Una domenica al Luna Park

Nel 1974, anno in cui gli italiani dissero “no” all’abrogazione della legge sul divorzio, i movimenti femministi, già attivi localmente dai primi anni ’70 con l’impegno concreto nel sociale e la pratica dell’autocoscienza, si strutturarono e si organizzarono a livello nazionale.

Il primo grande convegno nazionale, con la partecipazione di oltre 700 donne provenienti da tutta Italia, si svolse a Pinarella di Cervia all’inizio di novembre, e dimostrò la consistenza e la determinazione del movimento. I tempi stavano cambiando, e le donne volevano ragionare, discutere e decidere sulle proprie prospettive presenti e future.

In quegli anni i milanesi residenti all’Isola non erano considerati dei privilegiati: il rione, separato fisicamente dalla città dai binari della ferrovia, era un fitto reticolo di vie fiancheggiate da case di ringhiera e alloggi popolari, che accoglievano gli operai assunti nelle fabbriche presenti sul territorio, ma anche alla Bicocca e a Sesto San Giovanni.

Quartiere proletario (quando il termine significava ancora qualcosa) insomma, ben lungi dall’odierna gentrificazione (neologismo ancora di là da venire), e certi angusti cortili dove il sole non riusciva a penetrare nemmeno in luglio, insieme alle cantine comunicanti, nei decenni passati si erano rivelati un rifugio perfetto per molti esponenti della malavita milanese, la cosiddetta ligera, soppiantata in quegli anni da biscazzieri e spacciatori che nemmeno si nascondevano più tanto.

Gli altri milanesi erano a due passi, appena al di là del cavalcavia Bussa, costruito negli anni ’60 al posto dell’antico ponte di ferro che collegava via Borsieri a Corso Como. Nella sua insensata bruttezza rappresentava l’ostinata determinazione di una popolazione nel sapere opporsi efficacemente ai diversi progetti che prevedevano grandiose colate di cemento per incorporare l’Isola alla città: nello specifico, il cavalcavia Bussa era l’unica opera compiuta di un ambizioso piano comprendente la realizzazione di una superstrada per collegare via Mario Pagano a viale Zara, passando sopra (letteralmente) a molte abitazioni del quartiere Isola. A parte il problema non irrilevante dell’esproprio e della demolizione di una quantità di alloggi, passaggio forzato di molti disegni simili, gli abitanti dell’Isola sono sempre stati orgogliosamente fieri del loro stato di milanesi appartati: e in effetti all’Isola si respirava l’aria diversa di un ambiente relazionale fitto, strettamente collegato al senso di appartenenza a quel luogo, e di un modo speciale di viverne tempi e spazi[sociallocker id=11716].[/sociallocker]

Tra le case di ringhiera e quelle a pianerottolo, non proprio signorili ma con qualche pretesa, i laboratori artigiani, le drogherie, i negozietti di alimentari e le numerose osterie,  ci si poteva inaspettatamente imbattere anche in qualche elegante edificio in stile liberty. Comunque, la “casbah de Milan”, come veniva spregiativamente definita l’Isola, la sera non era un luogo proprio raccomandabile, come d’altra parte non lo era nessun quartiere popolare di Milano negli anni 70, e anche dopo.

“…va bene, puoi andare: ma rientri per le sei e ti porti tua sorella.”

“dai, mamma…ci sono le mie compagne di classe, che c’entra Miriam?”

“…o te la porti o stai a casa. Almeno esce un po’ anche lei, povera anima…”

e questo troncò la discussione. Milena sbuffò, scocciata dalla prospettiva di tirarsi dietro quell’impiccio di sua sorella, proprio quella domenica che avevano appuntamento con alcuni ragazzi dell’ultimo anno del Gonzaga, dove studiava il fratello di una sua compagna.

