In una sorta di “leva narrativa italiana” degli anni Ottanta, certamente l’autrice di oggi trova un posto di rilievo, come una delle voci più originali fra quelle di questi narratori all’incirca quarantenni, diversi dei quali abbiamo ospitato in questa rubrica (da Dario Ferrari a Marco Missiroli a Paolo Giordano).
Claudia Durastanti è nata a Brooklyn nel 1984 e questo luogo natale è di certo un primo elemento di caratterizzazione dei temi che tratta, influenzati dall’infanzia newyorchese nella Little Italy di Bensonhurst, dal fatto di essere bilingue e di aver intrapreso, oltre a quella di narratrice, anche la carriera di traduttrice.
A Chloe per le Ragioni Sbagliate, ad esempio, è un romanzo del 2013, ambientato proprio nella metropoli americana che ci ha raccontato come si vive laggiù e l’amore contrastato fra due giovani personalità agitate e ferite dalla contemporaneità e della difficoltà dei sentimenti in questo difficile vivere di oggi in occidente.
In La Straniera, un eccezionale memoir famigliare uscito nel 2019, la nostra autrice ripercorre proprio la sua vita, partendo dai suoi genitori, entrambi affetti da sordità, dall’infanzia presso la comunità italiana a Brooklyn, e poi il ritorno in Lucania da giovane ragazza, ovviamente “spiantata”, dai grattacieli della Grande Mela ai calanchi lucani: una ragazza spatriata, direbbe Mario Desiati, uno scrittore non troppo più anziano di Durastanti, originario di una terra poco lontana dalla Val D’Agri, anche lui narratore di questo sentirsi stranieri ovunque si stia, sempre alla ricerca di un centro difficile da trovare (ne abbiamo parlato qui).
Il più recente romanzo di Claudia Durastanti è Missitalia (La Nave di Teseo, 2024, pagg. 391, Euro 20) ed è un “romanzo ad episodi” (la definizione è dell’autrice) fatto di tre storie di tre donne: Amalia Spada, Ada e A., collocate in tre epoche diverse in due secoli di storia italiana: nei primi anni dell’Unità d’Italia in Lucania, negli Anni Cinquanta del Novecento a Roma, e nel futuro, nel 2056, sulla Luna.
Tre lunghi racconti, quindi, che hanno certamente un filo conduttore, anzi più di uno: innanzitutto la condizione femminile, le narratrici sono tre donne, piuttosto diverse fra loro il cui fattore comune è forse quella forza che allo stesso tempo è debolezza di non ritrovarsi, di non avere una strada “normale” e lineare nella vita, pur essendo tutte e tre ancorate alla loro terra, sempre la Val d’Agri lucana, che è uno dei trait-d’union delle tre storie.
Amalia Spada, detta Madre, è tenutaria di una bizzarra casa comune, in cui ospita ragazze spiantate, provenienti da diverse e variamente dolorose esperienze; nel piano di sotto di questo casamento sono invece ospitati dei fuggiaschi, in questi primi anni Sessanta dell’Ottocento, i nuovi “padroni” venuti dal Nord, i briganti che imperversano, la rotta dei precedenti eserciti, un clima fra il Far West e l’incertezza di un nuovo ordine possibile.
Questo racconto, molto peculiare, ha vari rimandi nella letteratura di tanti campioni della narrazione del Sud dell’Italia dell’Ottocento (è anche inutile stare ad elencarli), ma ha anche alcuni riferimenti diversi, come quello, molto esplicito, alla “ferrovia sotterranea” di Colson Whitehead:
“Madre e le ragazze sapevano già che c’erano eserciti invasori in ogni parte del mondo, e che le guerre producevano gli stessi reietti ovunque; solo che lì al Sud, invece di prendere la ferrovia sotterranea, si nascondevano nelle grotte o sugli alberi”.
L’ideale via di fuga che nella finzione lo scrittore newyorchese ha collocato ai tempi dello schiavismo, qui è un riparo dai “tribunali nelle masserie”, cioè da sentenze piuttosto sommarie che portavano alla morte certa di tutti coloro che potevano apparire briganti e che vanno a rifugiarci nel “mondo di sotto” di Madre.
In Lucania, fra i calanchi, arriverà il nobile del Nord e impianterà una Fabbrica di tessuti che modificherà le abitudini del posto, e anche della casa di Amalia: e a un certo punto si parlerà di un olio scuro, il petrolio (l’”acqua sporca”), che sarà protagonista anche nella storia di Ada: siamo quasi un secolo dopo, a Roma, a raccontare il “coming of age” di questa donna sempre moderna, come Amalia in verità, alle prese con uno scenario di salotti romani, di feste trasgressive, di riviste ed iniziative finanziate da un “Magnate degli idrocarburi”, da una storia che assume ritmi e toni da spy-story e rievoca irrisolti misteri tutti italiani (ci pare chiaro infatti il riferimento a Enrico Mattei).
E infine A., in uno mondo distante solo trent’anni da oggi, ma straniato e in qualche modo post-apocalittico, dove la parola “Fine” è proibita (qui il ricordo va senz’altro a Fahrenheit 451 di Ray Bradbury) e gli uomini colonizzano la Luna, il Mondo Nuovo, grazie ad un’”Agenzia Spaziale Mediterranea” nata proprio, di nuovo, in Basilicata, quasi a compensare “una serie di terremoti indotti” per scoprire nuovo petrolio, quando quello che c’era sembrava esaurito.
La scrittura di Claudia Durastanti è profonda, evocativa, spesso esplicita, tagliente, non sempre di facile approccio, e talvolta ci lascia spossati per accoglierne tutte le sfaccettature, ma di certo quel po’ di fatica è ripagata da una sensazione forte di arricchimento, di profondità, di ricerca di un senso all’interno di una narrazione di spaesamento, e di ricerca di se stesse, della strada nella vita.
L’ambientazione più convincente ci pare quella del primo racconto, che a nostro avviso possiede la compiutezza di un romanzo, con l’epopea di Amalia e delle sue ragazze, con vicende straordinarie come quello della cavalla che si accascia proprio davanti alla casa di Madre e del negoziato fra chi vuole abbatterla perché ormai zoppa ed inservibile e chi salvarla. Meno compiuti ci paiono gli altri due racconti, dove forse la forma breve danneggia la pienezza della storia, che rimane un po’ incompleta.
Ci pare certamente il caso, per finire, di soffermarci sul titolo di questo romanzo: come avrete capito, la manifestazione che premia la più bella italiana non c’entra nulla: il riferimento è al termine inglese “miss” e Missitalia è riferito al ricordo amaro della propria terra, a quanto essa manca: una sensazione che Durastanti riferisce agli emigranti, che provano la nostalgia della loro terra ma, sembra dirci, anche a noi tutti “stanziali”, che forse dovremmo ritrovare il senso di stare insieme in questa terra, in Italia, nel 2024.