Come un sandalo in autostrada

E’ un sandalo nero con il cinturino alla caviglia e il tacco alto e sottile.

Uno solo, spaiato, direi sinistro, e si trova sulla corsia centrale della A22, Autostrada del Brennero, direzione Trento, ma hai voglia ad arrivarci, ci siamo immessi ad Affi dopo la digressione da Peschiera consigliata dal navigatore e stiamo  praticamente fermi da un quarto d’ora, sotto il sole incattivito di una tarda mattinata di agosto. Motori che ronzano e sbuffano, microcosmi ambulanti vicinissimi e tuttavia tra loro non comunicanti, nei quali ci siamo barricati, ognuno geloso del proprio isolamento.

Mossi da un’istintiva, immotivata delicatezza, gli automobilisti modificano leggermente la traiettoria dei loro veicoli per non passare con le ruote sopra quel solitario vessillo di una femminilità che ci si immagina tristemente negletta – dovrebbero fare campagne di sensibilizzazione contro l’abbandono delle calzature in autostrada, soprattutto se spaiate – ma prima o poi sopraggiungerà un mastodontico camper o qualche SUV distratto, e per il povero sandalo sarà la fine, orribile ed inappellabile.

 Non riesco a distogliere l’attenzione da quell’immagine così evidentemente fuori contesto, un’alterazione squilibrata del paesaggio morbidamente monotono dell’autostrada. Mi balocco con una serie di improbabili congetture  sulle vicende per effetto delle quali una scarpa da donna possa ora giacere su di una corsia della A22, nel bel mezzo del rito forzosamente collettivo della transumanza agostana.

Donna giovane, poiché una donna anziana non indosserebbe calzature simili. Con le dovute eccezioni, come l’ottantenne signora Aldina del pianterreno, che quando esce la domenica pomeriggio per andare a ballare il liscio svetta orgogliosa dall’alto del tacco 12 di scarpette luccicanti da Cenerentola, aggrappata al braccio del suo vetusto accompagnatore: in realtà non è del tutto chiaro chi si appoggi a chi, e forse proprio qui risiedono il senso ed il valore di certe solidali complicità.

Comunque, donna giovane. In fuga da un sequestratore, è scappata approfittando di una sosta notturna in autogrill. Già, e sarebbe riuscita ad attraversare le corsie sempre trafficate perdendo un sandalo nella corsa, quando sarebbe potuta scappare nella campagna appena dietro l’area di sosta, o meglio ancora avrebbe potuto chiedere aiuto a qualcuno in autogrill? No, cerchiamo di elaborare scenari che potrebbero trovare riscontro nella realtà.

La ragazza viaggia su una Panda scassata e senza aria condizionata. Guarda di sottecchi il suo giovane compagno che guida a torso nudo, i capelli  biondi gli ricadono sulla fronte in piccole ciocche disordinate, e lei è sedotta da quell’unica minuscola goccia perlescente di sudore che gli cola lentamente dal collo e scivola sul torace liscio e muscoloso. Allora abbassa completamente il finestrino, solleva l’ampia gonna sulle lunghe gambe abbronzate, slaccia i cinturini dei sandali  e posa le caviglie sul profilo della portiera, i piedi che penzolano indolenti all’esterno. Si sono conosciuti appena ieri sera, sono due universi che si sono sfiorati e non ancora compresi, chissà fino a dove arriveranno. L’auto prende velocità, e una scarpa si sfila, un volo breve e precipita al suolo: lei ride, noncurante, ha altro per la testa.

Potrebbe anche essere plausibile la versione di lei che scaraventa lo sventurato sandalo dal finestrino in un attacco di furore, perché ha sposato questo incapace che non guadagna nemmeno a sufficienza per comprarsi un’auto decente, fa un caldo insopportabile, il marmocchio strilla sul sedile posteriore e infine aveva ragione sua madre quando le diceva che era sprecata per uno così, belloccio finché si vuole ma inconcludente: ma siccome di tanto in tanto sulla superficie del mio animo frusto riaffiora una sopita vena sentimentale, preferisco la prima versione.

