Il ventre molle della macchina

Negli ultimi giorni mi rimbalza in testa una domanda:  ma da quando esattamente l’automobile, “la macchina”, ha smesso di essere sexy? Guardavo scorrere le news, vedevo montare la gogna pezzo dopo pezzo per i carmakers e mi dicevo ok, li stiamo facendo a pezzi. Non è tanto il tema di  Volkswagen in sé e del dieselgate. Se la questione vi interessa sono usciti pezzi a bizzeffe, alcuni con ottime analisi, anche qui su Piano Inclinato. Io invece vorrei riflettere con voi su un’altra questione. Stiamo liquidando l’auto tedesca come capofila di tutta l’industria dell’autotrazione fossile (si decapita sempre e innanzitutto il più bravo e guarda caso gli altri incassano senza fiatare) ma in realtà stiamo liquidando l’automobile come medium guida del nostro immaginario. Vediamo di partire dal principio.

In fondo la macchina in quanto macchina è cambiata relativamente poco.  Certo, è migliorata tantissimo da quasi tutti i punti di vista (sicurezza, prestazioni, design, per dirne qualcuno) ma concettualmente la nostra rappresentazione mentale  del viaggio in macchina è rimasto più o meno quello. Siamo cambiati più noi. Siamo cambiati e stiamo ancora cambiando, tanto che la macchina alla fine non è più la stessa.

La fortuna della macchina come medium è stata portentosa.
L’abbiamo amata, l’abbiamo sognata e comprata, comprando in effetti una certa idea  di libertà e di autonomia, e lei ci ha scarrozzato un po’ ovunque.
Secondo McLuhan la macchina non tramonterà mai, perché è l’unico spazio in cui l’uomo occidentale riesce e riuscirà a raccogliersi in se stesso e a pensare. Non so quanto l’uomo pensi, chiuso o meno in macchina, per cui andrei oltre: al di là della sua natura e della sua funzione, l’automobile è un format che mette in scena la nostra parte animale. L’abitacolo della nostra auto è l’ultimo avamposto di quello specialissimo teatro personale in cui mettiamo in scena la nostra belluinità. Mentre ce ne andiamo in giro per mille ottime micro-ragioni razionali che solo Saint Exupery si ostinava a non capire, la mia mente è al centro e in pieno controllo su un nastro di realtà e visione che ci scorre velocissimo sotto le ruote e davanti agli occhi. Imbracciato a piene mani il volante è uno strumento di potenza che ci ha reso semi-dei.
Semi-dei piccoli piccoli e borghesi, se vogliamo, ma ognuno in fondo ha l’immaginario che si merita e che si cuce addosso.

Mario Pischedda & Alfredo Accatino, the artist is present (collezione privata di senso)
Mario Pischedda & Alfredo Accatino, the artist is present (collezione privata di senso)

Eppure negli ultimi cinque anni qualcosa si è rotto: l’auto come oggetto magico non convince più. La scrittura è connessa, il mondo è connesso eppure io alla guida non mi sento più tanto bene.

Non so voi, ma io ogni volta che in autostrada vedo una vettura galleggiare alla deriva tra le corsie, a un’andatura pericolosamente lenta, scopro sempre più di rado una vecchietta china alla guida e sempre più puntuale un omino che fa texting al volante.
“Non si fa!” D’accordo, il codice della strada lo vieta più o meno esplicitamente. Però voi fate la prova: posizionatevi a un semaforo pedonale e contate quante persone passano guidando col telefono in mano. Troppe. Troppo semplice condannare la dabbenaggine del singolo: #Luminol ci sta dicendo che è un #epicfail di progettazione: l’auto sta uscendo contromano dalla catena dei media che sentiamo essenziali per esprimerci. Se prima era una seconda pelle, ora l’automobile è una scorza di biscia gommosa e imbiascicabile. Ingombrante, polverosa e un po’ puzzona.

Come è potuto accadere tutto questo?
Da troppi anni gli ingegneri e i designer incaricati dalle case automobilistiche stanno perdendo l’occasione di progettare un’esperienza di guida connessa degna di questo nome. Ormai ci sono sensori ovunque: serbatoi e freni che parlano ai computer di bordo, pneumatici entrati sgommando nell’internet of things, marmitte che si accorgono se vengono testate(ops!) e smettono per un attimo di mettersi le dita nel naso.

E il guidatore? Il guidatore è connesso? No, l’uomo che guida, l’uomo che guarda twittare i freni no: se riceve un messaggino crepi se può rispondere. È vero: i comandi vocali degli smartphone consentono la dettatura, sopperendo in parte al difetto di progettazione delle vetture, ma rimane il fatto che al momento non c’è un layer di dati debitamente integrato al campo visivo di chi guida.

Nonostante il parabrezza sia uno schermo perfettamente adatto da almeno cento anni a interfacciare il nostro sguardo, incredibilmente tutto ciò non avviene. Mentre guidi puoi leggere il contagiri, le spie dell’olio, persino i messaggi elettronici sui cartelloni dell’autostrada, ma un sms no. Il flusso che ci tiene in vita, il nastro di parole che si fa mondo in noi e per noi è escluso dall’auto, non è omologato tra gli strumenti compatibili col volante. Qui si ferma la magia, qui l’auto accosta a destra e ci scarica mestamente. Inaccettabile. 

