“L’ora miracolosa che almeno una volta tocca a ciascuno. Per questa eventualità vaga, che pareva farsi sempre più incerta col tempo, uomini fatti consumavano lassù la migliore parte della vita” (Dino Buzzati, “Il deserto dei tartari”)
“…un bel panettone tradizionale, di quelli bassi che facciamo noi, signora Rinaldi?”
“no, grazie, le solite paste secche”.
Era stata più secca di quelle paste, in realtà deliziosamente friabili e soavemente burrose, la risposta della signora Rinaldi, secca pure lei nell’elegante cappottino azzurro polvere, la borsetta nera stretta al braccio e le labbra appena velate di rosa pallido sdegnosamente serrate a irrigidire la mascella squadrata del volto severo, giusto perché fosse chiaro che il discorso era finito lì.
Uscita dalla pasticceria si incamminò su via Della Moscova, oltrepassò l’incrocio con Corso di Porta Nuova, gettò uno sguardo alla piazzetta con la statua di San Francesco e la fontana dell’acqua marcia con l’usuale contorno di piccioni impertinenti e si diresse decisa verso casa: nonostante il cielo terso e il sole che si specchiava nelle vetrine dei negozi, sentiva il freddo che dal marciapiede penetrava le suole in gomma degli stivali irrigidendo le dita dei piedi e propagandosi in tutto il corpo. Di tanto in tanto, passando davanti a un negozio le cui porte si aprivano proprio in quel momento veniva investita da uno sbuffo di aria calda, mentre qualche altoparlante diffondeva sulla via quella stupida canzoncina natalizia:
“ jingle bells, jingle bells, jingles all the way…”
E in effetti su tutta la strada, come del resto in tutto il centro di Milano, era un tripudio di campanelle, di luci colorate e pulsanti, di renne complete di slitta di tutte le fogge e dimensioni, di spaventosi ed enormi fantocci canuti, barbuti e vestiti di rosso che con un sacco sulle spalle si arrampicavano su per i balconi, col rischio che qualche esagitato poco lucido con il complesso di Walker Texas Ranger sparasse loro in qualche notte buia, e addio imprudente Babbo Natale.
Si infilò frettolosamente nel portone di uno stabile vecchiotto ma con qualche pretesa, attraversò a passo marziale l’atrio al centro del quale troneggiava un alberello di Natale stracarico di ghirlande pelose e colorate e puntò verso la cabina del vetusto e cigolante ascensore tutto vetri e legni. Dovette dribblare (ma lo fece con sciolta eleganza) quel noioso rompiballe dello Scrigna, l’anziano inquilino che occupava uno dei due appartamenti del primo piano, liquidando gli auguri che andava distribuendo inspiegabilmente garrulo da una settimana con uno sbrigativo
“…ngiorno”.
L’ascensore si arrestò con un lieve singulto al quarto ed ultimo piano e la signora Rinaldi osservò compiaciuta la porta di casa del Colonnello Bonfanti, al pari della sua lustra e nuda, ovvero priva di qualsiasi ghirlanda, festone o altra decorazione natalizia di dubbio gusto, e si sentì infine in salvo.
Ma in salvo da cosa? Dall’insincero, superficiale, irritante cerimoniale delle celebrazioni del Santo Natale. Che per una come lei, sessantasette anni, figlia unica, nubile, e per di più convintamente agnostica, si traduceva in una lunga e inevitabile rottura di scatole, soprattutto in un’era che tutto anticipava e dilatava, svilendo e svuotando di qualsiasi significato ed infine annoiando a morte.
7 dicembre, Sant’Ambroeus: quando era bambina l’attesa del Natale iniziava esattamente e irrevocabilmente proprio quel giorno, con la fiera degli Oh Bej Oh Bej, che allora si dispiegava tra la Basilica di Sant’Ambrogio e via Lanzone. Vi si trovavano variopinte bancarelle di dolciumi e mostarde, e anche decorazioni natalizie artigianali di ogni tipo; vi erano i castagnatt che vendevano castagnaccio, caldarroste e quelle castagne secche bagnate nel vino bianco e infilate in un lungo pezzo di spago. Era bambina e le sembrava tutto bellissimo, e non sentiva nemmeno il freddo perché mamma e papà stringevano le sue piccole mani guantate camminando al suo fianco.
