Esistono delle analogie tra lo sviluppo industriale e la diffusione del cinema americano. Per la Cina il percorso sembra parallelo, seppure con differenza nei tempi. La fabbrica del mondo ha inondato tutti i paesi con i suoi prodotti; fino a quando ha compreso che poteva farli rimanere in Cina, per una popolazione troppo a lungo confinata ai consumi ridotti.
Ma l’industria non poteva piegare migliaia di anni di cultura e dunque i prodotti per la clientela cinese hanno assunto caratteristiche locali. L’ultimo stadio – un sigillo della ritrovata potenza cinese – è la creazione di prodotti proprio per la Cina. Nei paesi industrializzati si progettano merci per i consumatori cinesi, se ne assecondano i gusti e le preferenze. È il segno inequivocabile che il mercato interno si sta affiancando all’immensa fabbrica cinese.
L’industria del cinema, in via di principio non è diversa. La Cina anche in questo settore sconta un ritardo impressionante. È distante anni luce dalla potenza di Hollywood; soprattutto non è in grado di creare un soft power adeguato alla sua statura e alle sue ambizioni. Non hanno diffusione all’estero i film cinesi, culto di ristretti circoli intellettuali o di amanti delle arti marziali. Gli Stati Uniti hanno insegnato che il veicolo del cinema è essenziale per sostenere gli ideali e i valori di ogni paese. Però la Cina non ha dimostrato ancora abilità e sensibilità nel produrre la narrazione che conquisti i cuori e le menti di un pubblico più vasto.
[tweetthis]Il gap USA-Cina nell’usare il #cinema come strumento di egemonia culturale[/tweetthis]
Quasi per compensazione, il mercato cinematografico interno è in crescita (circa 30% annualmente), fino a raggiungere il secondo posto al mondo dopo gli Stati Uniti. Gli incassi al botteghino del film americani – soprattutto quelli di azione – sono enormi, ma lasciano irrisolti due problemi insormontabili nel breve periodo. Il primo riguarda la distribuzione.
La trattativa con il WTO nel 2012 ha inchiodato per un quinquennio a 34 il numero dei film di importazione ogni anno. Si tratta di una grave limitazione, ma evidentemente la forza negoziale cinese si è imposta, oppure gli altri paesi hanno trascurato questo aspetto fondamentale. Ancora più importante è la censura imposta ai film stranieri. Le forbici della SAPPRFT, State Administration of Press, Publication, Radio, Film and Television, sono spietate e rispondono solo ai criteri del Pcc. I burocrati non hanno né esperienza né volontà di giudicare in base a criteri artistici. Le loro affermazioni sono costanti e schiette: bisogna diffondere un’immagine positiva della Cina, sottolinearne la forza pacifica, l’armonia della sua costruzione. Non bisogna istillare troppi dubbi o cercare di eccitare le coscienze critiche. Queste posizioni sono quotidianamente espresse dal governo, la stampa, gli operatori del settore.
Di conseguenza i produttori statunitensi scelgono di evitare ostacoli ai loro successi e si autocensurano. Sono timorosi di perdere pubblico in Cina e non possono permettersi mega produzioni senza il box office cinese. Tagliano le scene più controverse, si rifugiano nella spettacolarità dell’azione, evitano situazioni che potrebbero urtare suscettibilità politiche. Si rendono complici e vittime della Cina. È così difficile capire se si siano rassegnati alla potenza cinese o se abbiano dimenticato gli effetti sociali e qualitativi che il grande cinema di Hollywood ci aveva magistralmente insegnato.