Elezioni europee: una sbirciata ai programmi

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In ordine di presumibile consenso elettorale, si fornirà un breve e personale quadro dei programmi economici dei partiti/movimenti che si presenteranno alle elezioni europee 2014. In considerazione delle simpatie liberali dell’autore e della eterogeneità della lista, la scheda relativa a Scelta Europea conterrà unicamente una brevissima presentazione.

Partito Democratico: avendo prevalso la componente del partito che esplicitamente si rifà a Dossetti, La Pira, Fanfani, Andreatta, Prodi, sostanzialmente la corrente sinistra DC, il partito si è avviato verso una linea economico-politica paternalista e pauperista, secondo la quale lo Stato può essere il principale volano dell’economia (si veda anche il ruolo che si intende attribuire alla Cassa DD.PP) a condizione che sia gestito con logica da “buon padre di famiglia”, operoso e curiale.

Tale visione, corrispondente alla cosiddetta economia sociale di mercato, ha sempre però determinato, nella versione italica, la moltiplicazione dei centri di spesa, senza alcun tipo di responsabilità, la degenerazione della gestione della spesa stessa, il continuo peggioramento dei conti pubblici e la stratificazione di inefficienze e distorsioni di ogni tipo, alimentando quel capitalismo relazione e familiare che dallo Stato trae linfa e legittimazione.

Nonostante, al momento, la spesa superi il 50% del PIL, il livello di pressione fiscale sia insostenibile, si siano accumulati più di 2.000 miliardi di debito pubblico e sia ormai da tutti riconosciuto che la competitività del paese sia scesa ai minimi termini ed livello dei servizi offerti sia assolutamente scadente, continuano ad essere invocate politiche fiscali espansive (più deficit e debito, in sostanza), senza che prima siano state poste le condizioni perché le risorse non siano sprecate e che le istituzioni non impediscano la creazione di valore.

Appare difficile, quindi, che ricette già sperimentate con insuccesso possano ora avere successo, tanto più che nel frattempo il mondo è totalmente cambiato e la globalizzazione richiede livelli di competitività ed efficienza altissimi di cui nuovi modelli organizzativi e nuovi saperi costituiscono il presupposto naturale.

La stessa Germania (a cui si fa evidentemente riferimento quando si propone l’”economia sociale di mercato”) ha dovuto adottare una serie di gravose riforme, tra le quali l’introduzione in Costituzione di una corposa parte tesa a regolare i rapporti economico-finanziari tra governo centrale e Land, rendendo ancora più rigida la responsabilità fiscale degli enti locali intermedi e locali (negli Stati Uniti tale responsabilità porta anche al fallimento), in direzione, quindi, totalmente opposta alla nostra, in cui i salva Roma, a legislazione immutata, non potranno che moltiplicarsi.

Appare, dunque, confuso e contraddittorio proporsi come aderenti alla linea economica di Angela Merkel e Mario Monti (che han sempre fatto riferimento all’economia sociale di mercato) senza adottarne i tratti essenziali ed anzi ponendosi in sostanziale contrapposizione con le loro politiche.

La circostanza, inoltre, di non esser passato dal voto e la necessità di avere un forte ed immediato consenso sia nel partito sia nel corpo elettorale, ha “costretto” Renzi ad un costante e metodico cencellismo (facendo ricorso anche alla nomina di persone non adeguate o dai dubbi trascorsi), conseguentemente rinunciando alle migliori intelligenze del Paese, le quali mai come ora sarebbero state disposte a partecipare con entusiasmo al rinnovamento del paese.