Poi arrivava la sera della vigilia: la mamma toglieva dalla credenza i piatti belli, quelli bianchi con il bordo intarsiato in guisa di trina e orlato con una sottile striscia in oro zecchino, insieme al servizio di bicchieri in cristallo – acqua vino e spumante – e puliva tutto con uno strofinaccio umido. Anche la tovaglia era quella delle grandi occasioni, candida e spessa, con l’orlo finemente ricamato, perché il giorno dopo a pranzo sarebbero venuti i nonni, tutti e quattro. Sarebbe stato il pranzo più lungo dell’anno, con gli antipasti, i ravioli, la faraona e il coniglio arrosto e infine il panettone, quello basso che i nonni materni ordinavano alla Pasticceria Cova in Montenapoleone, e lei di nascosto toglieva le uvette che detestava e le lanciava sotto il tavolo al gattone grigio che si chiamava semplicemente Micio, il quale ne era ghiotto. Rammentava bene la frenesia del risveglio nella mattina di Natale, quando prima di fare colazione tutti assieme avrebbero aperto i pacchetti che nel corso dei giorni precedenti si erano pian piano accumulati sotto l’albero (non erano famiglia da Presepe), decorato con le stesse fragilissime palline scintillanti per molti anni.
L’appartamento era il medesimo nel quale oggi viveva da sola, in via Della Moscova: allora c’erano un paio di pareti in più che poi erano state abbattute per allargare cucina e soggiorno, ed era sparita la carta da parati. Anche i mobili erano stati tutti sostituiti, a parte un comò e un piccolo secretaire a ribalta Luigi Filippo ai quali era affezionata, ma il parquet in camera da letto era lo stesso di allora e riconoscibile, se non proprio uguale, era il panorama che si scorgeva dal balcone.
Cercava sempre di usare un certo criterio nell’apertura dei pacchetti, incominciando da quelli meno allettanti e più piccini per riservarsi come sorpresa finale la rivelazione del dono dei genitori, che sapeva essere quello che appagava il suo desiderio più grande, quello che stava in cima alla lista stilata diligentemente sulla letterina per Babbo Natale. In un certo senso, aveva fatto così anche nelle sue scelte sentimentali: solo che l’attesa dell’ultimo regalo, quello più bello, era stata vana.
La famiglia Rinaldi possedeva e gestiva una prospera agenzia viaggi in Corso Venezia. Dopo la laurea in lingue, la giovane e intraprendente Aurelia aveva deciso di fare la hostess per girare il mondo facendo un mestiere che all’inizio degli anni ‘70 esercitava un certo fascino e suggeriva una condizione di libertà. Se da un lato quella professione le consentì di svincolarsi da una famiglia un poco troppo protettiva per il suo spirito tendenzialmente ribelle, dall’altro le rivelò ben presto la fallacia delle sue aspettative.
Si ritrovò infatti a vedere innumerevoli aeroporti e alberghi senza avere il tempo di conoscere le città nelle quali atterrava, delle quali aveva appena una visione affrettata, e finì per essere fagocitata da un ambiente esclusivo e in una certa misura alienante nel quale si intrattenevano rapporti fugaci come la permanenza nelle destinazioni di volo: ci si sfiorava appena, senza alcun interesse ad andare più in profondità, e senza comunque averne l’opportunità. Eppure, vi era stato un tempo in cui la consapevolezza di tanta superficiale frenesia non la disturbava affatto e trovava soddisfacente questo stile di vita, tanto che nei brevi periodi di riposo in cui stava a Milano non vedeva l’ora di ripartire, trovando irrimediabilmente tediosi gli amici e i conoscenti di un tempo.
Benché non propriamente bella, Aurelia era una donna di grande fascino. Alta e magra, il portamento naturalmente elegante e persino involontariamente altero, aveva un volto squadrato dai lineamenti decisi, la carnagione chiarissima e trasparente, capelli castani mossi e folti che amava portare lunghi e grandi occhi dall’iride color nocciola, lo sguardo attento e vivace. Era il tipo che quando entrava in una stanza affollata richiamava su di sé l’attenzione dei maschi presenti con la semplice presenza. Nel corso di quegli anni ebbe molte storie, nessuna delle quali abbastanza importante da desiderare che durasse.
