John Cheever, Bullet Park e il crudele sogno americano

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Le passioni giovanili, anche in campo letterario, talvolta ritornano. E’ il caso dell’autore di oggi, incontrato molti anni fa e rimasto lì come qualcosa da riprendere, prima o poi: lo sappiamo, i libri e gli autori non hanno scadenza, ci aspettano, per essere riscoperti magari quando siamo più pronti, più maturi, più esperti.

JOHN CHEEVER

Oggi parliamo di John Cheever (1912-82), di cui quest’anno si sono celebrati i quarant’anni dalla morte; di lui, Alessandro Piperno (cui spesso ci rivolgiamo come critico, oltre ad amarlo come romanziere) ha scritto su La Lettura del 23 settembre 2021:

“Non sempre l’amore per la vita è ricambiato. Anzi, a dirla tutta, non lo è quasi mai. E ciò non di meno, alcuni di noi si ostinano ad amarla con pervicacia. Ecco, non mi viene in mente nessun racconto di Cheever che non si faccia carico di questa dispendiosa ostinazione”.

Sempre l’autore romano ci informa che addirittura Vladimir Nabokov (1899-1977), “dalle vette della sua proverbiale schifiltosità”, considerava Cheever uno dei pochi contemporanei “degni di nota”, ciò che dovrebbe già dirci qualcosa, se è vero, come è vero, che Nabokov ebbe parecchio da ridire persino su Dostoevskij.

Un altro critico da noi particolarmente amato, Antonio D’Orrico, su Sette nel 2015, riportava una lettera di Cheever che ci pare un buon punto di partenza per il nostro pur breve viaggio nel lavoro di questo autore; è un passo in cui egli parla di due mostri sacri, molto più giovani di lui, certamente più famosi (e forse anche più talentuosi, chissà), John Updike (1932-2009) e Philip Roth (1933-2018):

“Col suo romanzo Coppie John [Updike] è diventato milionario [….] E’ venereo in maniera oscena ma le descrizioni di donne svestite sono splendide. Negli ultimi tempi sono stati fatti grandi progressi nella scrittura di passatempi venerei […] Phil Roth è alla testa del gruppo. E mentre i miei amici descrivono orgasmi, io indugio ancora sulla bellezza della stella della sera”.

IL LIBRO

Beh, ci sembra che questa carrellata sia un buon modo per introdurre questo personaggio, di cui proprio Roth esaltava “l’incantato realismo” (ci torneremo): il romanzo di cui trattiamo oggi è Bullet Park (pubblicato nel 1969, abbiamo letto l’edizione Feltrinelli del 2020, 232 pagine, Euro 12).

Abbiamo di fronte, in questo romanzo, due maschi americani quarantenni, si direbbero due “family man”, una figura che torna spesso nella produzione cheeveriana: uno è Elliot Nailles e l’altro è Paul Hammer (l’autore gioca anche sull’accostamento fra il martello – hammer – e i chiodi – nails); la struttura narrativa del romanzo peraltro lo fa sembrare una raccolta di due racconti, sui nostri due protagonisti, che l’autore fonde attraverso alcuni espedienti narrativi (peraltro interessantissimi) e soprattutto al breve, concitato e grottesco finale che riunisce e conclude le vicende di Nailles ed Hammer.

Siamo a Bullet Park, un classico sobborgo della città con le abitazioni della borghesia, la Chiesa, i circoli ed i Club, il treno dei commuters per New York e l’incipit è proprio alla stazione: un primo espediente narrativo Cheever lo usa dando la parola ad un agente immobiliare che descrive il posto (Hammer cerca casa) e ci porta dentro alcune abitazioni di persone apparentemente “a posto”, ma che, grattando un po’ sotto la superficie, hanno più di un problema; come i Wickwire:

“Affascinanti, brillanti, incandescenti, la loro agenda era piena di impegni dal primo settembre al quattro luglio. Erano dei veri operatori sociali, gran sacerdoti del dio mondano che si servivano del proprio fascino e del loro spirito per innalzare tutte le cose ad un livello di mondana socialità”.

