Di famiglie, di case e di partenze per le vacanze

Uno dei motivi profondi per amare e invidiare le civiltà  del Mediterraneo è la maestria con cui da secoli sopravvivono all’estate. Puntualmente, quando si arriva a giugno, vuoi perché finiscono le scuole, vuoi per l’arrivo del demone meridiano, la famiglia che può permetterselo chiude casa e si trasferisce armi e bagagli nella residenza estiva. Chi nella casa al mare, chi nella casa di campagna, poco cambia.

« Il trasloco a Mosè avveniva in più riprese. Di prima mattina Paolo, l’autista, caricava sulla jeep valigie, pacchi e detersivi e portava in avanscoperta Filomena e Caterina perché pulissero la casa e sistemassero le provviste nel riposto prima del nostro arrivo, nel pomeriggio. Il tragitto da Agrigento, dove abitavamo, alla nostra casa di campagna, in contrada Mosè, era breve – non più di venti minuti – e Paolo ritornava in città dopo colazione per fare un secondo carico e prendere gli altri tre passeggeri: Julinka, o Giuliana, come la chiamavamo noi, la bambinaia ungherese Francesca, sorella di Filomena e cameriera «fine» di mamma rimasta a casa per servire a tavola i miei genitori; e io. La jeep avrebbe seguito la Lancia 1700 – un coupé amaranto, il solo in tutta Agrigento – guidata da papà, con accanto mamma che teneva in braccio mia sorella Chiara.

Simonetta Agnello Hornby, Un filo d’olio

Un esodo a chilometri zero. O quasi. Al sole intatto dell’infanzia si contrappone il mondo dei grandi. In mezzo, il grande mistero della famiglia italiana. “Come per ‘Downton Abbey‘, c’è voglia di resilience, di consistenza, di vecchio-e-nobile, ai piani alti e ai piani bassi“. C’è questo profumo di grandiosità sempre in bilico tra epopea e cretinismo, il segno profondo della famiglia, della stirpe: sangue, suolo e un filo d’olio, appunto, a cui aggrappare la vita. Sfogli quelle pagine e senti il gracidio delle cicale nel solleone e ti senti vivo. Almeno un po’.

Questa specifica accezione di transumanza avviene tipicamente in macchina, o meglio: l’immaginario italiano (non solo italiano, forse latino), quell’immaginario fatto di maschi alfa e di famiglie al seguito fatica a concepirlo diversamente. Il Viaggio della Speranza™ prevede tassativamente la partenza nei giorni da bollino rosso, in cui padri irosi creano code di silenzi e terrore dentro il fumo di sigaretta. Alcuni sparuti padri illuminati spezzano il viaggio in due tappe duplicate (la prima con bagagli e vettovaglie per aprire casa, il secondo per il dispatrio dei familiari). Variante agiata: si va con due macchine, zeppe di familiari e di cose, come nel caso degli Agnello verso Mosè, estate 1952. Recapitate le famiglie a destinazione, i guidatori tornano.

E a Palermo, dunque, ma anche a Milano, a Como, a Empoli e a Viggiù, dove abita il padrone della città di Stoccolma, è tutta una teoria di padri e di mariti in città, rimasti a lavorare e a dormire in quelle case afose e mezze chiuse, letti non rifatti e odore di chiuso, coi lenzuoli a proteggere divani dalla polvere e le cene in magliette leggere e bibite gassate e film di Totò e Peppino alle ventitré. Padri mai spietati millantatamente eroici e un po’ tristi, a raggiungerci in campagna o al mare nei fine settimana. 

Ma quel viaggio in macchina, eroico (quello sì), sembra impossibile possa sopravviverci.
Nel mondo del carsharing ubiquo e delle macchine che si guidano da sole non ne resterà traccia. Nessun rimpianto, in fondo non sarà né meglio in assoluto né peggio, solo fatico a pensare la transumanza a guida zero. Nel documento che Sergio Marchionne ha presentato agli investitori nei giorni scorsi c’è la piena consapevolezza di uno scenario in totale discontinuità con l’automotive a cui siamo abituati, in cui siamo nati. L’International Transport Forum fa un passo oltre e immagina esplicitamente un futuro non lontano in cui la mobilità sia totalmente robotizzata e affidata a piattaforme di carsharing senza guidatore:

We investigated two system configurations (…), both of which consist of fully self-driving vehicles:

– A ride sharing system, where travellers share time and space resources by travelling in the same car simultaneously up to the capacity limit of the vehicle. The cars may either be privately owned by one rider or from a car fleet company. We labelled this a “Taxi Robot” system, or TaxiBot.

– A car sharing system, where travellers share time resources by travelling in the same car sequentially. In this case, car fleets are normally owner by a car fleet manager, although there are also some incipient peer-to-peer experiments. We labelled this an “Automated Vehicle Robot” system, or AutoVot.

Io non so nemmeno se consigliarvene una piena lettura. Mi limito a constatare che la storia dei media è fatto di centralità delle automobili e del loro abitacolo come luogo privilegiato di pensiero per l’uomo occidentale. Per dirla con McLuhan, l’automobile è diventata il carapace, la conchiglia protettiva e aggressiva dell’uomo urbano e suburbano. Di come possa evolvere il maschio alfa italiano, quello che “scopa, mena e manda la machina”, in persona connessa a una piattaforma ubiqua di carsharing non mi è dato sapere. Tanto meno come partirà per le vacanze, zeppo o meno di atomi al seguito. Forse la lingua morta è il contrario della lingua salvata, forse sono la stessa cosa.  Ciò che per ora è così, quello che resterà è già avvenuto senza placarsi. Certo servirà la fiducia, affidarsi, avventurarsi, partire. Perché una cosa è certa: anche quell’uomo partirà, sognando di sognare se stesso in vacanza.

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Pubblicato da Filippo Pretolani

Non tutto quello che esiste implicitamente ha bisogno di essere reso esplicito — Peter Sloterdijk. Fondatore di Gallizio editore e co-fondatore dell’Istituto Kaspar Hauser per gli Studi Economici.

Una risposta a “Di famiglie, di case e di partenze per le vacanze”

  1. o che tristezza immaginare la scomparsa di quel maschio alfa. Che nella mia personale storia era un papà viaggiatore per lavoro e super organizzato, che “partiamo all’alba così viaggiamo col fresco, non più di una sosta pipì e a mezzogiorno siamo là”. Là era la Romagna da Milano, o le Dolomiti sempre da Milano, in agosto. Via dalla puzza della periferia nord ovest, verso profumi estivi e serate fuori e amicizie fraterne con i vicini di ombrellone o con i compagni di salita alla malga. L’amato rito della chiusura dell’appartamento con spunta finale (chiuso tutto? luce? acqua? chiavi ai vicini fidati che non si sa mai?), e già si pregustava l’euforia del viaggio verso due settimane di libertà e di altrove.
    Un viaggio che per me era un susseguirsi di pisolini e di canti di montagna (anche quando andavamo al mare) in duetto con l’eclettico papà, che dopo aver giocato a pallacanestro (pivot, non era mica tanto alto), aver suonato la chitarra e ballato con i ballerini di una delle prime edizioni di Studio Uno, aveva anche girato l’Italia in tournée con il coro Alpi di Milano, dove cantava come basso profondo.
    Ancora oggi, quando parto per le vacanze estive da un luogo che non è più Milano e dove la mia anima milanese si sente perennemente in vacanza, e guarda le colline ogni giorno con rinnovata meraviglia, cerco di riprendere il filo di quella sensazione di proiezione verso un luogo agognato dove ogni giorno sarà una pacifica avventura.
    Peccato che mio marito non canti.

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