Era d’estate (parte seconda)

Quando ero ragazzino, a Torre Archirafi in certi torridi pomeriggi io e i miei compagni di avventure riuscivamo miracolosamente a sottrarci allo sguardo vigile e severo dei parenti.

Allora mi tuffavo in mare da quell’alta scogliera alla quale mi era assolutamente proibito avvicinarmi, e mentre stavo sospeso tra il cielo e il mare i rumori dapprima  si mescolavano e poi si attutivano in una progressiva evanescenza. Era d’estate, ora come allora: il tempo, ora come allora, rimane intrappolato in una bolla e prende a scorrere lentissimoma quanto ci metto ad arrivare a terra?

In preda ad uno straniante sdoppiamento si vede passare attraverso l’uscio di casa dei suoi, ed eccoli tutti e tre nel tinello in una serata d’estate, con tutte le finestre spalancate nella speranza di attirare un pietoso refolo d’aria, non fresca ma almeno mossa. Stanno cenando e il tavolo rotondo è illuminato da un brutto lampadario a bracci in ottone di diverse lunghezze innestati su una sfera, alle cui estremità ammiccano piccole lampadine tonde. Suo padre ha l’aria stanca dopo una giornata in fabbrica, ma un sorriso gli addolcisce i tratti mentre le parole rimbalzano leggere tra loro tre, e la chioma ricciuta della mamma risplende sotto la luce, nera come l’ebano.

Poi compare il volto da Madonna preraffaellita di Marina,

(quanto era bella negli anni del Volta),

hanno passato ore e ore vicini sui libri e non le ha mai detto che gli piaceva, l’ha avuta una sola volta senza capirla e non ha nemmeno saputo salvarla,

(non sono arrivato in tempo),

e chissà come convive ora con il ricordo dell’assassinio del marito violento, che certo avrebbe finito per ucciderla, ma ecco che affiora il viso bruno e sofferente di Magda. Il candido costume da ballerina scivola dolcemente sull’acqua scura del Naviglio in una notte d’estate, mentre il suo corpo giace immobile a terra sul ponte di San Cristoforo, bambola spezzata insieme ai suoi sogni, e lui aveva ostinatamente, ottusamente negato il suo evidente, irreparabile arrendersi.

E’ stato in quel luogo, in quella notte d’estate, che qualcosa nel profondo dell’animo si è disgregato e non sono più riuscito a fermarmi, se non quando un’oscura malinconia mi ingabbia costringendomi a ripiegare in un bozzolo impenetrabile, aspettando che passi.

E’ su quello stesso ponte che molto tempo dopo ha incontrato Mariateresa, ed ora intorno al suo placido viso da bambina saggia vorticano in una sorta di danza sabbatica le fattezze delle donne che gli è capitato di incontrare e che ha lasciato andare via con i loro tormenti ed i loro segreti, preferendo non conoscerli, o scegliendo deliberatamene di sospendere il giudizio nei confronti dei concetti antitetici di “bene” e “male”, perché a volte è molto più complicato.

Milano di notte, quanto può essere bella Milano in una fredda notte d’inverno, quando tutto tace e puoi sentire il suo respiro, e la tua mano chiusa a pugno nella mia, Mariateresa, dentro la tasca del cappotto, poi abbiamo visto sorgere il sole dietro il Duomo ed era davvero un giorno nuovo, ora è così chiaro (…ma quanto ci metto ad arrivare a terra?)

In realtà giace sulle piastrelle odorose di ammoniaca del pianerottolo già da qualche minuto, e l’urlo secco dello sparo si è propagato rimbombando per tutta la scala del popoloso condominio di via Padova diffondendosi anche all’esterno. I pochi inquilini che si trovano a casa a quest’ora del dopopranzo, per lo più persone anziane e qualche mamma con bimbi piccoli che malamente strappati al sonnellino pomeridiano ora piangono impauriti, più un paio di disoccupati che si frollano il cervello davanti alla televisione dal mattino alla sera, si rivolgono l’un l’altro domande ansiose:

“… veniva dal quinto piano? Sembra che sia scoppiato qualcosa, però fumo  non se ne vede, e ‘sta puzza strana non è proprio di bruciato…sarà mica stato uno sparo?”