Ogni riforma abbozzata o annunciata è dunque risultata essere nata già vecchia e certamente non adeguata alla sopra indicata necessità di competere, con nuovi strumenti, in un mondo globalizzato. Peraltro, non è per nulla chiaro chi abbia la responsabilità della linea economica, visto che il partito ha un responsabile economia (Filippo Taddei) che il governo ha ovviamente un ministro preposto (Pier Carlo Padoan), ma che dichiarazioni sulle medesima linea economica provengono da Davide Serra, Yoram Gutgeld, Graziano Delrio e, naturalmente, dallo stesso Renzi, che pare spesso vittima della sindrome dell’one man show, che tutto pensa, tutto fa e tutto rappresenta, da solo, in palcoscenico. Significativo è stato il balletto sullo sforamento del limite al deficit di bilancio, fissato al 3% dal Trattato di Maastricht. Dopo innumerevoli, seppur confuse, dichiarazioni sulla necessità di rispettarlo, Renzi ha abbandonato il punto al primo colloquio con la cancelliera Merkel, dimostrando di non avere ancora ben compreso quanto possa essere stretto il sentiero in cui deve camminare il Paese e, conseguentemente, quanto debbano essere profonde le riforme da avviare.

Movimento 5 Stelle: il movimento, che si accredita di una forza distruttrice paragonabile a quella dei Sanculotti in occasione della Rivoluzione francese (democrazia diretta, “uno vale uno”, la denominazione di “cittadini”), aderisce ad una linea economica di tipo peronista, in quanto tale simile alla linea economica della destra sociale fascista e al comunismo, ovviamente in questo caso sostituendo la “dittatura” dei cittadini a quella del proletariato.

A prescindere quindi dalle esternazioni naive e bizzarre (le scie chimiche, i microchip, l’adesione al metodo Stamina, il signoraggio, il complottismo in generale), che comunque non possono che preoccupare, il movimento rilancia proposte economiche anacronistiche (risalenti al primo ventennio del secolo scorso) e inadeguate, nell’ingenua convinzione che, a differenza dal passato, potrebbero essere risolutive per il paese: un confuso richiamo all’autarchia con l’introduzione di dazi e barriere; la subordinazione della Banca d’Italia al Tesoro (nella convinzione che la Banca possa in tal caso stampare tanto denaro quanto ne serva per corrispondere ai bisogni della cittadinanza), il ripudio del debito, l’abolizione dei Trattati europei nel caso in cui l’Europa, matrigna, non accetti di condividere il debito – non solo passato ma anche futuro e senza limiti – mediante gli eurobond, l’introduzione di un reddito di cittadinanza dal perimetro fumoso, soprattutto con riferimento ai beneficiari, all’estensione temporale e alle coperture finanziarie, individuate sommariamente e con gravi errori tecnici. Significativo al riguardo, ovviamente in negativo, il rinvio di Grillo all’esempio di Paesi, come l’Argentina, sempre sull’orlo del fallimento, in cui secondo lui tali ricette sarebbero state applicate con successo.

La mancanza di democrazia interna, inoltre, non consente di allargare la partecipazione al Movimento a persone con un più ampio bagaglio tecnico-teorico, facendogli fare il necessario salto di qualità da forza “destruens” (in quanto tale vista con temporaneo buon occhio dalle cancellerie mondiali) a forza – anche – “costruens”.

Mentre, infatti, la Rivoluzione francese aveva i “philosophes”, quella proposta dal Movimento 5Stelle ha Messora, Becchi, Casalino, Casaleggio e, per la parte relativa all’economia, Loretta Napoleoni.

Robespierre, peraltro, nulla sapeva di economia e qui la similitudine può ben esserci. Tuttavia fu proprio quella lacuna a causargli i guai peggiori, e quando i cittadini, la “gente”, si accorsero quanto la confusione sociale ed economica stava danneggiando tutti, non si fecero scrupolo a fare a meno dell’eroe della rivoluzione, che scomparì insieme ai Sanculotti ed ai guardiani più feroci della rivoluzione stessa.

Forza Italia: la linea economica di Forza Italia è incommentabile. Nelle parole del suo leader, infatti, il partito dovrebbe essere liberale ma le trascorse esperienze di governo hanno restituito l’immagine e la sostanza di un partito completamente asservito al capitalismo relazione e familiare, il quale è del tutto antitetico al concetto di economia e società liberale.