Nati e cresciuti all’Isola, Luigi e Paola quando si erano sposati erano andati in affitto in una casa di ringhiera al numero 14 di via Borsieri. In quei tre locali, ma soprattutto sul ballatoio, erano cresciute le due figlie per le quali il papà e la mamma, rispettivamente operaio alla Gondrand e impiegata alla metalmeccanica Brown Boveri, sognavano un futuro meno faticoso del loro presente: così si sobbarcavano volentieri il sacrificio di molte ore di lavoro straordinario per farle studiare. Milena e Miriam, diciassette anni la prima e sedici la seconda, frequentavano dunque la quarta e la terza all’Istituto Magistrale Carlo Tenca, a Porta Volta.

Quando era nata Milena, tutti erano rimasti estasiati dalla bellezza di quella bimba rosea con la boccuccia a cuore e gli occhi blu. Con il passare degli anni era apparso evidente che avesse preso dalla madre alla quale assomigliava nell’insieme, ma era una tela rifinita meglio, con i colori più vividi e le forme più opulente, ed un’aura vitale e spensierata. Crescendo era diventata ancora più bella, persino nell’età ingrata dell’adolescenza, e a diciassette anni era già pienamente consapevole dell’effetto che faceva ai maschi di qualsiasi età.

La piccola Miriam, pur palesando nelle fattezze il legame di parentela con la sorella, non era riuscita altrettanto bene: di corporatura massiccia, non possedeva le stesse morbide ma toniche rotondità, e con la pubertà si era ulteriormente ingrossata. Paffuta, diceva la mamma, ma in realtà era grassoccia e già afflitta da una precoce flaccidezza. A differenza di Milena, che aveva lunghi capelli ondulati del colore dell’ambra, possedeva una capigliatura crespa di un’incerta tonalità chiara, sotto la quale il volto tondo dagli occhi di un celeste slavato e dalle labbra sottili pareva ancora più pallido. Se non avesse dovuto subire ogni giorno il confronto schiacciante con la gioiosa prestanza della sorella, forse non avrebbe sofferto così tanto per il suo aspetto. Più di tutto, non sopportava l’espressione che coglieva quando lo sguardo di Milena si posava su di lei, poiché non era di affettuosa compassione, che sarebbe stato già sufficientemente fastidioso, ma di distaccato, superiore compatimento.

Naturalmente, mentre la sorella maggiore era molto popolare, usciva spesso e aveva già una discreta conoscenza di certi androni scuri dove ci si poteva appartare con il ragazzo di turno, la minore conduceva una vita molto riservata. Studiava volentieri, tanto che i professori ai colloqui con i genitori non mancavano di elogiare la sua mente brillante ed intuitiva, e ogni tanto frequentava un circolo di femministe che si riuniva nel retro della bottega di una delle promotrici. Era affascinata dai loro discorsi di indipendenza e di rivendicazione di diritti che trovava sacrosanti, per esempio quello alla carriera. Però, quando la domenica le capitava di vedere dalla finestra della sua camera Milena che agghindata e sorridente correva incontro a un ragazzo che la aspettava sulla strada, e poteva leggere la trepidazione ansiosa di lui nello sguardo adorante e nell’incedere impacciato con cui muoveva nella sua direzione, provava una feroce sofferenza, e pensava che almeno una volta nella vita le sarebbe piaciuto essere gratificata della medesima concupiscente attenzione.

Quella  domenica non aveva voglia di uscire, fuori una leggera ma ostinata foschia avvolgeva l’Isola ed era premessa di una fitta nebbia che sarebbe di certo calata di lì a poco. Tuttavia, la mamma aveva tanto insistito nonostante sua sorella fosse evidentemente seccata, così si cambiò, infilò il paltò marrone alla militare che la faceva sembrare ancora più quadrata, ma a lei piaceva tanto, e seguì su per il cavalcavia Bussa il passo nervoso delle belle gambe di Milena inguainate negli stivali a mezza coscia, che si intravvedevano tra i lembi svolazzanti del lungo cappotto.