Tu nel frattempo continua pure a rimanere assorto e silente, le mani aggrappate al volante, gli occhi fissi sul parabrezza, concentrato su questa guida immobile che pare una metafora dell’esistenza, si pensa di procedere e invece si rimane sempre fermi sotto lo stesso maledetto lampione e intanto il tempo scorre, fino ad esaurimento: tanto, io mi arrangio con la fantasia divagando tra qui e altrove, ma soprattutto altrove. Se fossimo due stili architettonici, tu saresti l’austera, inamovibile solidità di un purissimo romanico, io l’aguzza, verticale lievità del gotico.

 Accendo la radio, anche se capisco dal tuo sguardo che ne faresti volentieri a meno, io invece ho bisogno di riempire questo silenzio, e comprenderai che sostenere una conversazione da sola non è semplicissimo. La fila incomincia a muoversi, portiere che si richiudono con un tonfo attutito o con uno scatto secco, leggeri colpi di piede su acceleratori ansiosi di condurre le scatole in lamiera con il loro impaziente contenuto fuori da questo fotogramma bloccato, e poco dopo ecco che il panorama scorre sempre più veloce.

 Lasciamo l’autostrada a Ora e ci dirigiamo verso la Val di Fassa tra pascoli, casette di pietra e legno e piccoli alberghi perfettamente congruenti con il paesaggio. Sullo sfondo, le Dolomiti stanno a guardare come le stelle di A. J. Cronin, sontuosamente gotiche nella loro algida, ombrosa bellezza. Possiamo rinunciare all’artificio salvifico del climatizzatore ed abbassare i finestrini per lasciare entrare l’aria leggera e frizzante come un calice di Cartizze sorseggiato sull’elegante Terrazza Martini, sulla quale non ho mai messo piede ma che in fondo un po’ mi appartiene, essendo milanese, e guai a chi ne dovesse parlar male.

Delle tante belle terrazze della mia città, quelle sulle quali quel che resta della Milano da bere si è trasferito e dalle quali non s’è mai schiodato ed è ancora lì, in attesa della grande occasione, ho calpestato solo, e nemmeno con un paio di sandali adeguati, le Terrazze del Duomo e quella della Rinascente, certo di frequentazione più popolare rispetto alle blasonate Terrazza Aperol, Martini e Boscolo, per non dire di quella di 10 Corso Como.

In via Revere, dove abito da decenni, Milano non appare altrettanto disinvoltamente modaiola, ma dal balcone (lo avrei definito terrazza, ma dopo averne citate alcune le cui dimensioni superano di gran lunga quelle dell’intero alloggio, preferisco ridurre la prospettiva), si ha una bella visuale di un pezzetto di Parco Sempione, ed è dalle mutazioni delle chiome degli alberi e dai suoni e dai profumi che da esse provengono, che percepisco il variare delle stagioni.

Mi capita talvolta di domandarmi se nostro figlio senta la mancanza di questi alberi che era abituato a vedere sin da quando era un bimbetto: vive da tre anni a Washington ed ha una compagna americana  sorridente e risoluta che non stira le camicie. Sono felice di avergli insegnato a stirarsele e fiera della sua intraprendenza che l’ho spinto ad assecondare; certo avrei preferito che le sue scelte non lo portassero tanto lontano. In un certo senso la sua partenza è stata una lacerazione che ha rivelato un impoverimento sottostante e preesistente, che è stato amplificato dalla sua assenza. Eppure, non è mai stato quel figlio a tenerci uniti, semmai l’inverso: ci ha necessariamente distolti l’uno dall’altra, con l’inconsapevole, feroce egoismo dei cuccioli, ma col tempo abbiamo finito per accomodarci in questo allontanamento senza pena, e dando per scontata la reciproca presenza, abbiamo smesso di cercarci.

 Mi sovvengono certe ere d’estate, quando aspettavamo che Luca finalmente si addormentasse, spegnevamo tutte le luci in casa e ci sedevamo fuori, un bicchiere di vino e una sigaretta, a contemplare il buio sul Parco e a  tessere tele evanescenti di parole, lasciandole scorrere lievi e luminose come perline colorate che rotolano su di un piano di cristallo. Un alito di vento trasportava di tanto in tanto le note frammentate di qualche musica lontana. Ecco, ho nostalgia di quei momenti in cui eravamo due pianeti che gravitavano nella stessa orbita, in assoluta sintonia. Continuo a pensare al sandalo a terra, ed intravvedo una sorta di apparentamento nei nostri  destini, arenati in qualche non luogo periferico più per superficiale distrazione che per volontaria incuria. 