E’ facile comprendere come il capitalismo relazionale abbia bisogno di nutrirsi – anche – di spesa pubblica, come noto finanziata mediante tassazione e/o indebitamento. Di fatto, i governi Berlusconi, contrariamente ai proclami, hanno fatto ampio ricorso sia alla tassazione sia all’indebitamento, non preoccupandosi minimamente di riorganizzare la spesa e l’apparato statale, se non operando inutili e dannosi tagli lineari. Quando, però, l’Europa ha paventato l’ipotesi (poi divenuta realtà) di nuovi limiti e vincoli all’incontrollato indebitamento dei singoli Stati, pena la sanzione di abbandonare i paesi stessi al libero responso dei mercati finanziari sui relativi debiti, Berlusconi ha reagito minacciando di svincolare l’Italia dagli impegni europei (tra l’altro presi da lui stesso), ottenendo unicamente la fuga degli investitori internazionali, segno tangibile che il “libero responso” dei mercati non era certo favorevole verso i paesi con alto deficit/debito, e la quasi immediata perdita del potere.

La firma di quegli impegni europei sarebbe stata successivamente apposta in fretta e furia, in condizioni di maggior bisogno e minor peso contrattuale, dal governo successivo.

Nella presente campagna elettorale, Forza Italia, quindi, diffonde minacciose esternazioni sull’euro e sui trattati europei ma è chiaramente consapevole che l’adozione delle riforme necessarie non può più essere rinviata mediante tattiche dilatorie in sede europea, che sul punto ha già espresso un parere in via definitiva.

Il problema che di tali riforme, un po’ per consunzione del partito e del suo leader, un po’ perché delle stesse in realtà non è mai interessato ad alcuno nel partito, non si ha alcuna notizia. Né appare plausibile che dare una dentiera agli anziani o l’esenzione IVA per le spese veterinarie, seppur sia, il primo, tema lodevole che denuncia una palese inefficienza del S.S.N., possano essere definite “riforme”.

Lega Nord: una moderna democrazia liberale si fonda sulla tutela del merito, a prescindere dalla razza, dall’orientamento, dal genere, dalla religione, dalla classe sociale, sulla tutela del libero scambio e della concorrenza e sulla tutela della ricerca scientifica e tecnologica. Tutti questi aspetti sono sempre stati avversati dalla Lega Nord, in un nome di un localismo provinciale che nulla ha prodotto in termini culturali, ora ancora più necessari per riconvertire ed internazionalizzare le aziende del territorio di riferimento, e che ha sostanzialmente danneggiato un tessuto economico che aveva ed ha molte eccellenze.

I temi del federalismo fiscale e della sussidiarietà, che tuttora andrebbero affrontati e risolti, sono sempre stati portati avanti con toni e accenti estranei al dibattito civile, con l’unico risultato di nulla ottenere se non una generale disapprovazione e l’accantonamento delle questioni.

Della stessa natura, localista e miope, è ora il fulcro della nuova battaglia leghista, l’abbandono della moneta unica europea. Prefigurare un mondo che non potrà più esistere, quello fatto di dazi, barriere, di svalutazioni competitive (si veda, con riferimento a tale ultimo punto lo splendido contributo di Carlo Altomonte su “Lavoce”, “Svalutare in un mondo globalizzato” non solo è utopico e velleitario (gli accordi WTO certo non dipendono dai desiderata della Lega Nord) ma è anche controproducente, visto che l’isolamento sarebbe certamente più dannoso per l’Italia e per il nord est che non per il resto del mondo.

Peraltro, è proprio la tecnologia ad aver determinato gli accordi WTO e non viceversa. Sono stati i container e le relative navi portacontainer, gli aerei cargo, internet, lo sviluppo della logistica, ad aver consentito lo scambio mondiale di merci e servizi in breve tempo e non la semplice firma di un trattato.

Inoltre, la ventilata prospettiva di avere una banca centrale sovrana dipendente dal Tesoro – ipotizzata in conseguenza dall’uscita dall’euro – che dovrebbe stampare denaro per lo Stato e le esigenze produttive, oltre ad essere tecnicamente inconsistente (come si è visto la quantità di credito offerta dalle banche commerciali dipende per lo più non tanto dalla quantità di liquidità immessa dalla banca centrale ma dalla possibilità che il credito concesso abbia un ritorno certo ed adeguato, che è certamente ben più difficile in momenti di crisi e di fallimenti) si pone in netto contrasto con la natura stessa della Lega Nord, nata per denunciare gli sprechi del governo centrale.

