Il delicato equilibrio dei birilli che roteano sull’asse zero

La saga dell’attesa del rialzo targato Fed si riproporrà fra fine ottobre. In realtà è un film che mi pare di vedere da un paio di anni, fra continue comunicazioni di prossimità della decisione e, quasi quale necessaria conseguenza, di relativo Armageddon e Giorno del Giudizio. Che i 144mila Giusti si preparino.
Ho letto i comunicati Fed e non posso che ribadire la mia posizione in merito: la Fed ha sbagliato (il mio personale giudizio aggiunge “tragicamente”) ad abbandonare la forward guidance per una impostazione data dependent che l’ha resa più simile ad un “centro studi e litigi” che ad un organo di controllo e indirizzo.
Parlando di Fed si è soliti affermare che sia una banca centrale più orientata all’interno che alle condizioni esterne; che secondo un pragmatismo tipico americano apprezzi le “rules” (tipo Taylor); che non ami le “sorprese” alla Friedman e Lucas; che valuti le opzioni secondo un approccio di contenimento dei rischi impliciti; che si muova solo su shock che manifestino cambiamenti duraturi nell’economia.

A me pare che il paradigma da un paio d’anni sia cambiato

In quello che riguarda l’approccio e l’attenzione alle condizioni esterne forse l’influenza di Stanley Fisher si è fatta sentire, in ogni caso è palese che fin dai tempi dell’annunciato tapering di Bernanke (maggio 2013) si guarda con attenzione e crescente preoccupazione al peso che le scelte a stelle e strisce hanno sul resto del mondo e come queste si riverberino su tutto il globo, USA inclusi.
L’ho già scritto: agli Stati Uniti non piace fare i rompiuova né passare per i capri espiatori della deflagrazione di squilibri nati silenziosamente altrove e mai risolti, e deflagrati allo squillante annuncio della “normalizzazione”.
Ma è tutto l’approccio equilibristico di Yellen che mi sospinge a pensare che anche il resto dei paradigmi è mutuato geneticamente.
Yellen a luglio 2015 ci diceva che la decisione del FOMC sarebbe dipesa da “condizioni domestiche “ e “sviluppi internazionali”. Orbene, delle condizioni domestiche (occupazione e inflazione) ci dice che l’occupazione sta andando bene e ci avviciniamo al pieno impiego e quindi lo scenario centrale dell’economia USA rimane positivo, ma che dal fronte inflazione arrivano segnali di rallentamento causati dall’apprezzamento del dollaro e dalla debolezza delle materie prime.
Ok…ma allora perché aggiungi che ritieni che l’influenza dello shock di cambio sull’inflazione sia temporaneo, e che “ulteriori miglioramenti del mercato del lavoro“ (leggasi dinamiche salariali) la miglioreranno? A questo si aggiunge che è stata (nuovamente, ulteriormente) rivista al ribasso l’asticella della disoccupazione di lungo periodo, e non riesco a vederci altro motivo se non le preoccupazioni (che avevo già espresso) relativamente alla riduzione della forza lavoro causata dall’aumento degli scoraggiati e dei disillusi inoccupati di lungo periodo, che “falsa” le statistiche sul “reale” tasso di disoccupazione, che è maggiore di quanto sia apprezzabile guardando ad un solo dato.
Ma allora il mercato del lavoro e lo scenario centrale dell’economia interna sono o non sono positivi? Forse questo può essere condizione sufficiente per spiegarsi come mai le dinamiche salariali languono.
Gli “sviluppi internazionali” poi sono quanto di più vago si può leggere nelle dichiarazioni di Janet. È mia opinione che la vendita di parte delle (ingentissime) riserve in valuta da parte degli emergenti “sull’orlo” sia la maggiore preoccupazione del FOMC: il tentativo degli EMEs di contrastare l’apprezzamento del dollaro vendendo assets rischia di sommarsi al bias monetario, “scappando di mano” al Board Fed.
Chi si augura che mi possa ricredere su quanto avevo scritto (e altro seguirà a breve su Inclinamilastoria) sull’esistenza della trappola della liquidità, non ci conti. Il problema qui è di stabilità finanziaria, non di efficacia della politica monetaria.
E vogliamo dimenticare che il “punto d’arrivo” dei tassi considerati neutrali per gli effetti di politica monetaria è stato nuovamente rivisto al ribasso? E che le attese del dot plot del FOMC siano piuttosto dispersive?
E vogliamo parlare della crescente divergenza che è misurabile fra Taylor Rule e effettivo comportamento della Fed? E dei dubbi da più parti espressi sulla utilizzabilità della regola nello scenario attuale?

Anche l’approccio data dependent mi pare collida con il desiderio della Fed di mai “sorprendere”: perché ci continuano a dire che allora “ogni riunione è buona”? A me paiono dissociati, ma sicuramente esagero.
Infine, non sento dire una parola che sia una su un punto che invece io giudico fondamentale: data la grandezza del bilancio della Fed, a quanto ammonta il costo di un rialzo in termini di perdita in conto capitale? Ok che i titoli verranno tenuti fino a scadenza, ma siamo sicuri che non ci siano particolari concentrazioni di scadenze omogenee che possano rendere difficoltoso o più costoso il roll-over da parte del Governo Federale? Ok che una Banca Centrale può operare anche con patrimonio negativo, ma è mai stata valutato l’impatto di immagine DELLA FED IN ROSSO?

A ottobre avremo solo un altro report sull’occupazione, e forse i cinesi non avranno ancora deciso se continuare la loro personale forex war o meno. Probabilmente si andrà a dicembre con altri dati ancora da valutare, ma se il problema è la presunta efficacia dell’easing monetario sulle aspettative e la fiducia dei fuoriusciti dalla forza lavoro, e\o la presunta efficacia dei QE a stimolare i prezzi delle commodities quando il problema è eminentemente geopolitico, allora penso che possiamo pure sederci e attendere.

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Pubblicato da Beneath Surface

Alla soglia degli anta decide di tornare alla sua passione giovanile: la macroeconomia. Quadro direttivo bancario, fu nottambulo ballerino di tango salòn, salsa cubana e rueda. Oggi condivide felicemente la vita reale con le sue due stupende donne.

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