Siamo a San Martino di Castrozza da una settimana, e piove tutti i giorni. Ci alziamo al mattino con il cielo azzurro, qualche nuvola innocente impigliata alle cime aguzze e frastagliate delle Pale di San Martino; verso le undici le nubi incominciano a lievitare, si gonfiano come animate da un intimo livore che le tinge di grigio, sempre più cupo e minaccioso. Ed è pioggia, una pioggia fredda, a tratti scrosciante, che ci scaraventa in un tardo autunno qualunque, sebbene ci si ostini ad andare in giro in calzoni corti a reclamar cocciuti l’estate che ci spetta.

Ci rilassiamo e ci annoiamo un po’, sincronizzati da abitudini quotidiane consolidate sebbene leggermente impacciati dalla totale condivisione delle giornate, condizione che capita solamente nei periodi di vacanza.

In questa domenica radiosa e fredda, l’aria rinvigorita dall’ennesimo temporale notturno, la nuvolaglia si è sfilacciata e gironzola fiacca attorno alle montagne.

Tornando nel primo pomeriggio da una passeggiata in Val Canali, scendendo a Primiero notiamo i manifesti che annunciano un concerto  di Vinicio Capossela nel parco di Villa Welsperg.

“Comincerà tra poco. E se ci andassimo? A me piace Capossela”,

dici ad un tratto: ed io, che conosco poco questo artista e nemmeno so se mi interessi saperne di più, sono attratta da questa improvvisazione che ha acceso nei tuoi seri occhi grigi un lampo di giovanile entusiasmo.

Giovedì, 1° ottobre 1970. Avevo 15 anni, e al Palalido c’erano i Rolling Stones, un concerto pomeridiano ed uno serale. Andai a quello delle 16 all’insaputa dei miei genitori, che non me lo avrebbero mai permesso per via dei violenti tafferugli che in quegli anni si verificavano puntualmente agli eventi musicali. Ci ritrovammo pigiati l’uno accanto all’altra sul fondo dell’anfiteatro quando i manifestanti che all’esterno rumoreggiavano al grido di “musica gratis per tutti” tentarono lo sfondamento del cordone di polizia e volarono i primi lacrimogeni. Qualcuno riuscì ad entrare, e fu davvero casino. Mi piacerebbe poter dire che mentre afferravi la mia mano e mi trascinavi fuori, via da lì, di corsa, gli Stones stessero suonando “Street Fighting Man”, ma ricordo solo la paura, e la tua mano che stringeva forte e sicura la mia. Ci fermammo nei pressi dell’Ippodromo e finalmente ci presentammo. Tu eri arrivato in treno da un paesetto dell’entroterra ligure per vedere gli Stones, e chiacchierando e scherzando sul fatto che mi avevi salvata come un coraggioso cavaliere oppportunamente giunto su di un nobile destriero, ti accompagnai alla Stazione Centrale. Per qualche tempo ci telefonammo spesso, ci incontrammo anche un paio di volte, ma poi ci lasciammo perdere.

L’ingresso è libero e nel parco sta sciamando una folla eterogenea, per età e per aspetto. Su di un palco di legno montato in un’ampia radura, i musicisti si preparano a suonare accordando gli strumenti. Nel frattempo le nuvole si sono perfidamente organizzate dietro le creste dei monti, e di tanto in tanto passano davanti al sole oscurandone la luce e cancellando le ombre degli alberi e delle persone.

A proposito di divagazioni: credo che la mia ombra non sia un mero effetto della luce, ma che continui ad esistere e mi resti appiccicata addosso anche quando non vi è luminosità che la proietti.

Arriva Capossela, e con quella sorta di palandrana nera ed il cappello a cilindro tronco dal quale spuntano i lunghi capelli neri, con i baffi ed il pizzetto che incornicia il volto appuntito, è un po’ imbonitore da Far West, un po’ Pirata dei Caraibi e un po’ Corvo, con un risultato sorprendentemente armonioso.

Mi stai dicendo dei suoi innumerevoli cappelli per i quali è noto, e mi chiedo come tu faccia a saperlo, da quando tu abbia preso a coltivare l’interesse per un tizio del quale io conosco forse tre canzoni.