La monetizzazione del debito, infatti (strumento che nelle intenzioni dovrebbe sostituire o affiancare il collocamento del debito, che diverrebbe più oneroso a causa dell’uscita dall’euro), determinerebbe unicamente l’irresponsabilità fiscale del governo centrale (con tutti gli sprechi sinora denunciati, a parole, dalla Lega Nord) ed una fortissima perdita del potere d’acquisto dei cittadini, i quali si troverebbero quindi due volte tassati dalla stessa autorità, una per via fiscale ed una per via monetaria.

Nuovo Centro Destra: quanto sopra osservato con riferimento a Forza Italia può ben essere ripreso anche per il Nuovo centro destra, nato, come è noto, dalla scissione di Forza Italia. Il partito, peraltro, trova il suo maggior consenso elettorale in parti del paese e in ambienti che certo non disdegnano il capitalismo relazionale e la gestione generosa – in taluni casi, come si è visto, disinvolta – della spesa pubblica.

Il tentativo, quindi, di accreditarsi come forza moderata di destra europea non è accompagnato né da una visione programmatica né da atti pratici di governo di tale natura.

Lista Tsipras: la Grecia, come peraltro l’Italia ma ancora in maggior misura, è vittima di una classe politica totalmente inadeguata, dedita al malaffare e che ha sempre posto a carico delle generazioni successive i problemi economici e di bilancio determinati dal malgoverno e da uno scriteriato ricorso all’indebitamento.

Questi contesti generano un certo numero di privilegiati, gli insider, cioè coloro che per contingenza, relazioni personali e politiche, appartenenza a determinati settori, possono approfittare della prodigalità fiscale, ed un gran numero, via via sempre maggiore, di esclusi, gli outsider, che devono subire gli effetti negativi del malaffare e del malgoverno e che perdono ogni possibilità di collocarsi nel mondo del lavoro, di godere del welfare e di migliorare la loro posizione sociale.

Per un certo periodo, l’euro ha mascherato i mali endemici della Grecia (e dell’Italia). In quel lasso di tempo, però, nulla è cambiato sotto il profilo organizzativo e gli effetti della crisi economico-finanziaria globale hanno determinato profondo ripercussioni in entrambi i paesi.

Anziché affrontare adeguatamente i problemi interni, riducendo il numero di privilegiati, i politici greci hanno ritenuto più agevole autoassolversi, attribuendo all’Europa la colpa dell’impossibilità di contrarre ulteriori debiti in misura incontrollata.

Compiacere questo meccanismo non è altro che schierarsi dalla parte della conservazione, dalla parte dei privilegiati rispetto agli esclusi. E questo non può certo essere definito di sinistra.

La lista Tsipras italiana nasce, quindi, per riproporre un tema che certo non è solo greco ma dell’intera Europa: l’”austerity”. Lo ripropone, però, in maniera confusa e irrisolta, senza alcun cenno alle riforme necessarie per evitare che le risorse pubbliche vengano saccheggiate e che questo determini il progressivo impoverimento della popolazione. A meno di non ritenere che le risorse possano essere create dal nulla (e si ritorna alla “stampa” di moneta) oppure che le stesse possano essere acquisiste, senza limiti di quantità e tempo, mediante tassazione di altre nazioni.

