Foer illumina la letteratura, alla ricerca delle sue radici

Foer - ognicosaèilluminata

Il colpo di fulmine con Jonathan Safran Foer (Washington, 1977) scattò in occasione dell’uscita in Italia di Molto Forte, Incredibilmente Vicino (Guanda, 2005), straordinario racconto, con gli occhi di un bambino, della tragedia dell’11 settembre: un romanzo originale e straziante, con un alternarsi di soluzioni narrative, anche visive, assolutamente innovativo e particolare; si trattò di un grande successo e sicuramente – a nostro avviso – fra i più rilevanti contributi letterari su quella vicenda di ormai quasi vent’anni fa.

Oggi però parliamo di Ogni Cosa è Illuminata (Guanda, 2002, 326 pagine, Euro 12), folgorante romanzo d’esordio di Foer, che molti, come chi scrive, scoprirono solo dopo aver letto “Molto Forte….”, e che mostrò la stoffa di questo narratore: fu pubblicato nel 2002, proiettando il giovane venticinquenne direttamente fra i protagonisti della scena letteraria e non è quindi un caso che Amy Hungerford lo abbia inserito nel panel del suo corso su “The American Novel Since 1945”, stabilendo in questa lezione del 2008 strabilianti paralleli con mostri sacri come Roth, Pynchon, Nabokov e Franzen.

E il libro lo merita senza dubbio, perché mostra chiarissimo il talento narrativo di quest’uomo, che con tanta semplicità, in questa intervista a Charlie Rose, racconta di come il romanzo sia nato da una ricerca di se stesso, delle proprie origini, della propria famiglia. Foer infatti, nel 2000, trascorre due settimane in Ucraina alla ricerca della donna che salvò suo nonno dai nazisti: una ricerca infruttuosa, di cui il romanzo è la trasposizione, all’interno però di un fenomenale e complesso impianto narrativo.

IL LIBRO

Il libro si articola in due piani temporali distinti, utilizzando la tecnica del flash-back/flash-forward: da un lato c’è Alex, con il padre, due ucraini che di mestiere scarrozzano turisti con una macchina sgangherata e il cane Sammy Davis Junior Junior al seguito: Jonathan, “l’eroe” per Alex, arriva dagli Stati Uniti e loro devono accompagnarlo, vagando per le campagne ucraine con pochi riferimenti, in questa missione alla ricerca del villaggio di Trachimbrod e della donna che avrebbe messo Jonathan in connessione con i suoi avi.

Essendo Alex l’io narrante, il racconto è reso in una lingua strana, faticosa, che inizialmente può apparire ostica al lettore, ma alla quale poi ci si affeziona, con i suoi improbabili strafalcioni; ecco ad esempio la presentazione che Alex fa del proprio lavoro:

“Il Babbo lavora per un’agenzia viaggi che si chiama Viaggi Tradizione. E’ fatta per gli ebrei come l’eroe, che ambiscono a venire via da quel nobile territorio, l’America, e visitare umili cittadine in Polonia e Ucraina. L’agenzia del Babbo ha traduttore, guida e autista per ebrei che cercano di disseppellire i posti dove esistevano le loro famiglie”.

Questo incedere un po’ faticoso e scolastico, spesso dà spazio a uscite molto spassose; sentite infatti cosa ne pensa Alex degli ebrei:

“…tutto quello che sapevo degli ebrei era che pagavano al Babbo tantissimi soldi per venire in vacanza dall’America in Ucraina. Ma dopo ho conosciuto Jonathan Safran Foer e, io vi dico, non è ripieno di merda. Lui è un ebreo geniale”.

Sull’altro piano temporale c’è invece la storia di Trachimbrod, lo shtetl ebraico da cui tutto nasce, di cui si raccontano le vicende fin dalla fine del Settecento, a partire dagli avi della nonna di Jonathan (la sua “bis-bis-bis-bis-nonna”): si tratta di una narrazione che assume toni spesso fiabeschi, in un continuo affabulare il lettore con nuove vicende che paiono talvolta surreali e grottesche (come l’uomo di Kolki, che incredibilmente visse con una sega circolare piantata in testa, in seguito ad un incidente presso il famoso mulino del paese), talaltra spietate e tragiche (come lo stupro di Brod, o la mattanza fatta dai nazisti), in un’alternanza che ricorda i grandi narratori sudamericani e ci restituisce uno degli affreschi più riusciti ed accurati della cultura e società ebraiche della diaspora ashkenazita.