Smise di volare al compimento del trentesimo anno di età e quando fu destinata alla programmazione dei voli comprese che si era chiuso un periodo. Erano gli anni ’80 e viveva a Milano, la città che in Italia realizzò e rappresentò meglio di qualunque altro luogo la discrasia della ricerca dell’affermazione individuale e dell’epicureo godimento del presente con l’evanescenza inconsistente del pensiero e delle azioni: poté dunque perseverare in quella sorta di distopica leggerezza, fino a quando non divenne insostenibile.
Avvenne il 17 febbraio del 1992, quando con l’arresto di Mario Chiesa saltò il coperchio del celebre vaso di Pandora e Milano patì un brusco risveglio dalla lunga ubriacatura del decennio precedente, scoprendosi tuttavia più disincantata e cinicamente possibilista, perché vi sono soglie che, una volta oltrepassate, non consentono d tornare indietro.
Quel lunedì alle due del pomeriggio Aurelia ricevette la telefonata che le annunciava che suo padre aveva avuto un infarto ed era in rianimazione al Fatebenefratelli. Giunse in ospedale che il genitore presentava già la composta inespressività della morte, e osservando il volto rigidamente immoto di sua madre comprese che avrebbe presto perduto anche lei. Campò in effetti ancora un paio d’anni, ma smarrita in una dimensione lontana e inaccessibile.
Lasciata la compagnia aerea Aurelia prese ad occuparsi dell’agenzia viaggi di famiglia, potendo contare sulla sua personale esperienza nel settore e sulla competenza di fidati collaboratori alle dipendenze del padre da anni. Col tempo iniziò a comprendere che la lievità del suo stile di vita, quella spensierata supponenza che vi fosse ancora tempo e che l’occasione giusta per fermarsi sarebbe prima o poi arrivata si era retta sul presupposto fondamentale di un punto fermo solido e inalienabile che era la sua famiglia, con il sereno e incondizionato sostegno al quale l’avevano abituata.
Non sono diventata genitrice, di conseguenza non ho mai smesso di essere figlia.
Guardandosi allo specchio, si era resa conto che invece il tempo era passato e l’effetto più vistoso non era ancora leggibile sulla sua persona ma piuttosto nell’infastidito disinteresse che principiava a nutrire verso certi ambienti e certe frequentazioni, come pure nel disagio spaesato con il quale si muoveva per la casa vuota. Le venne allora in mente di cercare Francesco, l’amico di sempre: un coetaneo troppo timido e un poco scialbo, colui che per anni l’aveva amata in silenzio e senza speranza alcuna, ma non per questo con meno fedeltà e tenacia, e che le era stato molto vicino anche quando erano scomparsi il padre e poi la madre. I loro rapporti si erano ultimamente un poco allentati, ma certamente non era preparata alla notizia che stava per sposarsi con una ragazza straniera assai più giovane di lui.
Aurelia Rinaldi aveva abbozzato, gli aveva propinato i migliori auguri con una punta di inferocito sarcasmo che quello non aveva colto e si era convinta che l’agenzia viaggi in Corso Venezia nella quale ormai trascorreva le giornate sarebbe stata il luogo nel quale avrebbe incontrato il compagno che certamente il destino le aveva riservato, e per il quale all’improvviso nutriva un deciso interesse. O forse l’incontro sarebbe avvenuto altrove, chissà.
Invece le giornate erano semplicemente trascorse, sempre più veloci e meno sorprendenti e il suo orizzonte era rimasto ugualmente vuoto, finché pian piano il suo aspetto aveva finito per acquisire una severa rigidità che pareva riflettere una risentita delusione. Quando l’agenzia aveva incominciato ad arrancare, sopraggiungendo le opportunità di prenotazioni dirette e più economiche offerte dalla rete, aveva venduto tutto e si era ritirata: del resto, a sessantacinque anni incominciava ad essere un po’ stufa dell’impegno quotidiano.