Fratelli d’Italia: come si è già detto, la destra sociale presenta proposte economiche simili a quelle del Movimento 5Stelle e, in parte, della Lega Nord e della Lista Tsipras. Si rinvia, pertanto, alle relative considerazioni. In sintesi, un ritorno al passato in un momento in cui tutto il mondo guarda ed affronta il futuro

SEL: in breve, la proposta economica che caratterizza il partito si sostanzia in un’unica parola: redistribuzione. E’ facile sottolineare, però, che la “ricchezza”, prima di essere redistribuita deve essere creata. Su quello il partito non ha alcuna proposta, in fondo considerando che fare utili/profitti, creare appunto valore aggiunto e ricchezza, non sia così moralmente accettabile (a meno che non abbia finalità “sociali”) e nasconda un animo “speculativo”. Il problema è che se la ricchezza non si crea ma la si redistribuisce unicamente, la stessa non potrà che progressivamente diminuire, così impoverendo tutti. Da anni Nichi Vendola cerca di trovare nel mondo un paese che abbia applicato con successo un modello economico compatibile con le proposte di SEL. Da ultimo, era stato individuato nel Venezuela di Maduro, paese dotato di ingenti risorse naturali grazie alle quali avrebbe potuto prosperare. Anche in questo caso, però, non è finita molto bene.

Scelta europea: è una lista elettorale, composta da circa 13 movimenti e partiti (tra i quali, Scelta Civica, Fare per fermare il declino e Centro democratico di Tabacci) che si definisce “di ispirazione liberale, democratica, europeista e federalista” e che appoggia la candidatura a presidente della Commissione europea dell’ex premier belga Guy Verhofstatd.

La lista è dichiaratamente a favore della permanenza nell’euro e della necessità di un’unione federale europea.

/ 5
Grazie per aver votato!

Pubblicato da roundmidnight

Occupa da anni, in modo semiserio, un posto in un consiglio di amministrazione all'interno di un "gruppo" internazionale.

7 Risposte a “Elezioni europee: una sbirciata ai programmi”

  1. Splendida descrizione del PD e delle pessime alternative.
    Insomma, andando a votare ho la certezza di fare una caxxata. Però non andando a votare semplicemente decido di non esistere.

  2. Su lista Tsipras, citando Sciascia mi vien da dire che due “mezzi uomini” non fanno un “uomo”. Non so se ho reso l’idea…

  3. Memento!

    Quale specie di dispotismo devono temere le nazioni democratiche.

    “Durante il mio soggiorno negli Stati Uniti avevo notato che uno stato sociale democratico simile a quello degli americani può offrire una facilità singolare allo stabilirsi del dispotismo; al mio ritorno in Europa vidi che quasi tutti i nostri sovrani si erano già serviti delle idee, dei sentimenti e dei bisogni che questo stesso stato sociale fa nascere per estendere la cerchia del loro potere. Ciò mi indusse a credere che le nazioni cristiane finiranno forse per sentire un’oppressione simile a quella che un tempo pesò su molti popoli dell’antichità. Un esame più particolareggiato dell’argomento e cinque anni di nuove meditazioni non hanno diminuito i miei timori, ma ne hanno cambiato l’oggetto.

    Nei secoli passati non si è mai visto un sovrano tanto assoluto e potente che abbia voluto amministrare da solo, senza l’aiuto di poteri secondari, tutte le parti di un grande impero, né che abbia tentato di assoggettare indistintamente tutti i suoi sudditi ai particolari di una regola uniforme e che sia disceso a fianco di ognuno di essi per reggerlo e guidarlo. L’idea di una simile impresa non si è mai presentata allo spirito umano e, se anche qualcuno l’avesse concepita, l’insufficienza della civiltà, l’imperfezione dei sistemi amministrativi e, soprattutto, gli ostacoli naturali suscitati dalla diseguaglianza delle condizioni, lo avrebbero presto dissuaso dall’eseguire un disegno così vasto.

    Al tempo della massima potenza dei Cesari, i diversi popoli che abitavano il mondo romano avevano ancora conservato usi e costumi diversi: la maggior parte delle province, benché sottoposte allo stesso monarca, erano amministrate a parte; in esse fiorivano municipi potenti e attivi e, sebbene il governo dell’impero fosse accentrato nelle sole mani dell’imperatore, il quale era sempre all’occorrenza l’arbitro di ogni cosa, i particolari della vita sociale e dell’esistenza individuale sfuggivano generalmente al suo controllo. Gli imperatori possedevano, è vero, un potere immenso e senza contrappesi, che permetteva loro di abbandonarsi liberamente a qualsiasi stranezza e di soddisfarla con la forza intera dello stato; così che accadeva spesso che abusassero di questo potere per togliere arbitrariamente a un cittadino i beni o la vita; ma la loro tirannide, pur gravando straordinariamente su qualcuno, non si estendeva sulla maggioranza; essa si fissava su alcuni oggetti principali e trascurava il resto: era nello stesso tempo violenta e ristretta.

