Del famoso piano di Juncker (Renzi: “Italia ha sostenuto Juncker solo dopo piano 300 miliardi”) per rilanciare la crescita e le opere pubbliche europee, non si conoscono ancora i dettagli ma se ne possono intuire le caratteristiche. E tali caratteristiche non sono propriamente come immaginate.
Come riportato dai quotidiani, l’idea di fondo è utilizzare il già esistente “European Fund for Strategic Investment”, dotandolo di un capitale di 21 miliardi da prelevare dal bilancio UE e della BEI, attraverso il quale saranno emessi strumenti finanziari (principalmente obbligazioni) ad alto rating così da reperire nei mercati le somme da investire nei relativi progetti.
L’idea non è certo nuova e ripropone lo schema della stessa BEI, società di diritto lussemburghese, che ha un capitale sottoscritto (dai paesi aderenti, tra i quali l’Italia) di circa 243 miliardi, ma che opera con un capitale versato di poco meno di 22 miliardi di euro (sebbene, ormai, il fondo abbia ormai 58 miliardi di fondi propri, avendo accumulato riserve per circa 36 miliardi).
Con tale capitale la BEI è riuscita a reperire le risorse per finanziare, a prestito, progetti per circa 521 miliardi di euro, di cui 80 solo nel 2013. Il 12% di tali progetti – e di tali prestiti – ha interessato l’Italia, per un volume complessivo pari a poco più di 50 miliardi (10 miliardi nel 2013).
Risulta chiaro che qualora i prestiti concessi generassero perdite superiori al capitale versato e alle riserve accumulate, i 28 Stati aderenti sarebbero chiamati a versare quanto necessario sino a concorrenza del capitale sottoscritto.
Che cosa emerge con tutta evidenza da quanto sopra? Che gli investitori che sottoscriveranno i bond emessi dal fondo EFSI/Juncker, fornendo i capitali per finanziare i progetti, dovranno ovviamente essere rimborsati e remunerati per l’investimento. Conseguentemente, le opere finanziate dal fondo non saranno pagate dalla fiscalità europea o dal fondo stesso (come forse qualcuno immaginava), ma dovranno certamente essere pagate da chi attiverà il finanziamento, sebbene esso sarà stato ottenuto ad un tasso favorevole.
L’opera finanziata, quindi, non potrà essere una qualsiasi opera pubblica – anche improduttiva di reddito – ma dovrà essere un’opera in grado di generare un flusso di cassa tale da consentire il rimborso della quota capitale e di quella relativa agli interessi.
Non sembra, inoltre, che sussistano i presupposti per ritenere che il finanziamento possa essere direttamente attivato dallo Stato italiano. Ordinariamente, infatti, lo Stato, quando si indebita, non è mai costretto a distogliere dal bilancio la somma necessaria per rimborsare la quota capitale perché rimborsa il suo debito in un’unica soluzione a scadenza mediante l’accensione di nuovo debito di pari importo. Si limita, quindi, a pagare, ogni anno, la quota relativa agli interessi, sulla base del rendimento originariamente concordato.
Tale soluzione potrebbe, quindi, essere adeguata solo per Stati che emettono titoli debito ad un tasso tale da rendere più conveniente indebitarsi ad un tasso AAA seppure con l’obbligo di rimborsare anche la quota capitale. Ma tale non è, al momento, il caso dell’Italia.
Rimangono, quindi, altre amministrazioni pubbliche (come gli enti territoriali, che però hanno già accesso ai prestiti della Cassa DDPP) e privati investitori che vogliono e sono in grado di realizzare opere in project financing, in ipotesi in collaborazione anche economica con un’amministrazione pubblica.
Al momento, non è noto se il finanziamento concesso dal fondo potrà coprire l’intero importo dell’opera oppure, come succede usualmente, sono una parte della stessa.
Appare chiaro, però, che non è il “silver bullet” che molti si attendevano, nonostante contenga anche elementi positivi e che possono svilupparsi ulteriormente. Per esempio, i titoli emessi dal fondo potrebbero essere coperti dall’ombrello della BCE, come fossero eurobond, seppure finalizzati e condizionati, anche ai fini di un eventuale QE.
Alcune grandi opere, inoltre, potrebbero essere finalmente realizzate, sottraendole – in parte – anche alle inefficienze della burocrazia amministrativa italiana, risparmiando risorse pubbliche ed ottenendo un miglioramento della grave situazione occupazionale .
Rimane però il fatto, come si è detto, che tutto dipenderà dalla vitalità del paese, dalla sua capacità progettuale e di attirare investitori nazionali ed esteri. E sul punto, purtroppo, la strada appare ancora molto lunga, come dimostra la palese incapacità di utilizzare le risorse dei fondi europei, che peraltro non sono altro che una quota dei soldi versati dai contribuenti italiani, visto che l’Italia è contributrice netta dell’Unione europea.
Il fondo in questione, allora, potrebbe costituire l’occasione per un ripensamento sulla gestione del bilancio dell’Unione e sull’attribuzione ad organismi sopranazionali di competenze che gli stati nazionali non sono in grado, o non hanno la capacità economica, di affrontare adeguatamente, come l’istituzione di un sussidio europeo universale di disoccupazione (eventualmente integrabile dai singoli Stati) o la creazione di centri d’eccellenza di ricerca e di istruzione superiore.