Si incontrarono con le amiche della sorella e si diressero verso il Luna Park Varesine, dove si sarebbero incontrate con i ragazzi del Gonzaga.

Tra via Galileo Galilei e viale Liberazione si innalzava il terrapieno di proprietà delle Ferrovie sul quale un tempo sorgeva la vecchia Stazione Centrale, demolita nel 1931 e ricostruita a meno di un chilometro di distanza. Rimasto sgombro ed inutilizzato da allora, fin dai primi anni ‘60 era stato periodicamente occupato dalle compagnie circensi quando transitavano da Milano e dai giostrai, i quali nel corso del decennio divennero stanziali, dato che nessuno si oppose a questa pacifica occupazione. Vi si accedeva per mezzo di una larga scala metallica sormontata alla sommità dall’insegna luminosa “LUNA PARK VARESINE”.

Sebbene le ragazze si considerassero troppo grandi per quelle innocenti attrazioni, quel luogo aveva il duplice pregio di essere facilmente raggiungibile a piedi ma sufficientemente lontano dagli sguardi vigili degli abitanti dell’Isola, che faticavano a farsi gli affari loro, anche con i figli degli altri. Innegabilmente, quell’ambiente alieno e paesano, colorato e vociante, dove si mescolavano e sovrapponevano le musiche provenienti dall’autoscontro, dalle giostrine con i cavalli e le diligenze, dai vari tirassegno, dall’ottovolante e dalla ruota panoramica, e in cui tutte avevano trascorso molte ore con i nonni negli anni dell’infanzia, possedeva l’attrattiva di uno sgangherato Paese dei Balocchi che si ergeva fisicamente e metaforicamente al di sopra della città, dove era persino possibile infrangere qualche regola senza patirne le conseguenze, una volta tornate laggiù.

Purtroppo, a giudicare dalle siringhe che al mattino si trovavano in terra, durante le ore notturne quando la musica taceva e le uniche luci che interrompevano l’oscurità provenivano dalle finestre delle imponenti roulottes dei giostrai, parcheggiate sullo stesso terrapieno appena dietro le strutture del Luna Park, c’era anche chi si perdeva in un personale labirinto degli specchi dal quale non sarebbe probabilmente mai più uscito. Ma di giorno si poteva sognare e credere che gli Orrori restassero chiusi nella Casa e soprattutto che non fossero veri, e che quel fumo denso e grigio che si intuiva salire da viale Tunisia e Piazza della Repubblica non fosse veleno capace di corrodere marmi e polmoni, ma che facesse anch’esso parte di un’innocua finzione.

I tre ragazzi del Gonzaga avevano raggiunto Milena e le sue amiche  e in virtù di un antico e collaudato processo chimico dopo un poco i due gruppi si erano amalgamati e ricomposti in coppie.

“…fai pure un giro qua attorno, Miriam, ma non lasciare il Luna Park. Ci vediamo alle cinque e mezza in punto davanti all’ingresso, d’accordo?”

aveva detto Milena, e Miriam aveva capito il messaggio.

Si era comprata delle caldarroste da un ambulante e aveva visto gli altri dirigersi verso l’autoscontro. Era rimasta per un bel po’ ad osservarli, sballottati dentro quelle minuscole macchinine senza ruote, interrogandosi sulle pulsioni aggressive ed autolesioniste che parevano essere alla base di quel divertimento. Perché Miriam, ragazzina dotata di un’intelligenza profonda e meditativa, trascorrendo molto tempo ad osservare gli atteggiamenti e le abitudini degli altri, si poneva spesso simili domande.