Ma…c’è un ma, perché questi coniugi, a causa dei loro eccessi:

“Precipitavano perennemente giù dalle scale andando a sbattere contro mobili spigolosi o finivano in qualche fosso con l’automobile”.

Ecco, quindi, un gioco che Cheever coltiva spesso in questo romanzo: la patina esteriore di benpensante borghesia e la contrapposizione con la cruda realtà delle cose, le difficoltà di gestire una vita complicata, di trovare un equilibrio, come sarà chiaro dal seguito della storia.

Entriamo poi in casa Nailles, conosciamo la moglie Nellie, il cane Tessie, il figlio adolescente Tony; e qui, di nuovo, la situazione pare idilliaca, a partire dalla sincera devozione di Elliot per la moglie:

“Nailles amava Nellie. Se aveva un destino manifesto, questo era di amarla e se mai lei fosse morta, lui si sarebbe gettato fra le fiamme della sua pira […] Nel corso degli anni gli si erano offerte occasioni con molte altre donne, ma ogni volta che veniva preso di mira […] il suo membro virile pareva assumere un penoso atteggiamento di disinteresse, quasi ad indicargli la via del ritorno”

Il racconto prosegue, Tony ed il padre non hanno un buon rapporto (lui romperà ben cinque televisori per impedire al figlio di guardare troppi cartoni); il ragazzo ad un certo punto non esce più dalla sua stanza, cade in una depressione che il padre chiamerà in maniera ipocrita “mononucleosi” (e vedremo in quale rocambolesca maniera ne uscirà), mentre Elliot cadrà nella dipendenza di alcune non meglio precisate “pastiglie”, quasi a voler risolvere così tutti i problemi di questo mondo.

Nella seconda sezione del romanzo, il narratore introduce il personaggio di Paul Hammer e, citando un suo scritto, gli lascia la parola: si passa così al racconto in prima persona ed è ora Hammer che ci racconta la sua storia un po’ bislacca di figlio illegittimo, con madre un po’ svitata, padre socialista ancorchè molto ricco (ed assente); lui viene affidato alla nonna, che gli dà il nome di Hammer perché in quel momento vede passare un lavorante in possesso di un martello.

La rendita assegnatagli dal padre consente a Hammer di peregrinare fra America ed Europa, spesso anche in Italia, seguendo le sue inclinazioni piuttosto strambe, come quando si innamora del colore alle pareti di una residenza e fa di tutto per ottenerla, riuscendoci.

La cruda realtà sotto la superficie luccicante ed agiata, nel caso di Hammer, è quella di una crescente dipendenza dall’alcol (tema autobiografico, Cheever si sarebbe curato dall’alcolismo solo nel 1975) e da una crescente instabilità emotiva, mascherata da un vagare per il mondo, che non troverà requie nemmeno nel (solo apparentemente) placido sobborgo di Bullet Park.

La scrittura di Cheever è precisa, realista, a pennellate molto nette: chi conosce il certamente più noto Raymond Carver (1938-88), suo più giovane collega (e compagno di forti bevute, purtroppo), può farsi un’idea più circostanziata. Ma, come affermava Roth, si tratta di una narrazione non avulsa da un affabulare talvolta ironico, talaltra incantato e surreale, che pare ricordare Gogol’ o anche Erofeev (ad esempio quando vengono descritti i deliri alcolici dei personaggi, o la lucida follia in cui scivola Hammer, o lo stato psicotico della moglie Marietta).

Questo romanzo è certamente cupo, cinico, forse rassegnato, rasentando un esito da commedia nera: è, anche questo, un romanzo sull’incomunicabilità, sulla crudeltà del sogno americano, sulla difficoltà di vivere una società falsa e conformista. Un romanzo modernissimo, un autore straordinario, da riscoprire e rileggere ancora ed ancora.

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Pubblicato da Leonardo Dorini

Manager, consulente, blogger. Mi occupo di finanza ed impresa, amo lo sport. Ma sono qui per l'altra mia grande passione: la letteratura.

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