    È probabile che il dispotismo, se riuscisse a stabilirsi presso le nazioni democratiche del nostro tempo, avrebbe un altro carattere: sarebbe più esteso e più mite e degraderebbe gli uomini senza tormentarli. Non dubito che in tempi di civiltà e di eguaglianza come i nostri, i sovrani riescano più facilmente di quel che siano riusciti a fare quelli dell’antichità a riunire tutti i poteri pubblici nelle loro mani e a penetrare più abitualmente e più profondamente nella cerchia degli interessi privati. Ma quella stessa eguaglianza, che facilita il dispotismo, lo tempera; abbiamo visto come, via via che gli uomini divengono più eguali, i costumi divengano più umani e miti; inoltre, quando nessun cittadino dispone di grande potere e di grandi ricchezze, la tirannide non trova più occasione né campo d’azione su cui esercitarsi. Siccome tutte le fortune sono mediocri, le passioni sono naturalmente contenute, l’immaginazione limitata, i costumi semplici. Questa moderazione universale modera anche il sovrano e pone un limite allo slancio disordinato dei suoi desideri.

    Indipendentemente da queste ragioni attinte alla natura stessa dello stato sociale, potrei aggiungerne molte altre, prese fuori del mio soggetto, ma voglio rimanere nei limiti che mi sono tracciato. I governi democratici possono diventare violenti e anche crudeli in certi momenti di grande effervescenza e di pericolo, ma queste crisi saranno rare e passeggere. Quando penso alle piccole passioni degli uomini del nostro tempo, alla mollezza dei loro costumi, all’estensione della loro cultura, alla mitezza della loro morale, alla purezza della loro religione, alle loro abitudini laboriose e ordinate, alla moderazione che quasi tutti conservano nel vizio come nella virtù, non temo che essi troveranno fra i loro capi dei tiranni, ma piuttosto dei tutori. Credo, dunque, che la forma d’oppressione da cui sono minacciati i popoli democratici non rassomiglierà a quelle che l’hanno preceduta nel mondo, i nostri contemporanei non ne potranno trovare l’immagine nei loro ricordi.

    Invano anch’io cerco un’espressione che riproduca e contenga esattamente l’idea che me ne sono fatto, poiché le antiche parole dispotismo e tirannide non le convengono affatto. La cosa è nuova, bisogna tentare di definirla, poiché non è possibile indicarla con un nome. Se cerco di immaginarmi il nuovo aspetto che il dispotismo potrà avere nel mondo, vedo una folla innumerevole di uomini eguali, intenti solo a procurarsi piaceri piccoli e volgari, con i quali soddisfare i loro desideri. Ognuno di essi, tenendosi da parte, è quasi estraneo al destino di tutti gli altri: i suoi figli e i suoi amici formano per lui tutta la specie umana; quanto al rimanente dei suoi concittadini, egli è vicino ad essi, ma non li vede; li tocca ma non li sente affatto; vive in se stesso e per se stesso e, se gli resta ancora una famiglia, si può dire che non ha più patria. Al di sopra di essi si eleva un potere immenso e tutelare, che solo si incarica di assicurare i loro beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite. Rassomiglierebbe all’autorità paterna se, come essa, avesse lo scopo di preparare gli uomini alla virilità, mentre cerca invece di fissarli irrevocabilmente nell’infanzia, ama che i cittadini si divertano, purché non pensino che a divertirsi. Lavora volentieri al loro benessere, ma vuole esserne l’unico agente e regolatore; provvede alla loro sicurezza e ad assicurare i loro bisogni, facilita i loro piaceri, tratta i loro principali affari, dirige le loro industrie, regola le loro successioni, divide le loro eredità; non potrebbe esso togliere interamente loro la fatica di pensare e la pena di vivere? Così ogni giorno esso rende meno necessario e più raro l’uso del libero arbitrio, restringe l’azione della volontà in più piccolo spazio e toglie a poco a poco a ogni cittadino perfino l’uso di se stesso. L’eguaglianza ha preparato gli uomini a tutte queste cose, li ha disposti a sopportarle e spesso anche considerarle come un beneficio. Così, dopo avere preso a volta a volta nelle sue mani potenti ogni individuo ed averlo plasmato a suo modo, il sovrano estende il suo braccio sull’intera società; ne copre la superficie con una rete di piccole regole complicate, minuziose ed uniformi, attraverso le quali anche gli spiriti più originali e vigorosi non saprebbero come mettersi in luce e sollevarsi sopra la massa; esso non spezza le volontà, ma le infiacchisce, le piega e le dirige; raramente costringe ad agire, ma si sforza continuamente di impedire che si agisca; non distrugge, ma impedisce di creare; non tiranneggia direttamente, ma ostacola, comprime, snerva, estingue, riducendo infine la nazione a non essere altro che una mandria di animali timidi ed industriosi, della quale il governo è il pastore.