Aveva smesso di aspettare l’incontro fatale, ci aveva messo una pietra sopra senza fare troppi drammi, ma nel periodo natalizio la sua solitudine, che non era alleviata dalla pur consolatoria e saltuaria compagnia di qualche amica sola come lei, le appariva più irrimediabile e più vistosa, inasprendo il suo atteggiamento già solitamente incline a una certa pungente asciuttezza.
Di conseguenza, Aurelia Rinaldi odiava il Natale: non sopportava le cataste di panettoni e pandori farciti con qualsiasi cosa, tranne forse le acciughe, che invadevano le corsie di ogni supermercato, né la biancheria intima rossa che non avrebbe indossato nemmeno quando era ragazzina, né tantomeno la smania augurale che coglieva invariabilmente tutti quanti, compresi quelli che ti avrebbero lasciato morire sulle scale mobili della Rinascente senza staccare gli occhi dallo schermo di un maledetto telefono cellulare.
Il suo riservatissimo vicino di casa – stava lì da qualche anno e sapeva che era un colonnello in pensione perché la portinaia a suo tempo aveva ritenuto di informarla con un certo compiaciuto sussiego, come se la sua presenza desse lustro al condominio – era il solo di tutta la scala a non appiccicare stelle di Natale o ghirlande di aghi di pino sull’uscio, e già solo per questo le ispirava una moderata simpatia. E anche un filo di curiosità, perché di quell’uomo alto e ancora prestante, capelli grigio ferro con un terribile taglio militaresco a spazzola molto sfumato sulla nuca, dal viso aperto rischiarato da uno sguardo azzurro intrappolato in una fitta ragnatela di rughe, non sapeva nulla, a parte la sua evidente solitudine. Lo incontrava spesso, le cedeva cavallerescamente il passo, buongiorno e buonasera e nulla di più.
Ne percepiva i movimenti discreti dall’altra parte della parete del soggiorno. La signora Teresa, amabile e zelante ficcanaso che una volta alla settimana la aiutava a fare le pulizie in casa e svolgeva il medesimo servizio nell’appartamento accanto, sosteneva che fosse pulitissimo e assai ordinato:
“…e poi un vero signore, sempre elegante e gentile. Ed è chiaro che dorme da solo, non so se mi spiego”.
Si spiegava, ma non erano affari suoi, la rimbeccava prontamente la Rinaldi. La quale però ogni tanto nel merito si faceva delle domande: ma così, senza un particolare interesse.
La mattina della vigilia di Natale lo incrociò sul pianerottolo. Aveva appena finito di fare colazione con quelle deliziose paste secche e usciva per andare a comprare il pane. Lo vide emergere dall’ascensore, o meglio vide prima sbucare dalla cabina una scatola di cartone rettangolare alta come lui, il quale toccava il metro e novanta. Pareva leggera, perché lo osservò sospingerla senza fatica e poi tornare nell’ascensore per scaricare ancora un paio di voluminosi scatoloni, altrettanto leggeri. E si insospettì.
Rincasò poco dopo, e dall’appartamento accanto non udì provenire alcun suono. Fu nel primo pomeriggio che incominciò a sentire una serie di rumori – lo stridio di una poltrona trascinata sul pavimento, brusche lacerazioni di cartone, qualche debole tintinnio. Durò una buona mezz’ora e Aurelia non riusciva a concentrarsi nella lettura, distratta da quei suoni che la riportavano all’improvviso e suo malgrado indietro nel tempo, quando nel pomeriggio della vigilia la casa si riempiva di rumori felici, perché ci si preparava per il pranzo di Natale. Si riscosse al suono del campanello che la fece sobbalzare, e scrutando dallo spioncino vide il Colonnello Bonfanti in maniche di camicia.
“…scusi tanto se la disturbo la vigilia di Natale, ma ho rotto le forbici, potrebbe prestarmene un paio, per cortesia?”
Ha rotto le forbici. Ma che diavolo sta facendo? Non rispose nemmeno e mentre andava in cucina a prendere le forbici pensava al suo sguardo franco e alla sua imponente figura, e quando tornò con le forbici in mano l’uomo stava davanti alla porta del suo appartamento dove lei lo raggiunse, e dove ristette impietrita.