Alcuni salgono cautamente per le scale, fino al quinto piano, dove il corpo imponente del Vice Commissario Alberto Patané riverso a terra ingombra il pianerottolo, e tutti vedono la macchia rossa che si sta allargando sulla camicia azzurra come un fiore mortifero,

“…è il figlio dei Patané, il poliziotto!”

Vedono anche Enzino Luserna: appoggiato all’uscio di casa, la pistola ancora in mano, il respiro affannoso e gli occhi dalle pupille dilatate fissi sulla figura a terra, è intrappolato nell’istante che ha cambiato per sempre il corso della sua vita.

E’ il signor Ferri, ex guardia giurata al Monte Paschi di via San Giovanni sul Muro, ora in pensione, a riacquistare per primo la lucidità necessaria per allontanare tutti quanti,

“…mica che quel disgraziato faccia una strage, si sa mai”,

e filare a chiamare prima un’ambulanza e subito dopo la polizia.

Sono sempre stato in ritardo, sono persino nato in ritardo, così mi sono perso il CBGB’s migliore, quello della seconda metà degli anni ’70, che mentre si esibivano i Talking Heads e i Television io andavo all’asilo, e alla fine degli anni ‘90 ho visto New York e il Lower East Side, ma erano ormai un’altra cosa e il momento magico del CBGB’s era finito per sempre. Non sono nemmeno riuscito a vedere New Orleans prima dell’uragano Katrina, ed è vero che comprendi il valore delle cose quando le hai perdute, o quando non le hai mai avute e ad un tratto realizzi che è irrimediabilmente passato via il momento buono per tentare di afferrarle – sì, ma adesso che c’entra l’America?

Sua madre e suo padre che guardano il mare, uniti in un abbraccio inscindibile e complice che è la promessa mantenuta di reciproco sostegno, di immutato affetto, di profonda comprensione.

“Cerca di non restare da solo, figlio mio, ché la solitudine in vecchiaia è una brutta cosa, ti inaridisce e ti rimbambisce anzitempo”.

Poi, è solo buio.

Odore di chiuso, ma anche di disinfettante. Qualche fruscio, un bisbigliare indistinto e lontano, Soprattutto, un diffuso senso di intorpidimento ed una gran nausea.

Socchiude i larghi e obliqui occhi verdi, il Vice Commissario Alberto Patané, ed è trafitto dal bianco abbagliante della parete di fronte. Gli appare all’improvviso il volto di Mariateresa, e i lacrimoni che colano irrefrenabili dai begli occhi da cerbiatta gli piovono tiepidi sul naso, facendogli il solletico. Ma perché piange? Non le ha ancora chiesto di sposarlo. O lo ha già fatto? Poi, di colpo ricorda.

Mentre i colleghi del Commissariato di Viale Monza procedevano all’arresto di Enzo Luserna, che aveva continuato a rimanere bloccato nel ricordo di quell’istante maledetto, ed informavano dell’accaduto la Questura di via Satta, l’ambulanza lo aveva portato a sirene spiegate al Pronto Soccorso dell’Ospedale di Niguarda, dal quale era stato immediatamente trasferito in sala operatoria. Era stato Rovelli ad avvisare Mariateresa, ed insieme erano immediatamente corsi all’ospedale.

“E’ stato molto fortunato, il suo aggressore ha una pessima mira: il proiettile ha mancato il muscolo cardiaco per pochi centimetri. Stia allegro, ché se tutto va bene tra qualche giorno sarà di nuovo in circolazione”,

dice la bella dottoressa dai lunghi capelli scuri e mossi legati a coda di cavallo. Sapere che lo ha operato lei lo rassicura, ha un’aria energica e risoluta ed emana un buon profumo di gelsomino.

Però non è stata solo fortuna. Per una volta è arrivato in tempo, con quel provvidenziale slancio laterale da ex portiere: ma al Vice Commissario Patané non piace vantarsi. E tuttavia un pochino lo farà, più tardi, parlando con Mariateresa e con Rovelli, perché del tempismo che gli ha salvato la vita stavolta si sente fiero, ed è contento di non avere sparato al ragazzo.

