La Cina protegge il segreto del suo successo: il binomio crescita-stabilità. Lo tutela da crisi e da pericoli, sconfiggendo chi sosteneva che la prima avrebbe inevitabilmente minato la seconda. Tra le 2 componenti, la crescita tuttavia può flettere, mentre non si abbassa la guardia sulla stabilità. L’ “ossessione del Pil” – come l’ha chiamata Xi Jin Ping, suggerendone il rallentamento – non è duplicata per la sicurezza interna. Pechino si trova a fronteggiare molte minacce, sulle quali non è disposta a negoziare. Il contagio della “primavera araba” è stato contenuto sul nascere; la democrazia del web è stata censurata con l’esclusione dei siti più delicati e capaci di mobilitare le coscienze; le rivendicazioni delle minoranze nazionali sono state trattate con il pugno duro, anche quando non hanno sconfinato negli atti di terrorismo.
Le azioni di polizia hanno avuto finora la meglio e non si intravvedono crisi all’orizzonte. Tuttavia crescono le proteste, spesso spontanee, nelle campagne, nelle fabbriche, nei cantieri cittadini. Vengono richiesti salari migliori, condizioni di lavoro più dignitose, si lamenta la brutalità della repressione o l’arroganza dei quadri amministrativi. Si tratta di un magma indistinto, senza organizzazione, ma per questo forse meno decifrabile e facile da controllare. La benzina delle proteste è l’ineguaglianza, che ormai ha raggiunto livelli inediti e non più sopportabili. L’indice di Gini – che misura la concentrazione della ricchezza – pone la Cina tra le grandi nazioni con una delle posizioni più alte; addirittura è “più disuguale” degli Stati Uniti.La disparità si ingigantisce quando i poveri si accorgono di essere tali – con la disponibilità dei moderni mezzi di comunicazione – o quando hanno strumenti per reclamare il loro riscatto. È quest’ultimo il caso della Tailandia, dove le ultime elezioni hanno sempre premiato la linea populista della famiglia Thaksin. Tutte le campagne elettorali vincenti hanno fatto leva sui bisogni dei poveri, dei contadini che non hanno intercettato i vantaggi dell’industrializzazione. La borghesia cittadina di Bangkok, le classi emergenti, gli intellettuali vantano standard di vita nettamente superiori. Nei villaggi ha facile presa il messaggio di chi promette medicinali gratis, sussidi per l’energia, fondi per i templi. Il contrasto tra ricchi e poveri, città progressiste e campagne conservatrici è esploso prima nelle urne e poi negli scontri che insanguinano il paese, pericolosi e di esito incerto. La dinamica tailandese non può applicarsi meccanicamente alla Cina. Tuttavia, in mancanza di alternative elettorali, il riscatto dei più poveri può trovare forme meno controllabili. La demografia lavora in silenzio, ma i suoi effetti possono essere devastanti.
Nel 2010, per la prima volta nella sua storia millenaria, la popolazione urbana della Cina ha superato quella rurale. Però, dei 700 milioni di Cinesi che vivono nelle città, circa ⅓ non ne ha diritto. È infatti formalmente vincolato all’hukou, il sistema che trattiene ogni cittadino nello stesso luogo dalla culla alla tomba. I cambiamenti sono possibili, ma lunghi, individuali e senza certezza di ottenimento. I contadini sono stati necessari per lo sviluppo della Cina; hanno offerto forza lavoro economica, disciplinata, inesauribile. Sono stati i soldati dell’incredibile macchina da guerra produttiva. I loro diritti non sono cresciuti come il PIl cinese o i profitti delle aziende. I salari sono rimasti bassi, ma soprattutto non è stata concessa la residenza nel luogo di lavoro. Ciò ha reso questi 250 milioni di cinesi, semi-clandestini, senza protezione, ricattabili. Le differenze di reddito e di status con i cittadini sono enormi. L’integrazione nel “sogno cinese” è ancora vischiosa, le disparità sociali sono enormi. Una riforma del sistema hukou è spesso annunciata, ma senza risultato. I costi sarebbero altissimi, principalmente per le rivendicazioni salariali che ne sorgerebbero. Gli esclusi potrebbero tuttavia dare fiato ai consumi e rivitalizzare l’economia in frenata, ma il governo preferisce non correre rischi e mantenerli come cittadini di seconda categoria. Gestire situazioni complesse non è una specializzazione della burocrazia cinese. In assenza di elezioni, gli interessi sociali risultano contenuti, frammentati, sterili. Covano però nel risentimento e nella protesta, che se non si indirizza ancora verso la democrazia trova tuttavia alimento dalla demografia.
Alberto, leggendoti, ho la vaga impressione che la Cina stia covando al suo interno una bella bomba all’uranio “impoverito”