I Racconti di Gogol’, aria pura per l’anima

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Ogni tanto tornare ai grandi maestri russi è un balsamo per l’anima per noi che amiamo la lettura, una specie di ricostituente, una ventata di aria fresca, di brezza pulita, di ossigeno.

Potrebbe sembrare eccessiva questa introduzione, ma ci sentiamo di farla perché oggi trattiamo di un colosso, uno di coloro che hanno dato alla nascente letteratura russa uno “spin” tutto particolare, una linfa vitale nuova: stiamo parlando di Nikolaj Vasilevic Gogol’ (1809-1852). Ne avevamo già parlato per come, su di lui, aveva scritto un altro russo, Vladimir Nabokov (1899-1977), nato novant’anni dopo: un russo un po’ particolare, fuggito da San Pietroburgo e diventato americano, che in un volume notevolissimo ha ripercorso la vita del nostro autore di oggi, analizzando la sua opera, mettendosi – non senza coraggio e a differenza di Charms – al livello del grande predecessore, sfidandolo in qualche modo, addirittura riscrivendolo.

Allora oggi parliamo meglio di Gogol’, già da giovane un astro nascente riconosciuto dallo stesso Puškin: è lui che, leggendo il primo capitolo di Anime Morte, invece di ridacchiare come faceva di solito quando gli sottoponevano lavori di giovani rampolli, riflette, pensoso e grave, ed esclama: “Come è triste la nostra Russia!”. Gogol’ aveva fatto breccia, con la sua storia di servi della gleba venduti anche da morti, di “un governo che permetteva il traffico di anime vive” e da cui quindi difficilmente “ci si poteva aspettare che agisse quale esperto di morale in una faccenda che riguardava il mero traffico di anime morte” (Nabokov).

E che dire di Daniil Charms (1905-1942), lo abbiamo citato sopra, che a partire dall’enorme considerazione che ha di Puškin, si spinge addirittura a considerarlo “una vescica”, di fronte a Gogol’, dichiarandosi impossibilitato a parlarne; ecco il pezzo, divenuto famosissimo, che vogliamo riportare per intero perché a nostro parere dà l’idea di quali enormi personaggi abbiamo per le mani:

“E’ difficile parlare di Puškin a qualcuno che di lui non sa niente. Puškin è un grande poeta. Napoleone è meno grande, di Puškin. E Bismark, in confronto a Puškin, non vale niente. E Alessandro primo e secondo, e terzo, in confronto con Puškin sono delle vesciche. Tutti, in confronto con Puškin, sono delle vesciche, solo in confronto con Gogol’, lo stesso Puškin è una vescica.

E allora, anziché scriver di Puškin, è meglio se scrivo di Gogol’.

Anche se Gogol’ è tanto grande, che di lui non si può scrivere niente, pertanto scrivo di Puškin

Ma dopo Gogol’, scrivere di Puškin vien quasi vergogna. E di Gogol’ scrivere non si può. […]”

Allora eccoci a Gogol’ ed al libro di oggi, Racconti di Pietroburgo (Marcos Y Marcos, 2018, pagg 286, Euro 16): sono cinque racconti apparsi fra il 1835 e il 1842, che abbiamo letto nella traduzione viva, pulsante, spumeggiante di Paolo Nori; stiamo parlando di alcuni fra i contributi più esaltanti della narrativa dei grandi russi, sono cinque capolavori e sono Il Cappotto, Il Naso, Prospettiva Nevskij, il Ritratto e Memorie di un Pazzo.

Di fronte a Nabokov che si occupa di Gogol’, di Puškin che lo riconosce come un grande, di Charms che si zittisce di fronte a lui, noi umili estensori di queste note, cosa potremmo mai scrivere di nuovo? Niente, noi non vogliamo scrivere niente di nuovo, ma solo occuparci di questi splendidi racconti, fare capire quale perfetto marchingegno narrativo essi rappresentino, che enorme esempio di “buona letteratura” essi siano.

In Prospettiva Nevskij, che apre la raccolta, si parte con un’elegia del largo viale principale della capitale San Pietroburgo: per oltre venti pagine l’autore ce lo racconta, lo attraversa con noi, lo descrive, ci parla di cosa succede, sulla Prospettiva, alle varie ore del giorno e tutto questo finisce per rappresentare una vivida, splendida fotografia della società nella capitale russa negli anni Trenta dell’Ottocento:

“In questa ora benedetta fra le due e le tre del pomeriggio, quando la prospettiva Nevskij può essere chiamata una capitale che cammina, va in scena la principale esposizione delle migliori opere dell’uomo. Uno mette in mostra un’elegante finanziera del miglior castoro, un altro uno splendido naso greco, un terzo porta della basette superlative, una quarta un paio di begli occhietti e un cappellino stupefacente, un quinto un anello con un talismano sul mignolo elegante, una sesta un piedino in un’incantevole scarpetta, un settimo una cravatta che suscita meraviglia, un ottavo dei baffi che lasciano stupefatti”.

