Con le categorie analitiche del Novecento la crisi tailandese appare incomprensibile. Interviene l’esercito e dichiara la legge marziale, esautorando nei fatti il governo che rimane formalmente in carica. Il fragile esecutivo è la derivazione di quello precedente, espressione dei ceti più poveri del paese. Tuttavia l’intervento militare è applaudito – o almeno benvenuto – dall’opposizione più progressista, le élite intellettuali, i circoli imprenditoriali più dinamici, la parte più internazionale della Tailandia, in sostanza il blocco socio-politico di Bangkok. La cronaca lo identifica con le magliette gialle, indossate dai suoi sostenitori. Gli avversari conservatori, che da tanti anni vincono le elezioni, indossano ironicamente le magliette rosse.
Il partito di Thaksin Shinawatra e di sua sorella Yingluck domina la scena politica dal 2001, quando è riuscito a raccogliere la protesta dei ceti più poveri: i contadini esclusi dalla crescita, la minoranza Isan dell’ovest, i lavoratori meno qualificati delle città e delle fabbriche. A essi ha offerto una speranza e dei sostegni, parlando al cuore e al portafogli. L’esecutivo dei Thaksin è stato prodigo di sussidi, medicinali gratuiti, retorica nazionale e religiosa. Sono stati di aiuto le disponibilità finanziarie, il controllo dei mezzi di comunicazione, la spregiudicatezza di un linguaggio semplice e comprensibile.
L’ascesa di Thaksin è avvenuta però con mezzi illegali, almeno così ha deciso la giustizia thailandese. Dopo una prima condanna, l’ex premier è stato deposto con un golpe militare nel 2006. Da allora vive in esilio volontario a Dubai, ma la sua eredità è stata raccolta dalla sorella che è divenuta primo ministro, dopo una vittoria elettorale. In una sequenza di accuse, condanne, disordini e morti, boicottaggio delle ultime elezioni da parte dell’opposizione, Yingluck Shinawatra è stata posta a capo di un governo provvisorio, in attesa dell’ennesima tornata elettorale. Non ha potuto portare a termine il suo compito perché è stata rimossa d’imperio da una sentenza della Suprema Corte che l’ha trovata colpevole di abuso di potere. I disordini che ne sono seguiti hanno condotto al “golpe al rallentatore” del 19 maggio: l’esercito ha imposto la legge marziale, ma ha lasciato al governo le responsabilità degli affari correnti che non riguardino la sicurezza e l’ordine pubblico. Si tratta in realtà di una formalità. È ormai l’esercito ad avere il controllo della situazione, come ha fatto in 19 occasioni dall’avvento della democrazia nel paese nel 1932.
Nella complessità degli eventi, 2 motivazioni li sintetizzano. L’esercito ha riempito un vuoto di potere. I partiti sono deboli, la democrazia è fragile. La monarchia, l’istituzione rispettata e prestigiosa che avrebbe potuto prendere il timone della crisi, è al di sopra delle parti, anche quando un suo intervento sarebbe risolutivo. Inoltre il re è anziano e non incline a scendere nell’agone politico. L’opinione pubblica è schierata quasi sempre con gli oppositori, ma non rappresenta la maggioranza elettorale. La magistratura ovviamente non può sostituirsi all’esecutivo, anche se le sue sentenze ne condizionano gli eventi. Non rimane che l’esercito, l’unica struttura organizzata e potente.
Inoltre, un paese come la Tailandia – 70 milioni di abitanti, secondo Pil del sud-est asiatico – non può continuare a vivere nel caos. La crescita rimane lenta, in un contesto regionale segnato da migliori risultati. L’economia è cresciuta anche per gli investimenti stranieri che ora invece sono prudenti in attesa di una soluzione della crisi. Il mercato interno, che dovrebbe compensare la flessione dell’export, stenta a decollare. L’industria turistica risente dell’inquietudine politica. Le aspettative di una crescita ininterrotta per l’ex Tigrotto asiatico sembrano in pericolo, dopo anni di un progresso puntuale. È un rischio che il paese non può correre e se le istituzioni sono impotenti, la soluzione militare sembra inevitabile e fatidica.