Ad un tratto rimase incantata ad osservare la sorella che rideva arrovesciando la testa all’indietro, i lunghi capelli che ondeggiavano fino a sfiorare il posteriore arrotondato della vetturetta, mentre il ragazzo che  le sedeva accanto faceva scivolare il braccio intorno alle sue spalle e chinava rapido la testa sulla sua gola candida. Si ritrovò a pensare che comunque fossero andate le cose negli anni futuri, sua sorella un giorno avrebbe potuto ripescare nella memoria il ricordo del bacio di quel ragazzo al Luna Park, in una domenica uggiosa di novembre, e avrebbe potuto sorriderne con imbarazzata tenerezza. E chissà quanti altri momenti simili avrebbe potuto rammentare, mentre a lei sarebbe rimasto lo struggimento per la loro assenza.

Le piombò addosso uno scoramento opprimente, e quando alla fine del giro li vide che si allontanavano abbracciati dirigendosi verso la Casa degli Orrori immaginò che nel buio di quell’antro puzzolente non si sarebbero di certo spaventati, perché non avrebbero visto proprio nulla, e la tristezza si andò pian piano tramutando in rancorosa invidia. Fu allora che notò il ragazzo che se ne stava appoggiato ad un palo della luce a pochi metri di distanza: era senz’altro più grande di lei, indossava dei jeans, un giubbotto di cuoio e scarpe grossolane, e fumava una sigaretta. Aveva lunghe basette e un ciuffo di capelli castani che gli ricadeva sugli occhi, e nel complesso aveva l’aria di un bulletto di periferia.

Il ragazzo gettò a terra il mozzicone e lo schiacciò sotto il tacco, scostò i capelli dalla fronte con un gesto energico della testa e la guardò. La soppesò con attenzione, la squadrò da capo a piedi stringendo leggermente gli occhi ed infine si mosse con passo elastico e deciso nella sua direzione.

“Perché vieni qui se non ti piacciono le giostre?”

Miriam si sentì avvampare e subì per un attimo la prepotenza di quegli occhi impudenti e strani, perché uno era marrone e l’altro verde, e questo dava al volto del ragazzo, un volto dai tratti marcati ma molto attraente, un aspetto ingannevolmente asimmetrico.

“…aspetto mia sorella, e poi che ne sai che non mi piacciono le giostre?”

Il ragazzo rise, una risata breve e roca:

“Ti osservo da un po’, e ti ho vista sempre ferma a guardare”.

Ti osservo da un po’.

“Sì, non mi interessano granché. Ma oggi è andata così”.

Miriam lo guardò meglio: aveva mani grandi, forti e rovinate, non era certo uno studente o un impiegato ed era anche un poco rozzo, ma nel complesso era davvero un bel ragazzo, e l’aveva avvicinata,  le stava parlando, faceva un sacco di domande, e non le toglieva quei bizzarri occhi bicolori di dosso.

E lei avrebbe voluto possedere almeno un’ombra della grazia disinvolta e della consumata civetteria della sorella, ma non era così, e il ragazzo non pareva tipo da discorsi particolarmente profondi. Però amava il cinema e aveva visto un sacco di film, e dunque Miriam si aggrappò a quel comune interesse e ne parlarono per un po’, mentre la foschia si addensava velocemente dal basso, e il Luna Park pareva più che mai uno spazio sospeso nel nulla.

“Hai mai visto le case dei giostrai da vicino?”,

disse lui ad un certo punto, con un’espressione febbrile in quegli occhi spaiati.

“…sono bellissime. Vieni, ti faccio vedere”,

e così dicendo la prese per mano, e Miriam si accorse che una delle amiche di sua sorella osservava stranita la scena: si sentì fiera e baldanzosa, e lo seguì ricambiando la stretta di quella mano ruvida.

La nebbia stava salendo, inghiottiva con lenta risolutezza la ruota panoramica e l’ottovolante, e i cavalli delle giostrine parevano frettolosi di mettersi al riparo.

Girarono per un poco attorno a quelle straordinarie case ambulanti con le tendine alle finestre, e si trovarono infine davanti ad una sorta di capanno in lamiera dove erano riposti degli attrezzi. All’interno c’era un odore metallico e polveroso e quando il ragazzo la spinse contro una parete e le si appoggiò addosso la struttura oscillò appena e lei si irrigidì, pensando confusamente che dopotutto era quello che faceva sua sorella nell’oscurità degli androni.