Little Data, Luca Melchionna | MART https://www.facebook.com/martrovereto/photos/a.84207202464.66949.44997517464/10152685377662465/?type=3&theater
Little Data, Luca Melchionna | MART

Nel frattempo la regola di McLuhan è spietata: quando un medium diventa superato, smette di essere medium e diventa contenuto dei media che lo soppiantano e lo ricomprendono come contenuto. Applicato all’automotive, l’auto smette di essere una protesi centrale del nostro sentire: il volante non è più l’estensione tattile delle tue dita (e tra l’altro da quelle parti non comincia nemmeno una chitarra). A questo punto il medium viene sottratto alla persona e diventa cosa: auto senza guidatore, una commodity che si guida da sé, qualcosa di più simile a uno skylift o a un drone che a una berlinetta sportiva da guidare.

Il nuovo media assoggetta e subordina l’auto sotto il giogo della connessione: se proprio sono costretto a scegliere tra guidare e restare connesso, scelgo di restare connesso: non è l’auto che interfaccia la connessione ma la connessione a sublimare l’auto.

Resta da capire come incanalare quella parte bestiale della guida, il maschio alfa (uomo o donna che sia), io che guido cristonando agli incroci. Che ne sarà di lei? Non prevedo il futuro. Guideremo droni? Ci sfogheremo in pista? Dopo la zona fumatori forse ci inventeremo anche la zona guidatori, i nuovi tossici che si fumano l’ultimo chilometro? Per i ghetti c’è sempre spazio, basta dare tempo al tempo. 

Il dieselgate indica forse che l’immaginario simbiotico crudo, estremizzato, inquinato, sudato alla Mad Max non sarà il mainstream della nostra bestialità motorizzata. Il congedo simbolico dalla macchina passa per una sua commodificazione, per una netta spersonalizzazione.

Intanto, tra un algoritmo, un sensore e un bunch di dati, si parla con insistenza di una guerra imminente tra Google e Apple per aggiudicarsi il dominio sull’ultimo device: l’auto senza pilota. In effetti è logico: è rimasto l’ultimo apparecchio non cablato. Nel frattempo lo stato dell’arte è questo: la macchina è un ferro vecchio, la vita è altrove, le persone proseguono imperturbabili a sintonizzarsi e a sintonizzare le proprie connessioni con altri media.

Al centro torna l’accesso al suo valore d’uso, le reti di fiducia e il capitale relazionale.
Sottovalutatissimo, il  patrimonio del capitale sociale e relazionale. Diffficile comprendere che in una piattaforma di carsharing il vero asset è la tutela del valore della nostra fiducia messa in moto. La fiducia, sempre lei, regna sovrana. Ne terremo conto prima o poi? Per ora la crisi dell’auto (crisi anche di comprensione) porta al tradimento da parte del brand più inaspettato, l'”auto del popolo”. Ma forse va bene così, o forse è tutta una macchinazione. Per cambiare paradigma energetico serve uno scossone, e il dieselgate in fondo è perfetto, almeno in questo.

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Pubblicato da Filippo Pretolani

Non tutto quello che esiste implicitamente ha bisogno di essere reso esplicito — Peter Sloterdijk. Fondatore di Gallizio editore e co-fondatore dell’Istituto Kaspar Hauser per gli Studi Economici.

2 Risposte a “Il ventre molle della macchina”

  1. Post interessante, il modo di considerare l’auto e di guidarla cambiera’ nei prossimi 15 anni molto piu’ di quanto non abbia fatto negli ultimi 50. L’uso dell’auto in citta’ e’ sempre stato disfunzionale, lo si era capito gia’ negli anni ’60, ma solo adesso abbiamo il modo di rinunciarci davvero in ambiente urbano: il mix di trasporto pubblico (dalle metro automatiche ai tram e bus in corsia protetta) bicicletta e car sharing in tutte le sue forme, rendera’ l’uso dell’auto privata in citta’ sempre meno necessario. Questo sta succedento gia’ adesso in Europa, basta fare un giro a Londra, Berlino o Bruxelles.
    Per gli spostamenti extra urbani il discorso e’ simile, con la differenza che la guida semi-automatica oggi (poi totalmente automatica) rendera’ l’esperienza del viaggio piu’ simile al sedersi in treno e guardare fuori dal finestrino che non alla guida come la intendiamo oggi.

    Una anticipazione del futuro la puo’ avere gia’ oggi chi guida una Tesla Model S, una bella berlina totalmente elettrica, con sistemi di guida semi-automatici e totalmente connessa a internet. Oggi c’e’ solo lei in commercio, per il 2030 saranno molte di piu’ le automobili cosi’.

    1. totalmente d’accordo, Marco.
      Da un po’ penso che meriterebbe una riflessione ulteriore. Non l’ho inserita qui perché ho voluto soffermarmi su come il sistema auto ha perso il treno della connessione in questi ultimi dieci anni. Esattamente come il libro aveva rinunciato a mettere in discussione il proprio statuto e il proprio ruolo nell’ultimo ventennio del ‘900, con l’avvento della tv commerciale, l’automobile non ha voluto e saputo connettersi alla connessione imperante. E adesso?

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