Il Ballo: Irène Némirovsky nella tragedia del Novecento

Irène Némirovsky il ballo

In un’intervista del 2011, un’anziana signora racconta di una vicenda che è stata “una rivincita, una vittoria sulla storia che ci ha portato fino a qui”; lei è Denise Epstein, figlia di Irène Némirovsky (Kiev 1903- Auschwitz 1942), l’autrice di cui parliamo oggi.

Ed infatti la storia di questa autrice è del tutto particolare, e merita di essere raccontata, perché forse simboleggia perfettamente quella che Alessandro Piperno ha chiamato la “tragedia del Novecento”, questo secolo crudele che ha lasciato guerre, rivoluzioni, e tante storie strazianti che ne sono seguite.

Irène Némirovsky

La vita di Irène Némirovsky incarna tutte le contraddizioni e i conflitti delle società europee del suo tempo: ella fa parte di quella generazione di scrittori, abbiamo già incontrato in questa rubrica Vladimir Nabokov e Michail Bulgakov, nati sotto l’Impero zarista e poi sballottati dagli eventi della rivoluzione leninista: la famiglia di Irène infatti lascia la Russia nel 1917, si trattiene qualche anno in Finlandia, per poi approdare a Parigi nel 1919.

Irène diventerà, nel corso degli anni Venti, una scrittrice famosa: Susan Rubin Suleiman, che ha scritto su di lei una biografia molto minuziosa, fa notare in questa lezione che Némirovsky è fra le poche donne di quell’epoca a fare la scrittrice e, soprattutto, a vivere solo ed esattamente di questo (l’altro nome che fa è quello di Colette).

E quindi, se la storia finisse alla metà degli Anni Trenta, avremmo di fronte una giovane donna di successo, sposata con due figlie, in una Parigi certamente stimolante, ancorché con i postumi della Grande Guerra (come tutte le nazioni, peraltro).

Ma poi, la sua storia diventa controversa e drammatica, come si conviene a molto di ciò che ha riguardato quegli anni tragici. Inizia infatti a farsi strada anche fuori dalla Germania l’idea che gli ebrei debbano essere censiti e privati di diritti, che non possano essere parte integrante delle società in cui vivono, che non possano essere pienamente francesi, italiani o tedeschi; in Irène nasce un contrasto, si converte al cattolicesimo, non sappiamo se “solo” per sfuggire alla persecuzione o per reale convinzione.

E questo, come capita spesso, le crea una serie di problemi all’interno della comunità ebraica: e come accadrà decenni dopo per altri scrittori ebrei, come Richler e Roth – sia pure, fortunatamente, in contesti molto diversi, di pura critica sociale – Irène stessa viene criticata ed accusata di antisemitismo.

Anche perché – va detto – Némirovsky aveva riservato un trattamento non proprio clemente agli ebrei parigini: aveva analizzato con grande interesse, e anche con una certa dose di veleno, la ricca borghesia molto ben introdotta nella Ville Lumière: in “Fraternité” – un racconto – aveva fatto incontrare sul binario di un treno un ricco signore, chiamato beffardamente Cristian Rabinovitch, con un povero viandante ebreo, di nome Rabinovitch anche lui, a simboleggiare il dissidio di un popolo spiantato, che si radica e prospera, ma forse non riesce ad essere davvero accolto da nessuna parte.

Il libro

Anche il libro di oggi (“Il Ballo” Adelphi, 2005, pag. 85, Euro 9) ci porta in questo contesto: si tratta di un romanzo breve, scritto nel ’29, che in poche pennellate ci restituisce molti dei temi che abbiamo toccato: conosciamo una coppia di arricchiti, i Kampf, con una giovane figlia quattordicenne, Antoinette.

E’ Antoinette il personaggio centrale, con la (odiosa) madre Rosine Kampf, l’indaffarato padre, un’insegnante di inglese (Miss Betty), la servitù nel grande palazzo signorile: un classico della letteratura, con la madre terribile che rappresenta un tratto autobiografico, visto che Irène ebbe un rapporto molto conflittuale con la madre.

Vediamo l’incipit:

“La signora Kampf entrò nello studio chiudendosi la porta alle spalle così bruscamente che tutte le gocce di cristallo del lampadario, mosse dalla corrente d’aria, tintinnarono di un suono puro e leggero di sonagli. Ma Antoinette aveva continuato a leggere, china sullo scrittorio tanto da sfiorare la pagina con i capelli”.

Il modo di scrivere di Némirovsky è questo, quasi cinematografico: ci comunica scene in movimento, ritratti vividi, una narrazione fluida, fatta di piani sequenza: straordinaria da questo punto di vista è la narrazione concitata della prima parte di Suite Francese (Adelphi, 2005).

I coniugi Kampf organizzano il loro debutto in società, vogliono invitare duecento persone della Parigi che conta: è questo “il ballo”. Antoinette vorrebbe partecipare, vorrebbe la sua “parte di felicità”, ma la madre la stronca:

“-Roba da non crederci! Questa bambina, questa mocciosa, venire al ballo, figurarsi…Aspetta un po’ bella mia, ti farò passare io tutte le idee di grandezza…Chi ti ha messo questi grilli per il capo? Sappi, mia cara, che io comincio soltanto adesso a vivere, capisci, io, e che non ho intenzione di avere fra i piedi una figlia da marito”.

Antoinette troverà modo di architettare la sua tremenda vendetta, fino alla terribile scena madre finale, raccontata con eccezionale maestria e un crescendo di emozioni dalla scrittrice francese, che ci fornisce un bozzetto davvero gustoso ed emblematico di Rosine: una parvenue, in fondo, una donna povera di spirito, che si veste rapidamente perché ha

“quell’agilità particolare di chi, per tutta la vita, ha fatto a meno delle cameriere”.

Antoinette avrà la sua spettacolare e silenziosa rivincita per tutte le angherie subite, anche se l’ultima scena questo esito ce lo lascia solo intendere e ce la presenta come persona beffardamente mite, che sta per spiccare il volo e magnanimamente abbraccia la “Povera mamma”.

E’ un libro breve, scritto benissimo, pieno di sfumature, un piacere per chi ama la letteratura.

Irène Némirovsky sarà arrestata nel luglio 1942 nella casa di campagna in cui era sfollata, e deportata ad Auschwitz, dove morirà di tifo nell’agosto seguente; anche il marito Michel Epstein avrà la stessa sorte e non tornerà dalla prigionia. L’eredità di Irène, la sua valigia piena di manoscritti, viene affidata alle figlie: ecco la vicenda raccontata da Denise, che non aprì quella valigia per molto tempo, attendendo, invano, il ritorno a casa della madre, fino a quando, finalmente, si decise e ne fece emergere i suoi manoscritti, che ci hanno consentito di riscoprirne la grandezza.

A simboleggiare il tragico destino, la sorte cinica e beffarda di questa terribile vicenda, è il fatto che Irène, ebrea convertita al cattolicesimo, narratrice così profonda della società in cui si era saldamente inserita, morirà come “ebrea apolide”, non essendo mai riuscita ad ottenere la cittadinanza francese e con essa, forse, la salvezza.

Per fortuna quella valigia è stata aperta, e possiamo oggi rileggere questa autrice, capire ancora meglio i disastri di questa parte del Novecento, ma riscoprirne anche la grande letteratura.

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Pubblicato da Leonardo Dorini

Manager, consulente, blogger. Mi occupo di finanza ed impresa, amo lo sport. Ma sono qui per l'altra mia grande passione: la letteratura.

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