Ebbe paura del suo fiato caldo e ansimante sul viso e delle sue mani raspose che frugavano con furia sgarbata sotto il paltò, e si chiese se quello fosse davvero ciò che voleva. Poi lui posò per un breve istante le labbra sulle sue con inattesa delicatezza: allora lo guardò negli occhi cercando di decidere in quale dei due perdersi, incerta tra quello verde e quello marrone, e fu disorientata dalla luminosità fredda di quello sguardo. Scelse quello verde, e si abbandonò ad un abbraccio rude e odoroso di cuoio umido e di fumo stantio.

“…ma ‘sta cretina dove si sarà cacciata? Se arriviamo in ritardo mia mamma se la prenderà con me, come al solito!”

sbottò spazientita Milena, dopo cinque minuti che aspettavano davanti all’ingresso, dove l’insegna colorata riluceva fiocamente nella nebbia fitta.

La sua amica si ricordò allora che l’aveva vista allontanarsi verso le roulottes, con un ragazzo che la teneva per mano. Milena la fissò con gli occhi blu sgranati ed increduli.

“…te lo giuro, ed era anche piuttosto carino…”-.

Il gruppetto si diresse quindi verso l’accampamento dei giostrai, chiamando Miriam. Un paio di donne si affacciarono sulle soglie e munite di grosse torce si unirono subito alla ricerca. Fu il pastore tedesco di una di queste che attirò la loro attenzione sul capanno degli attrezzi, abbaiando e ululando al cielo invisibile, nel biancore piovigginoso della nebbia.

Videro dapprima i piedi spuntare dalla stretta apertura, poi la torcia illuminò il corpo: Miriam giaceva a terra, la schiena appoggiata alla parete, il capo reclinato su una spalla. Il cappotto aperto rivelava lembi di pelle bianca che affioravano dalla maglia lacerata, e all’altezza del cuore spuntava il lucente manico di madreperla di un pugnale, infisso per tutta la lunghezza della lama. E tuttavia, la cosa più spaventosa era l’accenno di sorriso che rischiarava il suo volto infantile.

Vi fu qualche attimo di assoluto ottenebramento, che nemmeno l’insistente latrare del cane poteva smuovere, poi l’orrore di quella scena  deflagrò nella mente e nel cuore di tutti.

Sull’autobus per Quarto Oggiaro non c’era molta gente e il ragazzo poté sedersi. Allungò le gambe, scivolò leggermente dentro il sedile e appoggiò il capo allo schienale, chiudendo gli occhi. Riassaporò con tranquillità voluttuosa tutta la scena, dall’inizio alla fine.

Era stato subito chiaro che la ragazzina grassottella sarebbe stata una preda ideale: sola, l’aria un po’ triste di chi guarda vivere gli altri senza mai salire sulla giostra. Aveva inferto con vigorosa decisione quel colpo al cuore, ed era rimasto ad osservare lo sconcerto nei suoi occhi chiari che si offuscavano velocemente, fino al momento sublime in cui avevano spostato la loro attenzione verso la morte, che stavano guardando. Allora le aveva posato un bacio leggero sulle labbra, che si erano dischiuse in un sorriso.

Da quando aveva incominciato l’anno prima, si stava perfezionando: più calmo e determinato, meno maldestro, maggiore attenzione ai dettagli. Peccato per il bel pugnale che non era più riuscito ad estrarre: aveva comunque ripulito per bene l’impugnatura. La prossima volta, avrebbe dovuto sforzarsi di controllare il suo furore.

La prossima volta.

https://youtu.be/aXnfhnCoOyo

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Pubblicato da Sonia Fantozzi

Spirito irrequieto alla costante ricerca dei perché e dei percome. Ha lasciato Milano,ma in cima a una collina ha scoperto che sarà milanese per sempre.

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