Sentite, a proposito dell’organizzazione del villaggio:

“… quel tratto di riva … segnava l’attuale divisione dello shtetl in due parti: il “Quarto ebraico” e i “Tre quarti umani”. Tutte le cosiddette attività sacre – insegnamento religioso, macellazioni kosher, contrattazione e così via – erano svolte entro i confini del Quarto ebraico. Invece le attività inerenti il trantran della vita quotidiana…avevano luogo nei Tre-quarti umani.”

La storia ci introduce Yankel, che prima si chiamava Safran, usuraio degradato a “infamato”, e per questo portatore di un simbolo al collo, cui viene affidata una neonata incredibilmente salvatasi da un incidente al fiume Brod, e perciò chiamata proprio Brod; Yankel aveva già perso due figli e la moglie, e viene descritto con rispetto e struggente delicatezza:

“Yankel aveva perso due bambini: uno di febbre e l’altro per colpa del mulino industriale, cha dalla sua costruzione si era preso la vita di un abitante dello shtetl all’anno. Aveva anche perso la moglie, e non per colpa della morte, ma di un altro uomo. Rincasando dopo un pomeriggio in biblioteca, aveva trovato un biglietto sopra lo SHALOM! sul tappetino della soglia: <<Ho dovuto farlo, per me>>”.

Il romanzo prosegue alternando questi due piani narrativi: nello shtetl le generazioni si susseguono fino al fulcro del romanzo, i giorni dell’arrivo dei nazisti, un avvicinarsi inesorabile che l’autore ci restituisce in maniera tambureggiante, con tensione crescente, come di una tragedia che sappiamo dovrà avvenire: come ci ricorda Hungerford, si tratta della testimonianza di un ebreo di oggi su questo trauma che rivive.

Il piano narrativo contemporaneo ci racconta invece della spedizione di Alex, dell’”eroe” Jonathan, l’ospite americano, e del cane che li accompagna, sulle tracce della donna che avrebbe dovuto sposare il nonno di Jonathan, chiamato anche lui Safran, e discendente di Brod, la neonata salvata dalle acque. Molto famoso è diventato il passo in cui Jonathan, in un ristorante, si professa vegetariano: un dialogo surreale che occupa due pagine, con gli accompagnatori ucraini increduli che chiedono se davvero lui non mangi carne, e, alla risposta negativa, provano con nuovi animali o parti di animali: “Maiale?” “Mucca?” “Bistecca?” “Salsiccia?” “Lingua?”. E poi arriva la cameriera, attonita anche lei, che si rifiuta di portare le patate senza carne, e allora Jonathan chiede alle sue guide di toglierla.

CHE COS’E’ LA SCRITTURA?

Jonathan Safran Foer ha voluto riportare nel frontespizio di questo bellissimo ed emozionante romanzo, insieme alla dedica “ALLA MIA FAMIGLIA”,  un’aggiunta che rappresenta probabilmente anche il senso profondo di questa operazione: “Semplicemente ed impossibilmente”. Jonathan lo ha spiegato:

“tutto è partito dalla sensazione che avevo dentro, di ricercare me stesso e la mia famiglia, che ha preso la forma di un libro, e in particolare di un romanzo”

da un lato quindi un concetto semplice, ma anche difficilissimo, pressoché impossibile, da realizzare, data la sorte rocambolesca, disgraziata e tragica di questa come di tante vicende degli shtetl in Europa Orientale spazzati via dalla persecuzione.

Raccontandosi nel 2015 in questa conferenza in Australia, Foer ci ricorda che la scrittura per lui è solo un mezzo, e che il fine è dare ai lettori “un’esperienza emozionale, una sorta di accesso a pensieri e sentimenti”: così è stato, ci sei riuscito benissimo, caro Jonathan.

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Pubblicato da Leonardo Dorini

Manager, consulente, blogger. Mi occupo di finanza ed impresa, amo lo sport. Ma sono qui per l'altra mia grande passione: la letteratura.

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