    Ho sempre creduto che questa specie di servitù regolata e tranquilla, che ho descritto, possa combinarsi meglio di quanto si immagini con qualcuna delle forme esteriori della libertà e che non sia impossibile che essa si stabilisca anche all’ombra della sovranità del popolo. I nostri contemporanei sono incessantemente affaticati da due contrarie passioni: sentono il bisogno di essere guidati e desiderano di restare liberi; non potendo fare prevalere l’una sull’altra, si sforzano di conciliarle: immaginano un potere unico, tutelare ed onnipotente, eletto però dai cittadini, e combinano l’accentramento con la sovranità popolare. Ciò dà loro una specie di sollievo: si consolano di essere sotto tutela pensando di avere scelto essi stessi i loro tutori. Ciascun individuo sopporta di sentirsi legato, perché pensa che non sia un uomo o una classe, ma il popolo intero a tenere in mano la corda che lo lega. In questo sistema il cittadino esce un momento dalla dipendenza per eleggere il padrone e subito dopo vi rientra. Vi sono ai nostri giorni molte persone che si adattano facilmente a questo compromesso fra il dispotismo amministrativo e la sovranità popolare e credono di avere sufficientemente garantito la libertà degli individui affidandola al potere nazionale.

    Ciò non mi soddisfa: la natura del padrone mi interessa meno dell’obbedienza. Però non posso negare che una simile costituzione sia infinitamente preferibile a quella che, dopo avere accentrato tutti i poteri, li affidi nelle mani di un uomo o di un corpo irresponsabile; il che rappresenta la forma peggiore del dispotismo democratico. Quando il sovrano è elettivo, sorvegliato da vicino da un corpo legislativo realmente elettivo e indipendente, l’oppressione che egli fa sentire agli individui è talvolta più grande, ma è sempre meno degradante, perché ogni cittadino, allorché si sente dominato, può ancora immaginare che obbedendo si sottomette solo a se stesso e che sacrifica ad una delle sue volontà tutte le altre. Comprendo pure che, quando il sovrano rappresenta la nazione e dipende da essa, le forze e i diritti che si tolgono a ciascun cittadino non servono soltanto al capo dello stato, ma giovano allo stato stesso e che i privati traggono qualche frutto dal sacrificio che hanno fatto alla collettività. Creare una rappresentanza nazionale in un paese molto accentrato equivale, dunque, a diminuire il male che il soverchio accentramento può produrre, ma non a distruggerlo. Vedo bene che in questo modo si mantiene l’intervento individuale negli affari più importanti, ma esso è molto ridotto per gli affari piccoli e particolari. Si dimentica che proprio nei particolari è pericoloso asservire gli uomini.