Più tardi arriveranno i suoi, che sono stati avvisati da Mariateresa: benché la ragazza abbia cercato di minimizzare si sono precipitati all’aeroporto di Catania. Giungerà anche il Commissario Saronni, che probabilmente non gli perdonerà mai di avergli stroncato sul nascere l’agognata vacanza.

Verso sera, osservando Mariateresa che è rimasta con lui ed ora ha riacquisito la consueta espressione serena, appena un poco increspata da una sollecitudine quasi materna, mentre la mente si divincola dal’ottenebramento vischioso dell’anestesia e gli accadimenti delle ultime ore si ricompongono in un ordine logico, si ricorda all’improvviso dell’anello.

“Mari, ma dov’è la mia giacca?

“…quello straccio di sahariana che avresti dovuto buttar via da tempo, intendi? Peccato che non l’avevi indosso, così è solo sporca. Comunque è nell’armadietto”.

“Dammela, per favore”

“…a che ti serve adesso?”,

e gliela porge tenendola tra pollice e indice, come se reggesse un topo morto per la coda. Lui l’afferra e subito palpeggia la tasca destra, chiusa con il bottone sulla pateletta, e si rilassa quando percepisce i contorni rigidi dello scatolino rivestito di raso blu.

“…mi serve per una proposta di matrimonio”.

Il faccino tondo di Mariateresa si scompone e si ricompone in tutti i colori del caleidoscopio, e quando finalmente gli butta le braccia al collo gli fa un male della madonna ma lui, stoicamente, sopporta. Oggi si sente un’eroe.

Dopo l’ondata amorevolmente ansiogena dei suoi e burberamente affettuosa del Commissario Saronni, si sente esausto: occorre lasciar decantare le emozioni della giornata, ma senza musica non ci riesce, e cade in un sonno agitato.

La mattina dopo quando si sveglia si convince che se vuole sopravvivere alla forzata inattività senza dar di matto deve occuparsi comunque del caso di via Graf. Parla a lungo al telefono con Saronni, dal quale apprende che la chiavetta USB del reporter assassinato è crittografata e il loro esperto di informatica, il giovane agente Furlanetto, che dice sempre che se non fosse entrato in polizia avrebbe fatto l’hacker e sicuramente avrebbe guadagnato di più, ci sta lavorando.

Quando arriva Arturo Giacometti, l’amico cronista di nera in disarmo, lo trova seduto sul letto, dei fogli di carta scarabocchiati a penna sparpagliati sulle gambe incrociate e le mani intrecciate in grembo: un Buddha troppo alto e senza pancia, con la consueta espressione concentrata negli obliqui occhi verdi stretti a fessura, come se stesse cercando di mettere a fuoco qualche orizzonte remoto. Quando si salutano ha gli occhi un poco lucidi, il Giacometti, perché negli ultimi mesi si sono frequentati parecchio e si è affezionato a quest’uomo così sotterraneamente irrequieto, solidamente razionale eppure, di tanto in tanto, vittima consenziente di feroci attacchi di malinconia. Non ha figli, l’ex cronista, ma se ne avesse avuto uno gli sarebbe piaciuto che fosse così.

Il Vice Commissario gli racconta dell’omicidio del Bertelli, e di come gli appaia professionale lo sconquasso perpetrato nel suo appartamento in via Graf, dove abitava da circa un anno. Chi poteva riguardare lo scoop del quale aveva parlato con la veterinaria? E se aveva così paura, perché non si era rivolto alla polizia?

 “…un free lance, dici. Il nome non mi dice niente, eppure ho la presunzione di conoscere tutti nell’ambiente, che continuo a bazzicare: sai com’è, dopo tanti anni…comunque proverò a fare delle domande in giro”.

Era d’estate: ospedale Niguarda Cà Granda, quarto giorno. Le ore scorrevano lente in una costante penombra tiepida, ed era come stare immersi in una tazza di brodo. Odore di disinfettante, di pigiami sudati, di brodo fatto col dado, di capelli sporchi. Un giorno tutto questo sarà solo un ricordo sbiadito, come tanti altri.

