Con la testa fra le mani

L’appuntamento fu fissato alle cinque in un locale fuori città. Arrivò puntuale per l’intervista: aspetto distinto, rasato, stretta vigorosa. Dietro di lui, al tavolo vicino, due agenti in borghese anonimi e discreti, lo sorvegliano attenti. Non feci in tempo a presentarmi che cominciò a parlare come un fiume in piena, desideroso di sfogare la rabbia consegnando nelle mie mani la sua immensa solitudine.

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© Umberto Verdoliva

 

REC /ON

Mi chiamo S.F. ho quarant’anni. Sono sposato, due figli un maschio di sedici anni e una bimba di quattro. Mi mancano molto. Da quando sono costretto a nascondermi, li ho sentiti solo una volta. Ora vivono lontani, presso alcuni parenti emigrati all’estero. La lontananza dalla mia famiglia mi uccide, ma forse sono già morto, e non me ne sono accorto.

Tutto cominciò quel maledetto pomeriggio d’agosto. Ci preparavamo alla chiusura estiva: mio padre a far di conto in ufficio, io in reparto a controllare gli impianti . Dal piazzale antistante la fabbrica l’ultimo camion era partito a pieno carico: mi pervase quel senso di allegria infantile che precede la festa, la soddisfazione intima del risultato raggiunto: nonostante la crisi, il fatturato era in crescita, le commesse erano sempre più numerose, il mercato si era accorto di noi, finalmente.

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© Umberto Verdoliva

Il rumore brusco di ruote in frenata mi distolse da quei pensieri. Da un’auto di grossa cilindrata scesero tre persone dall’aria strafottente. Di primo acchito mi fecero una brutta impressione tant’è che accesi l’interfono e chiamai preoccupato mio padre richiedendo la sua presenza.

Quando si affacciarono al portone, uno rimase appoggiato alla vettura, gli altri si posizionarono di fronte a me, mani in tasca e sorriso sghembo.

Bella ditta, complimenti

Signora giornalista, confesso che provai una strana paura, la cui portata era a me sconosciuta: parte dagli occhi e poi scende alle gambe che si paralizzano, subito risale fino in gola dove le parole vanno a soffocarsi.

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© Umberto Verdoliva

 Che volete da mio figlio?

Papà, fermo e lucido, mi venne in soccorso e li affrontò al posto mio. Ogni volta che ci penso, mi sento piccolo piccolo. Avrei dovuto farlo io, ma non ero preparato. O forse non sapevo cosa fosse meglio fare: agire o dire, sta di fatto che restai impietrito. Lui, invece dritto come un fuso malgrado l’età, aveva intuito tutto e non aveva timore di guardare in faccia  a’ chill guapp’ e cartone.

Quello che volevano, lo sapeva bene: il pizzo, la tangente estorta!

Avevo solo due strade da percorrere: pagare o denunciare.

Scelsi di denunciare, nonostante le minacce, i sabotaggi, le notti insonni. Quello che mi hanno tolto in fondo è solo l’innocenza: perché questi individui ti sporcano con l’unto della loro volgarità, ti abusano anche se non ti sfiorano con un dito, catapultandoti a forza in un mondo infame dove dignità e sacrificio valgono zero.

Da tutto questo dolore ho imparato cos’è il coraggio,  quello stesso che mio padre mi ha trasmesso, e ora che lui non c’è più, tocca a me passare, testimone di una lunga staffetta familiare verso la libertà.

REC/OFF

Quando lo lasciai, era ancora lì seduto da solo con la testa fra le mani

https://www.youtube.com/watch?v=PaSU8hrgPYQ

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Pubblicato da Daniela Pepe

Anima migrante, laureata in economia. Lasciò tutto per l'America viaggiando in Transiberiana. Vive a Roma ma il suo cuore è a Tel Aviv

Una risposta a “Con la testa fra le mani”

  1. Davide contro Golia, ma in queste storie Golia è appena scalfito dal coraggio di Davide, che invece paga a caro prezzo la scelta di tenere la schiena dritta e sfidare infamia e illegalità.
    Strano mondo, dove un semplice onest’uomo diviene un eroe che però deve passare il resto dei suoi giorni nascosto, rinunciando ad affetti ed abitudini quotidiane e persino alla sua identità.
    Una storia drammatica, narrata con lo stile garbato ed essenziale che mi piace tanto, che suscita riflessioni piuttosto amare…

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