    Per parte mia sarei portato a credere che la libertà è meno necessaria nelle grandi cose che nelle piccole, se non pensassi all’impossibilità di avere la prima senza la seconda. La dipendenza nei piccoli affari si manifesta ogni giorno e si fa sentire indistintamente su tutti i cittadini. Non li spinge alla disperazione, ma li contrasta continuamente, portandoli a rinunciare all’uso della loro volontà. Deprime a poco a poco il loro spirito e indebolisce il loro animo, mentre l’obbedienza dovuta solo in un piccolo numero di circostanze gravissime, ma rare, mostra la servitù solo di tanto in tanto e la fa pesare solo su pochi uomini.

    È inutile affidare a questi cittadini, così dipendenti dal potere centrale, l’incarico di scegliere di tanto in tanto i rappresentanti di questo potere, poiché questo uso così importante, ma così breve e raro del loro libero arbitrio, non li salverà dalla perdita progressiva della facoltà di pensare, sentire e agire da soli e li lascerà cadere gradatamente al disotto del livello dell’umanità. Aggiungo che essi diverranno presto incapaci di esercitare il grande ed unico privilegio che resta loro. I popoli democratici, introducendo la libertà nella vita politica nel tempo stesso in cui aumentavano il dispotismo amministrativo, sono stati portati a singolarità stranissime. Se si tratta di condurre piccoli affari, nei quali può bastare il buonsenso, essi stimano incapaci i cittadini; se si tratta, invece, del governo di tutto lo stato, affidano ai cittadini immense prerogative; così ne fanno a volta a volta i trastulli del sovrano e i suoi padroni; più dei re e meno degli uomini. Dopo avere escogitato infiniti sistemi di elezione, senza trovarne uno adatto, si stupiscono e cercano ancora: come se il male che essi notano non dipendesse dalla costituzione del paese molto più che da quella del corpo elettorale.

    È effettivamente difficile comprendere come mai degli uomini, che hanno interamente rinunciato all’abitudine di dirigere se stessi, potrebbero riuscire a scegliere bene quelli che li dovrebbero guidare; non si può mai sperare, quindi, che un governo liberale, energico e saggio possa uscire dai suffragi di un popolo di servi. Una costituzione repubblicana nella testa e ultra monarchica in tutte le altre parti mi è sempre sembrata un mostro effimero: i vizi dei governanti e l’imbecillità dei governati la porterebbero presto alla rovina, mentre il popolo, stanco dei suoi rappresentanti e di se stesso, creerà istituzioni più libere o ritornerà a subire un solo padrone.”

    Alexis de Tocqueville, De la démocratie en Amérique, 1836-1840 (Parte II, Cap VI), La democrazia America, Rizzoli, Milano 1999, Parte IV, Cap. VI

  4. Con il rischio di sembrare cinico o complottista, credo che ad elezioni fatte si sia capito che una cosa accomuna Renzi e Berlusconi.
    Entrambi per vincere le elezioni hanno dato 80 euro alle masse (il primo) e eliminato lCI (il secondo).
    Ovvero la carota per essere votati e il bastone (non dico dove) non ci si accorge che lo si ha gia’.
    In decenni dove si e’ capito che la politica non ha fatto nulla vince chi da il contentino.

  5. uè Times,

    «Il conformismo è un cortese carceriere della libertà e il più squallido nemico dello sviluppo!»

    [John Fitzgerald Kennedy]

    RenziBot Li ha “fulminati” davvero Tutti: altro che Gesù con Lazzaro.

    Luchino Visconti, d’altra parte, era Italiano.

    La “media” non saprebbero che fare – “non hanno qualità o talenti”.

    Tira la catena…

    http://www.youtube.com/watch?v=if8qjT1N_hY

    è meglio!

    ✍✓ _s-U-r-f-E-r_ ✍✓

  6. Surfer sei veramente mitico…..tirare fuori il Luchino….unico.

    😉

    Meglio comunque:

    Non sostituite mai il conformismo e la sottomissione, il pentimento e la disillusione alla speranza e alla ribellione e forse riuscirete a lenire la morte e la rassegnazione.

    Carl William Brown

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