 La bella dottoressa dai lunghi capelli ondosi che sa di gelsomino dice che tra un paio di giorni lo dimetteranno. Il Vice Commissario non ricorda di aver mai desiderato tanto che le ore fluiscano veloci, nemmeno quando era adolescente e aveva addosso quella fretta di vivere di chi non ha ancora imparato a temere il tempo che passa.

Intanto, l’agente Furlanetto patisce di orgoglio ferito, perché chiunque abbia installato il sistema di protezione dei files contenuti nel dispositivo del Bertelli è davvero bravo: persino più di lui. Nel frattempo, l’Ispettore Rovelli sta cercando di raccogliere notizie sulla vita dell’assassinato, ma non è facile: iscritto nell’anagrafe milanese il 12 agosto 1981, laurea in giornalismo nel 2006, i genitori periti in un incidente d’auto sull’Autostrada del Brennero nel 2007. Non risultano parenti in vita, non era sposato. Daria Sirtori lo incontrava ogni tanto al Vogue, al Blue Note o al Jamaica, dove qualcuno si ricorda di lui, ma nessuno lo conosceva bene. Soprattutto, non si capisce dove abbia vissuto prima di arrivare a Quarto Oggiaro nel 2016. Il Giacometti ha mosso le sue pedine, e ne è risultato che nessuno, negli ambienti della stampa milanese, ha mai avuto a che fare con Leopoldo Bertelli, la cui figura è sempre più evanescente, neanche fosse uno dei tanti fantasmi che popolano le zone oscure di Milano.

La mattina in cui lo dimettono piove, dal cielo grigio scende un’acquerugiola sottile e malmostosa e il Vice Commissario si chiede se i giorni non siano trascorsi più in fretta di quanto volesse, trasportandolo direttamente al mese di ottobre. Sarà colpa del tempo, ma la ferita gli fa un po’ male e quasi ha nostalgia della presenza vigile e tranquillizzante della bella dottoressa profumata di gelsomino: ma tutto passa appena mette piede in casa, nell’intimità familiare del suo spazio personale ed esclusivo, e allungato sul divano chiude gli occhi e ascolta beato i piccoli rumori di Mariateresa che si muove per casa, sistema la spesa, prepara il pranzo. E’ pronto, qualunque cosa significhi.

La mattina dopo Rovelli lo preleva e insieme si recano al Commissariato di via Satta, dove lo accolgono con pasticcini e caffè. La piccola festa è interrotta da una telefonata ricevuta dal Commissario Saronni, il quale ascolta in silenzio e dopo aver masticato un contrariato

“…sissignore, certo”,

si dirige verso il suo ufficio a passo di marcia dicendo a Patané, a Rovelli e all’agente Furlanetto di seguirlo.

“Era il magistrato. Dice che lo ha contattato un collega di Roma, perché dal Commissariato Esquilino hanno riconosciuto nel defunto Leopoldo Bertelli l’Ispettore Franco Massa, che era a Milano sotto copertura nell’ambito di un’indagine sul traffico di droga. Tutto è incominciato dall’omicidio di un corriere colombiano legato al cartello di Medellin, e l’indagine l’anno scorso li ha condotti a Quarto Oggiaro, dove l’ispettore era riuscito ad introdursi in un gruppo di spacciatori su larga scala. L’indagine è di competenza romana, ma dovremo cooperare con i colleghi, che arriveranno domani e ai quali dovremo consegnare tutti i reperti”.

A parte le ovvie considerazioni sulla mancata informazione preventiva e sulla conseguente assenza di cooperazione, il Commissario spiega che il Massa tre mesi orsono aveva interrotto le comunicazioni con il suo coordinatore, riferendo che temeva di essere controllato. Aveva anche affermato di essere vicino a raccogliere prove determinanti per smantellare un’organizzazione che operava in tutto il nord Italia. Non vi erano più stati contatti, fino a quando non avevano letto sui giornali dell’omicidio di via Graf.

“Ora, Furlanetto, chiuditi nella tua stanza e trova il sistema di aprire quei files. Hai tempo fino a domani mattina”.

