Jobs Act. Gufare con moderazione

Finalmente completato, il Jobs Act si rivela più una prova della capacità di riformare che un decisivo cambiamento del mondo del lavoro.
Da più parti sento riferire il giudizio di commentatori stranieri, campione limitato e difettoso dei taumaturgici investitori esteri, che dicono:

“finalmente, va bene così, qualcosa è cambiato”.

Immagino abbiano capito poco, ma, pure fosse, sarebbe un ottimo risultato e dovremmo accontentarcene.
Si è girato a lungo, goffamente, attorno al totem della illicenziabilità, tanto che avevamo perso di vista la reale portata della questione. Dimenticando che, nel frattempo, le riduzioni di personale nelle aziende in difficoltà sono avvenute comunque.
Tutto ciò che restava era il senso di inconcludenza, che agli occhi stranieri, alcuni in particolare, temo appaia come segno di inadeguatezza della stirpe.
Se non altro questo ce lo siamo levato.
Portiamo a casa anche la dimostrazione che non dobbiamo aspettarci troppo dai provvedimenti legislativi. Se questo è tutto quello che si può ottenere, abbiamo la sana riconferma che la crescita non possiamo che costruircela da soli, in autonomia, senza grandi spinte e senza grandi disegni strategici nazionali.
Ho partecipato a diverse ristrutturazioni aziendali, come ristrutturatore e come ristrutturato. In aziende pubbliche, dove non esiste profitto ma interessi di gruppi; in aziende private, dove esiste il profitto come regola di management; e in aziende padronali, dove esiste il profitto puro, e anche molta emotività.
Io di cattiveria non ne ho mai vista troppa. Non ontologica. Non generalizzata. Molto ricorso ai capri espiatori, semmai. O la deliberata costruzione di un sistema costrittivo con condizioni piuttosto chiare, dove chi non sa o non vuole starci finisce per lasciare comunque.
Non credo che applicare la licenziabilità con risarcimento a tutti i lavoratori avrebbe prodotto un’ecatombe. Credo invece che avrebbe liberato le organizzazioni dal peso di situazioni appesantite e irrecuperabili. Ma la volubilità delle persone è tanta e ancor più le debolezze del giudizio. Per questo sarebbe stato necessario introdurre una buona dose di viscosità nel sistema, sotto forma di risarcimenti piuttosto elevati per i licenziamenti individuali.
Invece questo Jobs Act confina la licenziabilità discrezionale ai nuovi assunti, concentra lì le leve di manovra, prevedendo oltretutto indennizzi piuttosto limitati. Per i prossimi anni, il periodo che più ci interessa, saranno dell’ordine di pochi mesi di stipendio.
Anche a regime, i massimi di 24 mesi o di 18 mesi esentasse, per le conciliazioni incentivate, non sono in linea con la storia, con i casi più noti e nemmeno con le esigenze concrete di chi è colpito dal licenziamento.
Quindi, nel breve la riforma è poco rilevante e nel lungo, probabilmente, un po’ difficile da sostenere per una popolazione che nel frattempo si sarà ulteriormente impoverita.
Delle ulteriori norme contenute nella legge mi colpisce l’obbligo di riconoscimento del part-time per maternità. Purtroppo esistono molte situazioni organizzative che rendono quasi inutile un lavoratore part-time. Se questa vuol essere una compensazione, è impropria. È un principio sano che le regole sul lavoro stabiliscano i limiti nell’impiego del personale, ma non si sostituiscano alle aziende su specifiche decisioni di organizzazione del lavoro.

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Pubblicato da Luca Bianchetti

Laureato in ingegneria e psicologia, ha un MBA. Ha fatto il consulente direzionale con società multinazionali, si è occupato di molti progetti di trasformazione e di ridisegno dei processi. Iscritto al PRI nella prima repubblica, non sa più a che santo votarsi.

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