Poi succede qualcosa: le prime ballate soffiate nel microfono dalla voce sensuale e cafona di questo  guitto multiforme che fende e accarezza l’aria con enfatici gesti delle braccia, e forse tra poco volerà via, compiono la magia. Cessa di colpo il chiacchiericcio svagato e molti cercano di avanzare verso il palco. Mi accorgo che in tanti cantano a mezza voce con lui, conoscono a memoria i testi complicati e poetici di queste storie surreali, amare e commoventi che mi ritrovo ad ascoltare con attenzione e che vorrei aver saputo immaginare, perché sono geniali e di grande qualità letteraria.

Stai canticchiando anche tu, pianissimo perché sei stonato, ma un sorriso solleva gli angoli della tua bocca e socchiudi gli occhi al riverbero del sole che contende il cielo alle nubi, e quella ruga che ti  attraversa sempre la fronte si distende e si dilegua vergognosa. Forse ti accorgi che ti sto osservando – ma da quando ti sono cresciuti tutti questi capelli bianchi? – e allora mi rivolgi un sorriso timido, cerchi la mia mano e continui a cantare,

“…dov’è che siam restati soli Nutless, dov’è che i muri si sono chiusi addosso, muri che avevamo costruito nella sabbia e per la sabbia, forse per avere ancora a tiro l’onda…”.

Il sole si è arreso da un  pezzo ma non interessa a nessuno dei presenti, tutti ugualmente irretiti, smarriti e ritrovati in questa catarsi musicale che purifica attraverso una bizzarra contaminazione di stili, di spazio e di tempo, così il primo tuono, che ruggisce cupo e tondo in lontananza, è ignorato dai più, e lo scroscio d’acqua coglie tutti di sorpresa.

Ci incontrammo di nuovo quindici anni dopo, la tipografia per la quale lavoravo aveva acquistato una nuova macchina e tu eri il tecnico che avrebbe dovuto istruire gli operai sull’utilizzo, un ingegnere che arrivava dalla Liguria. Ci riconoscemmo subito e tu mi salvasti per la seconda volta, stavolta da un periodo di sterile ripiegamento conseguente ad una serie di esperienze avvilenti: ti scelsi sulla base del convincimento che probabilmente non eri l’uomo che avevo sognato, ma  eri quello che avrebbe potuto rendermi felice.

 I tecnici staccano subito le prese elettriche di alcuni strumenti e del microfono, Capossela continua imperterrito a cantare per qualche minuto, poi tace e si guarda attorno, osserva pensoso il cielo incupito, e l’acqua sgocciola dalle tese del cappello nero.

La gente non sa bene che fare, qualcuno continua a cantare e batte le mani, si aprono parapioggia multicolori, dagli zaini vengono tratti impermeabili di plastica. Un marcantonio dai capelli rasati si fa largo tra la folla brandendo nella mano destra un ombrellone da spiaggia, salta agile come un gattone sul palco, si pone di fianco a Capossela e apre la cupola di tela che porta stampigliata la pubblicità dei gelati Algida. Lo stralunato cantastorie lo guarda, gli sorride e scambiano qualche parola, dice qualcosa a uno dei suoi che poco dopo gli porge una sedia e una chitarra. Il pubblico tace sotto la pioggia battente e sotto quel cielo ostinatamente plumbeo, in attesa: e partono gli accordi di Ultimo Amore, il marcantonio è impalato e fiero del suo ruolo e sotto l’acqua ci si può commuovere liberamente, spacciando lacrime per gocce di pioggia.

Ora cade una bruma lieve e dolce. Stiamo lì fino alla fine, stretti sotto il mio ombrellino con le stelle alpine  e aggrappata al tuo braccio nell’aria odorosa di resina sto bene, e non vorrei essere altrove.

Eccola qui la mia orbita, il mio sandalo destro, sono sempre stati qui, sotto un improvvisato, efficace riparo da qualsiasi pioggia. Ne abbiamo ancora di strada da fare, mio cavaliere: non lasciare la mia mano, e chiama il tuo destriero, è ora di intraprendere un nuovo viaggio, siamo ancora in tempo.

 

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Pubblicato da Sonia Fantozzi

Spirito irrequieto alla costante ricerca dei perché e dei percome. Ha lasciato Milano,ma in cima a una collina ha scoperto che sarà milanese per sempre.

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