente antagonista alla battaglia di Xi Jin Ping contro le disparità di reddito. Il suo tentativo contro l’ineguaglianza, l’opacità dei redditi e perfino la corruzione non può trovare ostacoli così evidenti. Inoltre, la privatizzazione della Shuanghui è avvenuta nel 2006, cioè nella precedente gestione del PCC e può facilmente essere ricondotta a una fase diversa, dove le lobby precedenti sono ora meno potenti. È possibile che l’avversione della dirigenza abbia preso la forma del disinteresse delle aziende di stato cinesi – ovviamente più controllate da Pechino – verso l’operazione di Hong Kong.

Un’ultima valutazione va fatta per le ripercussioni sulla Smithfiled. Il sogno di vendere carne di maiali ai più grandi consumatori di suini al mondo è rimasto tale. L’apertura del mercato cinese agli insaccati prodotti negli Stati Uniti è ancora un miraggio. Ci sono poi i debiti acquisiti della Smithfield al momento del passaggio al WH Group. Non esiste dunque nessun motivo di contentezza, neanche per i precedenti critici della vendita, dal fallimento dell’IPO. L’auspicio è che dalla vicenda si possano trarre degli insegnamenti. Non bastano capitali cinesi per brindare a un’operazione complessa. Ci vogliono acume, lungimiranza, etica. Il CFIUS si concentra sulla sicurezza, ma uno strumento più incisivo che giudichi anche la complessità morale e materiale di ogni acquisto aziendale si rende necessario per non ripetere lo stesso errore che ora è esploso alla Borsa di Hong Kong

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Pubblicato da Alberto Forchielli

Presidente dell’Osservatorio Asia, AD di Mandarin Capital Management S.A., membro dell’Advisory Committee del China Europe International Business School in Shangai, corrispondente per il Sole24Ore – Radiocor

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