All’improvviso, la scena cambia, quasi in modo cinematografico, come se dopo un lungo piano-sequenza andassimo decisi su due soggetti, Pìrogov e Piskarev, che poi seguiremo, prima uno e poi l’altro, nelle loro peripezie per le vie di Pietroburgo, all’inseguimento di belle (ed un po’ equivoche) ragazze, nei loro piccoli appartamenti, nei ricevimenti dei più abbienti, e di nuovo per le vie di Pietroburgo.

Il Naso è un racconto folgorante, surreale, velocissimo, sempre in bilico fra lo sberleffo e il realismo, fra lo sfottò e la rappresentazione della cruda realtà della società russa di quel tempo, e delle relazioni che in essa si sviluppano; è ancora Nabokov che ci viene in aiuto, parlando di una “botola” che spesso è pronta ad aprirsi sotto i piedi del lettore che legge Gogol’, tante sono le sorprese, i cambi di ritmo, i diversi piani narrativi.

Sta di fatto che una mattina il barbiere Ivàn Jàcovlevic si ritrova un naso nella pagnotta cucinata dalla moglie Prascòv’ia Osipovna (personaggio che popola solo le prime tre pagine di questo racconto, ma che è certamente già leggendario, anche solo per questa breve apparizione): Prascòv’ja caccia via il marito a male parole, consapevole del grande trambusto che inevitabilmente nascerà, visto che, come volevasi dimostrare, il naso è di un assessore di collegio, il maggiore Kovalev.

Ecco Prascòv’ja:

“Non ci voglio neanche pensare! Che io lasci che a casa mia ci stia un naso tagliato via da qualcuno? Asino senza coda! […] Ah tu, porco idiota che non sei altro! Fuori di qua! Fuori! Portalo dove vuoi!”.

Le peripezie che porteranno l’assessore a riappropriarsi del suo naso sono molto divertenti e surreali, come quando Kovalev incontra il proprio naso (il quale dice di non conoscerlo: “Io sto per conto mio”) o quando glielo riportano, ma non si attacca e gli cade sul tavolo, o quando lui va per fare un’inserzione sul giornale e il funzionario gli dice che no, ma cosa dice, mica possono mettere sui giornali una cosa del genere:

“Che già così dicono che pubblichiamo delle assurdità e dei pettegolezzi”

Qualche parola anche per Il Cappotto che è un racconto crudele, inesorabile, perfetto nel suo incedere verso il disastro, dalla descrizione di Akàkij Akàkevic, travet in un ufficio zarista, della sua “impresa” di comprarsi un cappotto nuovo, e nella brutta fine che farà, con la sua città, Pietroburgo, che

“…era rimasto senza Akàkij Akàkkevic come se non ci fosse neppure mai stato”.

Ma affidiamoci ancora a Nabokov che dà questa mirabile sintesi di questo racconto:

“Il Cappotto di Gogol’ è un incubo grottesco e cupo che apre buchi neri nell’incerto disegno della vita”

Paolo Nori, che lo ha tradotto e su Gogol’ ha scritto ovviamente tante cose, ne ha scritta una, più o meno con queste parole, che forse sintetizza al meglio cosa si prova ad immergersi in questo autore e nei racconti contenuti nel libro di oggi: una riga vorrei ridere, quella dopo vorrei piangere. Ecco sì, forse questo è il senso dell’esperienza di leggere questi racconti, immergersi in gioie e dolori, viaggiare e ondeggiare fra essi; un po’ come la vita, in fondo.

 

Le citazioni sono tratte da:

Vladimir Nabokov, Nikolaj Gogol’, Adelphi 2014

Vladimir Nabokov, Lezioni di letteratura russa, Adelphi 2021

Daniil Charms, Disastri, Marcos y Marcos, 2011

Paolo Nori, Sanguina Ancora, Mondadori, 2021.

Per chi volesse “audioleggere” Memorie di un Pazzo, qui la lettura di Paolo Nori.

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Pubblicato da Leonardo Dorini

Manager, consulente, blogger. Mi occupo di finanza ed impresa, amo lo sport. Ma sono qui per l'altra mia grande passione: la letteratura.

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