Il soggiorno era ampio e confortevole, due pareti erano occupate da un’alta libreria a scaffali carica di volumi, e in mezzo alla stanza si ergeva fiero e spoglio un grande albero di Natale.
“…la prego, entri. Mi sono imbarcato in questa impresa e non saprei spiegare il perché. Nostalgia, chissà, forse sto davvero diventando vecchio. Senta, le andrebbe di aiutarmi?”
Aurelia aveva l’impressione di stare dentro una bolla di sapone dalla quale osservava le immagini dolcemente distorte e udiva i suoni affievoliti, ma percepì lo sguardo dell’uomo posarsi lieve e carezzevole sulla sua persona. Sentì che la bolla scoppiava con un morbido plop e si lasciò abbracciare da quell’occhiata nella quale riconobbe qualcosa che non ebbe bisogno di definire.
Un paio d’ore dopo l’albero risplendeva, colorato e festoso e due persone abbondantemente adulte lo contemplavano trasognate, pensando a tutt’altro.
Dopo poche ma essenziali chiacchiere erano passati con naturalezza ad un confidenziale “tu” e il Colonnello Bonfanti era divenuto semplicemente Euclide, poiché quello era il suo insolito nome di battesimo, che sulla targa posta sopra la porta compariva solo come E. tra “Colonnello” e “Bonfanti”.
“Puoi immaginare cosa sia stata la mia adolescenza, con il peso del nome di un teorema sulle spalle? Molte volte ho pensato che se mi fossi chiamato Aldo o Giuseppe forse non avrei nemmeno scelto la carriera militare”.
“Sapessi come ti capisco, dal momento che porto il nome di un’antica strada o di una vecchia automobile…”
Sorridere di niente, assaporare una complicità dimenticata, sfiorati dal dubbio – dalla timida speranza – di essere pronti a cambiare il proprio tranquillo e rassegnato vivere quotidiano in cambio di questa sensazione di completezza.
Sui capelli di Aurelia, corti e ancora castani solo grazie all’abilità di un bravo parrucchiere, luccicavano alcune pagliuzze dorate che l’uomo tolse con delicatezza, sogguardandola pensoso.
“…mia gentile vicina di casa, come minimo ti devo la cena. Ti fidi della mia cucina?…scusa, se non hai altri impegni, naturalmente, dato che è la vigilia di Natale”,
disse infine, sapendo benissimo che Aurelia trascorreva da tempo in solitudine la sera della vigilia e persino il giorno di Natale, perché glielo aveva raccontato quella pettegola della signora Teresa.
Aurelia pensò che fortunatamente era stata dal parrucchiere il giorno prima, passò velocemente in rassegna gli abiti che aveva nell’armadio, calcolò che avrebbe fatto in tempo a correre in pasticceria a comprare un panettone tradizionale, di quelli bassi, e valutò che i ravioli e la faraona che avrebbe cucinato il giorno dopo bastavano abbondantemente per due, così rispose
“…accetto, a condizione di poter ricambiare domani a pranzo, a meno che tu non abbia…”
“…non ho. Accetto con piacere, davvero”.
Vi fu a questo punto un lungo istante di silenzioso imbarazzo, come un tempo di sospensione che si dissolse subito nell’aria svanendo senza lasciare scia alcuna, come un profumo troppo leggero. Aurelia Rinaldi si accorse allora che Euclide aveva negli occhi azzurri una luce gioiosa che lo faceva sembrare un ragazzo, e pensò che forse, dopotutto, la vita può sempre riservare un’ultima, bellissima sorpresa.
N.d.A.: potevo forse negarvi un lieto fine, l’antivigilia di Natale? Sappiate che l’uscio di casa mia rimarrà fieramente disadorno, per spirito di contraddizione, per amor di polemica e perché sì, ma ho molti bellissimi (e lontani) giorni di Natale nel cuore. Ci incontreremo di nuovo in questo salotto sabato 13 gennaio, tanto da qui a là avrete tutti da fare. Un abbraccio, e buone cose. (L’Autrice)
Dolcissimo.
Racconto molto bello come del resto anche gli altri. Ho scoperto da pochissimo che Lei è una scrittrice (da suo padre) e credo che leggerò quanto pubblicherà con molto interesse.
Luisa Andreoli