Sono le due di notte quando Furlanetto chiama Saronni,

“Commissario, ce l’ho fatta. Venite subito”,

il quale sveglia Patané che telefona a Rovelli perché lo vada a prendere, e quando arrivano scoprono che il giovane agente si è chiuso a chiave nel suo ufficio e ha la faccia stravolta e imbambolata, gli occhi chiari arrossati come quelli di un coniglio dietro le lenti degli occhiali. Si siede davanti al pc, sul quale fluttuano mollemente le bolle trasparenti in campo blu del salvaschermo. Dopo un attimo, sblocca lo schermo digitando una password. Durante l’ora successiva, tanto ci vuole per leggere il rapporto dell’Ispettore Massa e guardare foto e video, nessuno fiata: perché per quanto si possa essere armati di un certo cinismo ed essere avvezzi alla corruzione ed al malaffare, scoprire che un eminente politico milanese, coadiuvato da un paio di servizievoli tirapiedi, tratta direttamente con emissari del cartello Medellin non è una notizia facile da digerire.

Parlano a lungo, Saronni, Patané e Rovelli, in quell’alba di luglio che sta risvegliando Milano, perché il sole continua a sorgere, indifferente alla puzza di marcio che ammorba una parte della città mentre l’altra parte si arrabatta per far quadrare i conti, anche quelli con la propria coscienza. Alla fine il Commissario prende una decisione: avviserà il magistrato, che si era raccomandato di consegnare i reperti ai colleghi romani ma in fondo non aveva detto di non lavorarci sopra, e si vedrà cosa succede.

Succede che si incazza, il magistrato, e i colleghi romani fanno i risentiti. Sembra che non interessi più a nessuno scoprire chi ha ammazzato l’ispettore Massa alias Leopoldo Bertelli, ma il Vice Commissario Alberto Patané è sicuro che alla fine salterà fuori un capro espiatorio pescato a caso tra gli spacciatori di quel giro. Fatto che puntualmente si verifica una settimana dopo, e Saronni viene cortesemente informato dal magistrato che il caso per quanto li riguarda è chiuso e l’attendibilità dei rapporti del defunto ispettore Massa sarà valutata nelle sedi competenti.

“…tutto chiaro, Dottor Saronni?”

“non dubiti, chiarissimo”.

Tuttavia, sull’attendibilità di foto e video con tanto di audio non c’è proprio nulla da chiarire.

“Da quanti anni sei a Milano, Patané?”

“Ci sono nato, nel ’72. Ho fatto il servizio di leva a Roma e ci sono rimasto per tutta la durata dell’Accademia di Polizia, poi sono tornato qui”.

“Ecco, io sono nato a Porta Romana nel ’61, e so che Milano non si merita quella gente lì”.

“Milano è anche quella gente lì, ma non è un buon motivo per non liberarsene”.

“Bene, allora siamo d’accordo”.

Non ci vuole molto per convincere il Giacometti a consegnare il contenuto del dispositivo USB, di cui il Vice Commissario Alberto Patané ha fatto diverse copie prima di consegnare i reperti ai colleghi romani, ad alcuni amici giornalisti: per precauzione, di più testate.

La tempesta d’agosto si scatenerà nell’atmosfera rarefatta di una metropoli in provvisorio stato di abbandono. Meglio così, in fondo, meno clamore, più scioltezza nelle indagini; i milanesi attenti alle notizie si indigneranno il giusto e metabolizzeranno velocemente, passando oltre: al rientro dalle ferie la signora mostrerà un volto aristocraticamente riposato e levigato, e nessuno penserà mai ad un intervento cruento.

Milano è una città robusta, capace di produrre anticorpi agguerriti e di risorgere dal mucchietto maleolente delle proprie ceneri, finché ci saranno uomini sognatori e caparbi che si ostineranno a svuotare il mare armati di cucchiaino: ma ce ne saranno sempre.

https://youtu.be/imFJBwp0pf0

 

 

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Pubblicato da Sonia Fantozzi

Spirito irrequieto alla costante ricerca dei perché e dei percome. Ha lasciato Milano,ma in cima a una collina ha scoperto che sarà milanese per sempre.

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